Una serie di articoli sugli scenari internazionali e le diverse opzioni che Obama si ritrovera’ di fronte nei prossimi mesi.
Ma ben presto ci si potra’ rendere conto se effettivamente con Obama alla Casa Bianca gli USA hanno deciso di cambiare veramente e di intraprendere una strada del tutto nuova.
Comunque lo scetticismo in materia resta assolutamente d’obbligo.
Mosca attende Obama alla prova dei fatti
di Carlo Benedetti – Altrenotizie – 6 Novembre 2008
Dal Cremlino il messaggio con le congratulazioni ufficiali per il presidente Obama non è ancora partito, ma c’è già un segnale di “buon lavoro” (carico di pragmatismo) che viene da Dmitrij Medvedev, impegnato in patria in un discorso sullo stato dell’Unione. Il presidente russo ha infatti approfittato dell’occasione per mandare a dire ad Obama che “la Russia non permetterà a nessuno un ruolo dominante e personalistico, dal momento che il mondo non può essere guidato da una unica capitale. Chi si rifiuta di capirlo - ha detto Medvedev - provocherà nuovi problemi a se e agli altri”. E in questo contesto il presidente del Cremlino ha auspicato un nuovo accordo sulla sicurezza europea che permetta di affrontare in modo concordato i nuovi conflitti. Per quanto riguarda le minacce rappresentate da un sistema globale antimissilistico, dalla catena di basi militari che accerchiano la Russia, dall’allargamento smisurato della Nato, il presidente russo ha poi assicurato che la Russia “senza farsi coinvolgere in una nuova corsa agli armamenti sarà comunque costretta a tenerne conto per garantire la sicurezza dei suoi cittadini”.
Messi questi punti fermi Medvedev è passato ad accennare all’elezione presidenziale americana, esprimendo “l’auspicio che la nuova amministrazione sappia compiere una scelta a favore di migliori rapporti a tutto campo con la Russia, fra cui il controllo sugli armamenti”. Ma a parte queste affermazioni in stile diplomatico (ma cariche anche di significati ben precisi) il presidente russo - rivolgendosi alle due Camere del suo paese ha voluto rilanciare le accuse contro la politica "egoista" e "unilaterale" americana. Ha ribadito che sul Caucaso Mosca "non torna indietro" e ha annunciato lo schieramento di una batteria di missili "anti-scudo" al confine con la Polonia. Ed ha spiegato che una batteria di missili a corto raggio Iskander sarà collocata nell'enclave di Kalinigrad (ex Koenigsberg), sul Baltico, e affiancata da dispositivi elettronici per creare interferenze in grado di ostacolare il funzionamento dello scudo antimissile. Inoltre non sarà più smantellata la divisione missilistica di Kozelsk, di stanza a Kaluga, nella Russia centrale.
E’ ovvio, in questo contesto, che il Cremlino non rinuncia a porre in primo piano la questione del Caucaso. Medvedev ha voluto ricordarlo in queste ore, rilevando che l’aggressione georgiana all’Ossezia del sud e la crisi finanziaria globale sono servite da pretesto per introdurre nel Mar Nero la marina della Nato e imporre all’Europa lo scudo spaziale americano. La Russia - ha ribadito - non potrà fare a meno di prendere le opportune misure di contrasto per bloccare quell’avventura georgiana che, travalicando i limiti regionali, ha messo in forse gli istituti della sicurezza internazionale. Anche la crisi finanziaria - ha continuato il leader del Cremlino - è nata come un fenomeno locale, americano, che ha assunto in breve un carattere globale. Medvedev ha poi aggiunto che è sintomatico che alcuni problemi assumano una dimensione globale in un mondo così interdipendente. E’ venuto quindi il momento - secondo Mosca - di creare meccanismi in grado di “bloccare decisioni errate, egoistiche o pericolose prese da alcuni paesi”.
La lezione che viene dagli errori e dalla crisi di quest’anno - si sostiene al Cremlino - ha dimostrato che bisogna agire per riformare in maniera radicale il sistema politico ed economico: “In questa direzione la Russia è pronta a collaborare con tutte le parti interessate, gli Stati Uniti, l’Unione Europea, i paesi in rapida crescita come Brasile, Cina, India”. Dobbiamo fare il possibile - questo l’appello di Medvedev - per rendere il nostro mondo più giusto e più sicuro.
Per ora, quindi, nessun cambiamento di indirizzo. Molto pragmatismo caratterizzato dall’attesa. E’ uno stile ben noto che ha sempre caratterizzato la diplomazia del Cremlino. Ma ci sono anche voci divergenti che, ovviamente, arrivano sino alla Casa Bianca. Tra queste quella di un personaggio che pur contando come il due di briscola - e cioè il leader dei comunisti Gennadij Zjuganov – che sostiene che “chiunque vada alla Casa Bianca, condurrà nei confronti della Russia la stessa poco amichevole politica che Washington ha condotto negli ultimi anni”. Duri poi i commenti dell’ala neo-fascista, che parla di Obama in termini dispregiativi evidenziando non il suo ruolo politico quanto il colore della pelle. Per i fascisti russi questo chernokozhij, uomo di pelle nera, è già un nemico.
L’agenda di pace per Obama
di Johan Galtung – Megachip – 4 Novembre 2008
Un nuovo inizio? Sì, lo è. La barriera razziale infranta, il referendum sul 43° presidente USA George W. Bush stravinto, ci sarà un cambiamento essenziale nell'immagine USA in tutto il mondo. Alla gente in giro per il mondo piace amare gli USA, verruche comprese. Bush l'ha reso impossibile per quasi tutti, Obama lo rende facile, naturale. La vittoria più massiccia per un candidato democratico dal 1964, una valanga di voti, un Paese con un solo partito; presidenza, senato, camera dei rappresentanti, uniti. La strada è aperta.
Bene, può essere un Nuovo Inizio: può non esserlo. La politica estera di Obama non è anti-imperiale, se lo fosse stata, avrebbe vinto McCain. Ramon Lopez-Reyes (lop-rey.zop-hi@worldnet.att.net), psicoanalista freudiano e junghiano con una profonda comprensione culturale del mondo, nonché tenente-colonnello in pensione con tre anni in Vietnam che deplora vivamente, vede McCain come un'incarnazione dell'archetipo dell'eroe-guerriero, con un disturbo post-traumatico da stress. Un uomo molto pericoloso.
L'elezione aveva a che fare con la funzione di amministratore del morente impero USA e, nelle parole di T.S.Eliot “E' questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con un botto ma con un gemito.”. McCain l'avrebbe finito in un botto, forse perfino nucleare.
Obama lo farà in un gemito. Impersona molto di quanto il mondo spererebbe da un presidente mondiale. Il mondo gli regalerà una luna di miele, forse un centinaio di giorni dall'insediamento del prossimo 20 gennaio. Ma se lo vedrà percorrere in sostanza le stesse piste calpestate dal suo predecessore non ci sarà carisma a salvarlo. Ci sarà delusione e sarcasmo da tutte le parti e la sua mancata gestione della caduta accelererà garbatamente il processo. E qui Lopez-Reyes lo vedrebbe come un alchimista che tenta di produrre oro in un laboratorio di cui non ha né comando né comprensione.
Si erge contro le forze dei trattati segreti, le scoperte segrete provenienti dalla comunità dei servizi segreti, i complessi militari-industriali, le grandi aziende USA e – lo spettro oscuro – l'effettiva minaccia di assassinio. John F. Kennedy. Martin Luther King Jr.
Eppure ci sono possibilità, nonostante i suoi consiglieri, la vecchia banda di Buffet, Powell, Summers, Brzezinski. La posizione di Obama sull'Afghanistan assomiglia all'analisi di Brzezinski del grande gioco di scacchi, ispirato alla geopolitica di un secolo fa di McKinder, che considera l'Asia Centrale cruciale per il controllo del mondo – visione che ha affascinato parecchi presidenti USA.
Vedere l'Afghanistan come centro del “terrorismo” è sbagliato; può esserlo per la resistenza musulmana in Cecenia e Kashmir, ma non per i musulmani dei 25 e più paesi calpestati dall'Occidente nell'ultimo secolo. Il comunismo ha potuto cedere alla realtà e implodere, incapace di superare il distacco fra mito e realtà. Ma l'Islam, come il cristianesimo ha un patto con forze divine, messe alla prova non nella realtà sociale ma nelle anime dei devoti. Non ci sarà mai alcuna capitolazione.
La guerra è invincibile, non valgono un paio di brigate in più, i paesi europei sono arcistufi di tutta questa faccenda e hanno sempre più l'impressione, come gli svizzeri quando si sono ritirati nel marzo scorso, di essere stati invitati a un mantenimento della pace che è risultato essere un'imposizione della pace, nulla meno che una guerra. Un miliardo supplementare di dollari all'anno in assistenza non-militare a Kabul-Karzai alimenterà la corruzione. E per quanto riguarda il tentativo di dividere i talebani quando sono tutti compatti contro la secolarizzazione, potrà essere possibile solo se gli USA si ritireranno del tutto.
La sua politica sul Medio Oriente congela l'incontenibile. Il sostegno a Georgia e Ucraina come membri NATO rilancia una seconda guerra fredda. E in Medio Oriente: la sicurezza di Israele non è negoziabile, ma passa attraverso una pace equa con tutti i vicini. I quali sono pronti.
Qualche via d'uscita? Sì, ce n'è una: negoziati segreti, dai quali si esce con un accordo già fatto. Obama sembra disposto a parlare senza precondizioni e si avvantaggerebbe mollando i suoi consiglieri a Washington. C'è in Obama qualcosa di nuovo, fresco, quanto mai necessario al mondo. Potrebbe semplicemente capire che per risolvere un conflitto ci deve essere uno scambio di qualcosa (tit for tat), come ritirare missili dalla Turchia in cambio della stessa operazione da parte dell'URSS a Cuba. Esigere che tutti gli altri recedano in cambio di nulla è Impero. E la magia non c'è più.
Vada in Corea del Nord offrendo un trattato di pace, relazioni diplomatiche, una normalizzazione, non limitarsi a toglierli dall'elenco dei “terroristi”, anzi abbandonare quello stupido vocabolario. Il problema nucleare sparirà. Come succederà in Iran, se presenterà le scuse per il colpo di stato della CIA e del M16 [servizio segreto britannico, ndt] del 1953 contro Mossadeq, primo ministro legalmente eletto. Ripari il passato. Riconosca gli errori, in cambio di soluzioni verificabili. Orientamento alle soluzioni, non alla guerra.
Per il Medio Oriente, parli con Hiz-bullāh, Hamas, la Siria. Sono disposti a riconoscere un Israele più modesto con confini fissi prossimi ai limiti del 4 giugno 1967 in cambio della fine dell'occupazione, possibilmente con una zona denuclearizzata in Medio Oriente.
Vada in Russia, rispetti le loro preoccupazioni, concordi una soluzione tipo Andorra per l'Ossetia del Sud e una federazione per l'Ucraina. Cessi l'espansione NATO in cambio dell'assenza militare russa nelle Americhe. Lasci che la Russia sia se stessa.
E mantenga la promessa dei 16 mesi in Iraq, con l'aggiunta di un'offerta generosa per la ricostruzione del paese dopo la sua devastazione, giungendo persino ad ammettendo che l'invasione del 2003 è stata un errore.
In breve, cerchi di cortocircuitare le solite insidie dell'Impero. E gli USA ne guadagneranno enormemente sia a livello globale sia internamente.
Tenga però solo presente: Cambiare, Sì lo possiamo fare! (Change, YES, WE CAN!)
Titolo originale: 4 November: A New Beginning?http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=366
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis (con piccole revisioni di Megachip)http://www.cssr-pas.org/portal/2008/11/4-novembre-2008-un-nuovo-inizio-johan-galtung/
* Johan Galtung (Oslo, 1930) sociologo e matematico, ha fondato nel 1959 l'International Peace Research Institute e la rete “Transcend” per la risoluzione dei conflitti. È uno dei padri della “peace research”. Svariate istituzioni internazionali si sono rivolte a lui per consulenze in materia di mediazioni di conflitti. È autore di un centinaio di libri e migliaia di articoli.
L'agenda di guerra per Obama
di Daniel R. Coats e Charles S. Robb* - The Washington Post – 7 Novembre 2008
Traduzione di Pino Cabras
È probabile che il primo e più urgente problema di sicurezza nazionale che dovrà affrontare il prossimo presidente sia la crescente prospettiva di un Iran con capacità di armamento nucleare. Dopo aver presieduto insieme una task force ad alto livello di recente conclusa sul tema dello sviluppo del nucleare iraniano, siamo giunti a ritenere che cinque principi devono servire quale fondamento di qualsiasi politica ragionevole, bipartisan e globale sulla questione iraniana. In primo luogo, una Repubblica islamica dell'Iran con capacità di avere armi nucleari sarebbe strategicamente insostenibile.
Minaccerebbe la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la pace e la stabilità regionale, la sicurezza energetica, l'efficacia del multilateralismo, e l'efficacia del Trattato di non proliferazione (TNP). Mentre un attacco nucleare è lo scenario peggiore ipotizzabile, l'Iran non avrebbe bisogno di usare un arsenale nucleare per minacciare gli interessi USA.
Il semplice ottenimento della capacità di assemblare rapidamente un'arma nucleare doterebbe efficacemente l'Iran di un deterrente nucleare e moltiplicherebbe drasticamente la sua influenza in Iraq e nella regione. Mentre saremmo lieti di cooperare con un Iran democratico, il consentire che il Medio Oriente cada sotto il dominio di un regime clericale radicale che sostiene il terrorismo non dovrebbe essere considerata una valida opzione.
In secondo luogo, riteniamo che l'unica accettabile chiusura dell'argomento sia la completa cessazione delle attività di arricchimento dell'uranio all'interno dell'Iran. Presumiamo che nessuna combinazione di ispezioni internazionali o co-proprietà delle strutture di arricchimento offrirebbe sufficienti garanzie che l'Iran non stia producendo materiale fissile della qualità necessaria a produrre armi.
Di fatto, l'impianto di arricchimento di Natanz è già tecnicamente in grado - una volta che l'Iran disponga di una sufficiente riserva di uranio a basso arricchimento - di produrre abbastanza uranio altamente arricchito per un ordigno nucleare in quattro settimane. Cioè abbastanza velocemente da eluderne l'individuazione da parte degli ispettori internazionali.
Inoltre, il Consiglio di sicurezza dell'ONU in tre occasioni ha chiesto la cessazione dell'arricchimento in Iran, e l'Agenzia internazionale dell'energia atomica ha giudicato che l'Iran non ottemperava al TNP. L'incapacità di far rispettare questi mandati potrebbe essere un colpo mortale per il fragile equilibrio internazionale.
In terzo luogo, mentre una risoluzione diplomatica è ancora possibile, può avere successo solo se negoziamo da una posizione di forza. Ciò richiederà un migliore coordinamento con i nostri partner internazionali e sanzioni molto più severe. I negoziati con l'Iran sarebbero probabilmente inefficaci se i nostri alleati europei non rinunciano alle relazioni commerciali con Teheran.
Oltre a costruire alleanze, sarà importante costuire una leva. Molto si potrebbe fare per rafforzare le sanzioni finanziarie degli Stati Uniti - sia mediante la chiusura delle elusioni o utilizzando strumenti più potenti, come ad esempio la sezione 311 del Patriot Act,per negare alle banche iraniane l'accesso alsistema finanziario USA.
Se una tale strategia riesce a portare l'Iran al tavolo, è importante che gli Stati Uniti e i suoi alleati fissino un calendario per i negoziati. In caso contrario, gli iraniani potrebbero cercare di ritardare fino a quando non raggiungeranno una capacità nucleare militare.
In quarto luogo, in modo che Israele non si senta costretto a intraprendere azioni unilaterali, il prossimo presidente deve convincere Gerusalemme credibilmente che gli Stati Uniti non consentiranno all'Iran di acquisire la capacità di avere armi nucleari.
In quinto luogo, mentre l'azione militare contro l'Iran è fattibile, deve restare un'opzione di ultima istanza. Se tutti gli altri approcci non avranno successo, il nuovo presidente potrebbe dover soppesare i rischi del fallimento delle azioni atte a impedire il programma nucleare iraniano abbastanza in relazione ai rischi di un attacco militare. Le forze armate sono in grado di lanciare un attacco devastante sulle infrastrutture nucleari e militari iraniane e - probabilmente con risultati più decisivo rispetto a quanto sia consapevole la leadership iraniana.
Una prima campagna aerea potrebbe probabilmente durare fino a diverse settimane e richiederebbe una vigilanza per gli anni a venire. L'azione militare sosterrebbe notevoli rischi, compresa la possibilità di perdite degli Stati Uniti e degli alleati, rappresaglie terroristiche su vasta scala contro Israele e altre nazioni, e accresciute tensioni nella regione.
Sia per aumentare la nostra “leva” sull'Iran, sia per prepararsi a un attacco militare, se ve ne fosse bisogno, il prossimo presidente dovrà iniziare a costruire risorse militari nella regione fin dal primo giorno.
Questi principi sono tutti supportati all'unanimità da una task force politicamente composita, messa insieme dal Bipartisan Policy Center (Centro di politica bipartisan, NdT). Il gruppo, che include ex alti funzionari democratici e repubblicani, generali a quattro stelle e ammiragli a riposo, nonché esperti in proliferazione nucleare e mercati dell'energia, offre un chiaro percorso per la costruzione di un consenso duraturo e bipartisan a sostegno di un'efficace politica degli Stati Uniti sull'Iran.
È fondamentale che, immediatamente dopo il giorno delle elezioni, il Congresso e il presidente eletto inizino a lavorare sulla misure politiche estremamente difficili che saranno necessarie se gli Stati Uniti intendono impedire all'Iran di ottenere la capacità di produrre armi nucleari. Il tempo può essere inferiore di quanto molti immaginano, e il fallimento potrebbe comportare un costo catastrofico per l'interesse nazionale.
R. Daniel Coats, un ex senatore repubblicano dell’Indiana, e Charles S. Robb, un ex senatore democratico della Virginia, sono co-presidenti del Bipartisan Policy Center's, una task force di sicurezza nazionale contro l'Iran.
Articolo originale:“Stopping a Nuclear Tehran”
http://www.bipartisanpolicy.org/ht/a/GetDocumentAction/i/8866
Ora e' Petraeus il presidente USA
di Tommaso di Francesco - Il Manifesto - 6 Novembre 2008
Qualcuno negli Stati Uniti e non solo, si sta interrogando sull'anomala figura rappresentata dal generale David Petraeus, che è diventato comandante del CentCom, il Central Command Usa, la cui area di responsabilità è tutto il Medio oriente (le due guerre in corso in Iraq e Afghanistan, la tensione con l'Iran, la crisi Israele-Palestina, Libano e Siria). Così, sarà per quello strano cognome che riecheggia assonanze da tardo impero romano, sarà perché, ricordano i giornali statunitensi, è stato comandante della famosa 101ma Brigata corazzata che sbarcò in Normandia e che fu a suo tempo comandata da Eisenhower (che poi diventò presidente), ma sono im molti a guardare a questo «strano guerriero» che avanza e che vanta la svolta militare, in extremis, che ha, solo in parte, capovolto le sorti della guerra di Bush in Iraq.
Soprattutto ora che c'è stata la straordinaria elezione a presidente di Barack Hussein Obama. Obama è stato eletto a furor di popolo, ma non è ancora insediato. Nell'interrregno che dura fino a metà gennaio, governerà l'America ancora lo screditato e fallimentare George W. Bush. Quindi rischiamo da oggi di avere una sorta di dualismo di poteri: quello del nuovo, legittimo presidente degli Stati uniti in pectore pronto a prendere il suo posto di comando, e dall'altra il predecessore che fa lo scatolone per andarsene ma che in realtà è ancora, a tutti gli effetti, il presidente.
Attenti allora. A lui, ai suoi possibili colpi di coda che già fanno capolino dai quattro angoli del pianeta. Soprattutto al lascito più pesante: 635miliardi di dollari investiti nel bilancio del Pentagono che fanno da sentinella ai 700miliardi di dollari impegnati per salvare il disastro finanziario americano. Uno strascico bellico non è da escludere se in gioco è il primato.
Del resto la giornata di ieri sembrava allestire il teatro - tra irruzione di carri armati israeliani a Gaza, raid aereo Nato in Afghanistan che ha provocato una strage di civili, dichiarazione russa sull'installazione di missili Iskander nell'enclave di Kaliningrad come ritorsione allo Scudo antimissile di Bush installato a Praga e Varsavia.
Ma è credibile che un presidente disarcionato e impresentabile trascini all'ultimo momento la più potente nazione della terra nell'ennesima sfida armata, magari all'imperituto stato canaglia rappresentato dall'Iran di Ahmadi Nejad o contro Damasco come ha dimostrato il sanguinoso recente raid in territorio siriano? Tanto da coinvolgere anche il neopresidente eletto Obama che tante speranze di pace invece suscita?
Il dato certo è questo dell'interregno. Nel quale, in modo assolutamente sotterraneo, ad essere davvero «presidente» sul campo sarà proprio il generale in capo David Petraeus. Il plenipotenziario d'Oriente è arrivato in questi giorni a Kabul, non prima d'essere passato in Pakistan ad incontrare, proprio come un capo di stato, il neopresidente Asif Ali Zardari. All'ordine del giorno le tensioni tra Washington, Kabul e Islamabad per il disastro degli attacchi missilistici e aerei che provocano stragi di civili e la rivolta delle popolazioni locali, ma soprattutto il tentativo di inscrivere quelle aree, comprese quelle turbolente delle «regioni tribali» nella logica già sperimentata in Iraq da Petraeus della «guerra speciale» di controguerriglia, capace di assoldare tribù locali le une contro le altre e tutte contro Al Qaeda. Spostando inoltre massicciamente, con l'accordo del neopresidente Obama, truppe dall'Iraq.
Chissà se ora Petraeus arriverà anche sul fronte del Caucaso, a Praga e Varsavia per lo Scudo, a CampBondsteel in Kosovo nella più grande base americana in Europa, a Vicenza o a Pratica di Mare che il governo Berlusconi promette di trasformare in una base americano-atlantica?
Comunque per due mesi e mezzo è lui l'uomo più autorevole per l'uso della forza. Alla cerimonia della nuova investitura nella base dell'Air Force MacDill a Tampa Bay, il ministro delle difesa Robert Gates - che, arriva notizia, il neopresidente Obama intenderebbe confermare nella carica - ha definito Petraeus «l'uomo giusto al momento giusto».