sabato 15 novembre 2008

Sentenza Diaz: La legge NON e' uguale per tutti

Qui di seguito una serie di articoli sulla scandalosa e vergognosa sentenza di assoluzione per il massacro commesso alla scuola Diaz nel luglio 2001.

Ancora una volta si conferma la tesi che in Italia la giustizia non esiste e che la legge NON e' uguale per tutti.


Quel senso di ingiustizia che torna dopo 7 anni
di Marco Imarisio - Corriere della Sera - 14 Novembre 2008

«Vergogna, vergogna». Come sette anni fa, davanti ai cancelli di quella scuola. Con le stesse persone, gli stessi cori, in più soltanto la stanchezza e la frustrazione di una attesa lunghissima e vana. Mancano i lampeggianti e il cordone di carabinieri dagli occhi spaventati che tenevano lontano i no global. Il resto è uguale a quella notte del 21 luglio 2001.

L'inizio e la fine, un cerchio che si chiude perfettamente con scene e sgomento identici. La rabbia, «assassini, assassini», qualcuno che cerca di lanciarsi in avanti, un caldo folle, sudore e lacrime sui volti delle vittime definitivamente convinte di aver sbagliato ad affidarsi alla giustizia. Oggi come allora. Due Italie, una sempre più forte dell'altra, come dimostra il sorrisino di superiorità del giudice Barone al partire dei cori, mentre si ritira dopo la lettura del dispositivo che commina tredici condanne, quelle che non contano nulla, 36 anni contro i 108 invocati dall'accusa, sedici assoluzioni. E alle vittime lo sfregio di risarcimenti irrisori (una media di 4.000 euro) rispetto alle richieste delle parti civili (20.000 euro a testa). La sentenza fa a pezzi le tesi dell'accusa. Avvalora in pieno la linea fin dall'inizio proposta dal Viminale, quella delle poche mele marce in un cesto florido e sano. Le condanne sono acqua fresca, sempre e comunque mitigate. Lasciano intravedere... una certa riluttanza nel propinarle, e la riduzione ai minimi termini della gravità dei fatti. Ad esempio, il vicequestore Michelangelo Fournier, quello della «macelleria messicana», prende due anni comprensivi di non menzione, con le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. Condannato, ma giusto un poco. I magistrati avevano strutturato la loro requisitoria in tre parti.

Il VII Reparto mobile di Vincenzo Canterini, i funzionari accusati di aver firmato falsi verbali di perquisizione, sequestro e arresto, compresi quelli riguardanti le celebri molotov false, e i vertici apicali. È sempre apparso chiaro che il processo si sarebbe giocato sulla parte centrale. Il «taglio» del collegio giudicante è stato draconiano. Colpita solo la base della piramide.

Gli unici a pagare davvero per la vicenda delle molotov false, che dovevano essere la prova regina della pericolosità dei 93 no global arrestati alla Diaz, sono stati i meri esecutori della parte iniziale dell'inganno, i soli riconosciuti. L'autista Michele Burgio, alla guida del defender che porta le false prove alla Diaz, il vicequestore Pietro Troiani, ex collega di Canterini, che le prende in consegna. Assolta la pedina seguente, il vicequestore Massimo Di Bernardini, che nel domino dell'accusa costituiva l'anello di congiunzione con la catena di comando di quella notte. Ma le anomalie nella gestione delle molotov cominciano infatti dopo che Troiani se ne spossessa, in un susseguirsi di comportamenti che è lecito definire irragionevoli. Ogni eventuale legame superiore è stato invece reciso: le false molotov furono una libera iniziativa di due oscuri gregari. La prova della colpevolezza dei vertici apicali di quella notte, Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, non si è mai formata durante il processo. Ma le firme degli altri funzionari su verbali che attestano il falso sono sempre sembrate l'ostacolo più massiccio alla assoluzione di tutto il gruppo dirigente. In quattro anni e 170 udienze, la difesa non ha mai prodotto un teste che sostenesse la veridicità del contenuto di quei verbali. Nessun testimone.

Ma anche qui la scelta dei giudici è stata minimale: l'élite dei funzionari italiani di Polizia si è fatta buggerare in massa dalle poche mele marce dei ragazzi di Canterini, ai quali va evidentemente riconosciuta una sagacia non comune.

Fa male vedere un vecchio che urla e piange. Arnaldo Cestaro, 70 anni, una spalla rotta e tre operazioni per rimetterla a posto, inveisce contro lo Stato italiano, in piedi su una poltrona dell'aula bunker. Accanto a lui le altre vittime di quella notte, Lena Zulke, la ragazza tedesca che divenne l'immagine simbolo, una maschera di sangue portata via in barella. E poi tutti gli altri, un avvocato maturo e compassato come Vittorio Lerici che vorrebbe buttare la toga «per la delusione», e quel coro martellante, «vergogna, vergogna», i reduci no global attoniti, Vittorio Agnoletto spaesato come non mai. Il caldo che pulsa alle tempie, le urla, le ferite ancora aperte, il senso di ingiustizia. Come quella notte.


Credibilità azzerata
da Comitato verità e giustizia per Genova - 15 Novembre 2008

Lo stato ha perso anche l'ultima occasione per tutelare la credibilità della polizia e la dignità delle istituzioni, perdute nella strade, nelle scuole e nelle caserme di Genova nel luglio 2001: la sentenza di ieri al processo Diaz dimostra che siamo di fronte a una gravissima emergenza democratica. Le 13 condanne confermano ciò che non si poteva negare: la "macelleria messicana", gli arresti arbitrari eseguiti sulla base di prove false. Il 21 luglio 2001 la Costituzione fu sospesa, i diritti umani e le libertà civili calpestati.

La mancata risposta dello stato a questa gravissima lesione ha reso più allarmante il quadro: nessuno ha ripudiato quell'operazione indegna né chiesto scusa ai cittadini umiliati; si è negata l'istituzione di una commissione d'inchiesta; l'azione della magistratura è stata ostacolata; gli alti dirigenti imputati, che andavano sospesi, sono stati addirittura promossi; gli stessi dirigenti hanno rifiutato di presentarsi al processo, esercitando un loro diritto di imputati, incompatibile però sul piano etico
e professionale con le responsabilità di così alti funzionari dello stato, che dovrebbero sempre rendere conto del proprio operato e collaborare con la magistratura.

Alla fine il vertice della polizia italiana ha ottenuto tutto ciò che voleva - protezione e legittimazione politica, assoluzione sul piano giudiziario, impunità per tutti - ma l'onta non è stata cancellata e la sua credibilità è azzerata davanti ai cittadini e agli occhi del mondo. In aggiunta si è mandato ai lavoratori di polizia un messaggio gravissimo e pericoloso: anche a fronte di comportamenti brutali e illegali, non c'è nessuno che paga; nel peggiore dei casi, i condannati saranno salvati dalla prescrizione.

Per le istituzioni democratiche è un prezzo altissimo da pagare. Passati sette anni, finiti i processi, oggi dobbiamo dire che la Costituzione italiana e la tutela dei diritti che vi sono sanciti, non sono in buone mani.


G8 di Genova: nella pioggia di sangue i capi passano fra le gocce
di Alessio Marri - Megachip - 14 Novembre 2008

Ora proviamo semplicemente a volgere lo sguardo su qualcosa di più rassicurante. Proviamo tutti insieme a farci scivolare addosso anche questa. Proviamo a sorvolare sull'ennesima prova di inciviltà dello Stato italiano. Proviamo a mantenere il nostro equilibrio interiore come se nulla fosse avvenuto. Proviamo a non indignarci, a tirare avanti, a rifugiarci nella nostra insulsa quotidianità di cittadini senza diritti, a lasciare che altri se ne occupino perché Altri hanno preso le manganellate, Altri sono stati messi sotto processo per reati mai commessi, Altri hanno subito ripetutamente questa insana violazione delle proprie libertà personali e mentali. Proviamo banalmente a giustificarci, ad autossolverci, a liberarci dal peso di una notizia che in alcuni di noi ha sortito esclusivamente quel mero e futile espediente dal retrogusto fortemente qualunquista “Tanto si sapeva”.

Proviamo a evitare una seppur minima riflessione ponderata. Proviamo ad allontanare dal nostro stomaco quei manganelli impazziti, che per dieci, cento, mille volte infierirono su corpi inermi a terra, poi spintonati e infine massacrati fino a far schizzare il sangue su pareti e finestre. Proviamo a dimenticare quella maledetta notte, quella maledetta scuola, a non considerare questa sentenza di tribunale la reiterazione aggravata della “macelleria messicana”. Proviamo a cambiare canale mentre al telegiornale ci diranno distrattamente in terza o quarta fascia che i capi, i mandanti esecutori sono stati assolti come in un eterno circolo di ingiustizia sociale. Proviamo a fare tutto questo e avremo perso l'ultima goccia di vitalità democratica, la nostra dignità.

Come in una pellicola incantata in periodi lontani, sono state fatte saltare le teste dei meno privilegiati, i sottoposti del VII nucleo mobile di Roma. Le semplici bestie inferocite e affamate liberate nell'ovile indifeso. Tre anni per loro. Quattro all'unico “pezzo grosso” condannato: lo scomodo Vincenzo Canterini. Nella spirale folle di contiguità ideologica tra azione repressiva delle forze dell'ordine e istituzioni legalizzate, che ha visto la promozione degli imputati più alti in grado, è stato risucchiato persino Angelo Fournié, l'unico agente disposto a collaborare attivamente con la giustizia. A lui “solo” due anni, evidentemente per incentivare il resto della truppa a seguire il suo coraggioso esempio.

Le assoluzioni seguono invece un percorso straordinario nella loro brutalità. A nulla è servita l'esclusiva video inchiesta della Bbc che inchiodava gli imputati più alti in grado alle proprie responsabilità e confermava senza dubbi la messa in atto di un'azione pianificata nei dettagli: la creazione fraudolenta di prove giustificanti la scandalosa irruzione. Quelle Molotov venivano infatti da Corso Italia ritrovate nel pomeriggio del 21 luglio, almeno sette ore prima del sequestro al primo piano della Diaz. Le stesse che nel codice penale sono considerate arma da guerra e servono per sopperire alla mancanza di elementi per sancire gli innumerevoli fermi e arresti. Le stesse che spariranno dagli archivi del tribunale senza alcuna spiegazione.

Nei fotogrammi del cosiddetto “viaggio delle molotov” si distinguono nitidamente tutti i responsabili di comando: Francesco Grattieri, allora capo della Sco, il Servizio Centrale Operativo, poi promosso capo dell'Anticrimine; Giovanni Luperi, nel 2001 vice-capo dell'Ucigos, il reparto operazioni speciali, poi promosso capo del dipartimento analisi dei servizi segreti; Spartaco Mortola, capo della Digos di Genova, oggi vice questore vicario di Torino; e così via, in un elenco sterminato di promozioni e pacche sulle spalle. Come quella sbalorditiva di Gianni De Gennaro, capo della Polizia nominato sotto D'Alema, poi divenuto capo di gabinetto del ministro dell'Interno Giuliano Amato nel 2007, sempre sotto governi di centro-sinistra. Il personaggio che - ricevute sollecitazioni durante il blitz dall'allora leader del Prc, Fausto Bertinotti - rispose freddamente «quella scuola non è un'ambasciata, non c'è giurisdizione extraterritoriale».



Genova: una storia d'impunita'
di Mario Braconi - Altrenotizie - 15 Novembre 2008

Nella notte del 21 luglio 2001 diverse squadre della Mobile di Roma irrompono nella Scuola Diaz di Genova, dove sono accampati un centinaio di ragazzi che hanno partecipato alle manifestazioni contro il G8. Risultato: un centinaio di ragazzi feriti, un’ottantina di arresti arbitrari. Dopo 200 udienze, il tribunale di Genova, dopo dieci ore di camera di consiglio, ha condannato 13 dei 28 poliziotti imputati ad un totale di 36 anni: condanna minima rispetto ai 110 anni richiesti dai PM Zucca e Cardona Albini, chiamati a giudicare su una bruttissima storia di pestaggi selvaggi ed indiscriminati ai danni di giovani innocenti ed inermi, aggravati da conclamati episodi di crudele accanimento sulle vittime. Esemplari al proposito le vicende di una ragazza, manganellata sul capo fino a farle uscire della materia cerebrale, stando all’orripilante testimonianza di Michelangelo Fournier, all'epoca del G8 a Genova vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, condannato ieri a due anni e quella di un giornalista britannico, cui rappresentanti delle forze dell’ordine, a forza di calci, hanno fatto percorrere volando il perimetro di una stanza.

Non sono mancati casi di simulazione di reati su cui la verità giudiziaria ha dato risposte contrastanti: la vicenda dell’accoltellamento dell’agente da parte di un manifestante, per il quale sono stati chiesti dal PM quattro anni di condanna al poliziotto per simulazione di reato, si è conclusa con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”; mentre anche il verdetto del tribunale ha confermato che la vicenda delle molotov ritrovate alla Scuola Diaz è stata frutto di una penosa messinscena maldestramente messa in atto da rappresentanti delle forze dell’ordine, nel tentativo di giustificare la cieca brutalità cui si sono abbandonate in quella tragica notte del 2001.

E proprio questa condanna a far pensare che ci sia una grave mancanza nella sentenza del tribunale, che sembra smontare la tesi della omogeneità dei comportamenti criminosi lungo tutta la catena di comando, dai vertici fino agli esecutori materiali. I casi sono due: o i capi non sapevano quello che facevano i sottoposti (e questo è gravissimo e comunque prefigura la responsabilità oggettiva), oppure lo sapevano, e dunque erano al corrente delle loro comportamenti criminali, atti di depistaggio compresi. Da questa prospettiva, il caso di Michelangelo Fournier, uno dei poliziotti oggi condannati per gli eventi della Scuola Diaz, che a giugno dello scorso anno ha deciso di vuotare il sacco su alcune scomode verità che riguardavano gli eventi del 21 luglio 2001, è esemplare.

Nel corso di una testimonianza in aula, Fournier ha ripetuto la frase con la quale già durante la sua prima deposizione (2002) aveva descritto la scena che gli si presentò davanti agli occhi subito dopo l'irruzione: “Una macelleria messicana”. Secondo Fournier, all'interno della scuola si stava perpetrando un vero e proprio pestaggio crudele e sistematico, caratterizzato da episodi particolarmente gravi di accanimento su ragazzi a terra; vale a dire, una situazione del tutto opposta a quella descritta dal suo capo, Canterini (comandante del Settimo nucleo del Primo Reparto Mobile di Roma), il quale, nonostante abbia sostenuto di esser giunto sul posto subito dopo la fine delle violenze e di non essere in grado di individuarne i veri responsabili, è stato condannato per lesioni personali aggravate e violenza privata.

E’ sempre Fournier a riferire di essere intervenuto più volte per tentare di arginare gli atti di barbarie e di essere stato costretto a togliersi il casco per farsi identificare dal suo collega che, non pago di aver manganellato la testa una ragazza fino a rompergliela, mimava atti sessuali sul suo corpo esanime. Fournier ha giustificato il suo silenzio prima del giugno 2007 con un atteggiamento dettato da “spirito di appartenenza”.

A prescindere dalla ragione che ha spinto Fournier a tradire quello “spirito di appartenenza” che per lungo tempo gli ha impedito un'altra appartenenza, quella al genere umano (ma questo riguarda la sua coscienza), sembra credibile la tesi del tribunale, secondo cui gli atti criminosi perpetrati dai poliziotti alla Diaz sarebbero imputabili a un manipolo di schegge impazzite? Se Fournier era il “poliziotto buono” che diceva “basta!” ai suoi colleghi (e sottoposti) più scalmanati senza peraltro riuscire a calmarli, come funziona la polizia in Italia?

Resta una vicenda vergognosa, scempio di corpi e diritto avvenuto a governo di destra appena insediato. Le “mani libere” che hanno prodotto la sospensione delle leggi e delle norme tutte, lo schiacciamento militare del dissenso politico. Le prove generali di un regime che, quando anche si processa, lo fa per autoassolversi.


Porca Diaz
Lameduck blog - 14 Novembre 2008

“Un due tre, viva Pinochet, quattro cinque sei, a morte gli ebrei, sette otto nove, il negretto non commuove”. (Anonimo tutore dell'ordine, Genova 2001)

Quando viaggiavo ogni giorno da studente pendolare mi capitò di dividere lo scompartimento del treno con due signori che, dai discorsi che facevano, si qualificarono come appartenenti alle forze dell'ordine. Chiacchieravano e si scambiavano i resoconti delle ultime avventure. "Eri di servizio ieri, per la partita?" "Si, quante gliene abbiamo date ai rossi. E domenica sarà ancora meglio. Siamo a Livorno, sai quante zecche rosse potremo menare?" "Te ne toglierai la voglia, eh?" "Puoi scommetterci".

Io ascoltavo e mi chiedevo se fosse normale che dei tutori dell'ordine potessero parlare così, riferendosi per giunta solo ad una partita di calcio. Figuriamoci se si fosse trattato di manifestazioni politiche.

Quando tutti noi abbiamo visto Genova ci siamo resi conto che l'andata al governo delle destre aveva amplificato il problema in senso ancor più drammatico.

Proviamo ad inquadrare il paradosso. Nella scuola Diaz, nella notte cilena di Genova, si scatenò un bel gruppetto di mele marce, tutte rigorosamente selezionate e tutte nere uguali, più lucide delle Melinda, che agirono in assoluta libertà fabbricando prove false, assalendo e ferendo cittadini italiani e stranieri inermi come Mark Covell, lasciando abbondanti pozze di sangue alla fine della loro sortita (definito succo di pomodoro dai giornalacci di regime).

I loro superiori, se dobbiamo credere alla sentenza di ieri, non c'erano o dormivano o stavano giocando a carte con Fini in questura, per passare il tempo. Adda passà a nuttata.
Cioè, ripeto, le mele agirono violando una mappata di articoli del codice penale e i loro superiori, ecco il paradosso, ancora a distanza di sette anni non trovano doveroso assumersi la responsabilità di ciò che i loro sottoposti fecero di illegale, pur ammettendo affinità con certi macellai messicani. Vaja con Dios, chingado comunista coño.
A ben guardare non sono stati assolti i vertici della polizia e condannate le mele. Sono stati tutti mandati impuniti. Perchè il fatto non sussiste, oltretutto.

In questo paese mostruoso che è l'Italia, in questo tumore piduista abbarbicato al culo dell'Europa, è possibile, è tollerato che, all'interno delle forze dell'ordine, vi sia un vero e proprio allevamento di mele marce, tutte rigorosamente fasciste con "faccetta nera" come suoneria del cellulare, gente che come vede un manifestante in piazza pensa sia una "zecca comunista" e che è capace non solo di agire contro la legge ma con il beneplacito dei suoi superiori.

Immaginiamo se un fatto come quello della Scuola Diaz fosse accaduto in Francia o in Germania, paesi che ho il viziaccio di considerare veramente democratici e civili.
Dei poliziotti aggrediscono di notte, pestandoli a sangue, dei manifestanti che stanno dormendo gridando "viva Vichy e Le Pen" o invocando Adolf Hitler, i forni crematori e il Reich millenario. Riuscite a credere che i capi delle rispettive polizie ma non solo, i capi dei governi, non avrebbero reagito con orrore e a colpi di dimissioni ad un tale rigurgito di nazifascismo? Ricordo che in Italia non c'è stata una sola dimissione né volontaria né richiesta, per i fatti di Bolzaneto, della Diaz e di Piazza Alimonda.

E' una forzatura allora pensare che in Italia il problema è la polizia politicizzata? E non politicizzata e basta ma in senso fascista?
Si, perchè nelle forze dell'ordine sono rappresentate tutte le voci politiche e ci sono fior di galantuomini. Non saranno proprio tutti proletari da difendere pasolinianamente ma sappiamo per certo che c'è chi si è vergognato per la mattanza della Diaz. Il guaio è che le mele belle, lucide e sane non parlano e se parlano lo fanno con voce troppo flebile.
La polizia italiana non è fascista, sono i fascisti che la inquinano che vorrebbero che lo fosse.
Oggi Pasolini direbbe che sta con i poliziotti, ma non con quelli fascisti. E questa Italia gli ricorderebbe sempre più le 120 giornate della sua Salò.