domenica 9 novembre 2008

Islanda: un Paese in bancarotta

Ecco un caso esemplare di Paese andato in fallimento, a causa della crisi finanziaria globale ancora in corso, con tutte le drammatiche conseguenze che ora il popolo islandese si trovera' ad affrontare.


Islanda: la globalizzazione dolorosa
di Mario Braconi – Altrenotizie – 9 Novembre 2008

Appena a sud del Circolo polare artico c’era una volta un paese povero, isolato geograficamente e culturalmente, la cui scarsa popolazione (300.000 anime su un territorio di circa 100.000 chilometri quadrati, un terzo di quello italiano) sopravviveva grazie alla pesca del merluzzo. Talmente disperata era la dipendenza dell’Islanda da questa attività, che nel 1976 il suo governo decise di estendere le proprie acque territoriali, dando così origine a quella che è passata alla storia con il poco fascinoso nome di “guerra del merluzzo” con la Gran Bretagna (come vedremo, la tendenza dei politici islandesi ad assumere decisioni unilaterali e non particolarmente rispettose degli altrui interessi non si è sopita con il tempo). Ebbene, in poco più di un decennio questo luogo dimenticato da dio si è trasformato in una specie di paradiso terrestre: vi si registrano un livello di reddito pro-capite tra i più alti al mondo (cresciuto del 45% in cinque anni, fino a raggiungere il quarto posto nella statistica stilata dalle nazioni Unite nel 2007), sistemi di istruzione e sanità pubblici completamente gratuiti, fondi pensionistici finanziariamente robusti ed efficienti.

Le statistiche dicono poi che gli Islandesi vivono a lungo (età media maschile di poco inferiore agli 81 anni, il terzo miglior dato al mondo), sono avidi lettori e vantano un elevatissimo tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro. Gli appassionati di complotti internazionali sembrano convinti che la causa dell’esplosivo sviluppo dell’economia e della finanza islandese degli ultimi anni sia da ricercarsi in non meglio precisati ed assai poco trasparenti legami di alcuni imprenditori locali con la Federazione Russa: ad alimentare questi sospetti le gesta di Thor Björgólfsson, classe 1967, rampollo di una famiglia molto chiacchierata: questi, dopo aver venduto alla Heineken la sua fabbrica di birra di San Pietroburgo (100 milioni di dollari di profitti), ha fondato nella natia Islanda la Actavis, oggi quarto produttore mondiale di farmaci generici.

Se è vero che, come suggerisce il Presidente islandese Ólafur Ragnar Grímsson, “l’avvento della globalizzazione e l’abbattimento generalizzato di vincoli al commercio estero e al controllo dei capitali, rafforzato dalla innovazioni informatiche e tecnologiche hanno reso irrilevante l’isolamento geografico islandese”, i motori del recente boom islandese sono il suo sistema pensionistico, gonfio di denaro e con una buona propensione agli investimenti azionari, e l’industria per l’estrazione dell’alluminio, che oggi vale più di quella ittica.

Inoltre, nel corso degli ultimi cinque anni, le banche e i fondi islandesi, pilotate da un manipolo di trentenni rampanti, freschi di business school estere, hanno dimostrato atteggiamento molto aggressivo e grande voglia di crescere all’estero, in particolare in Gran Bretagna. La Kaupthing, che nella classifica delle istituzioni finanziarie internazionali potrà anche essere considerata una banca non importantissima (124-esimo posto), ha però realizzato operazioni in Gran Bretagna per l’equivalente di circa cinque miliardi di euro; ha finanziato il fondo islandese Baugur, che detiene partecipazioni azionarie in importanti catene distributive al dettaglio inglesi (Hamleys, House of Fraser, Oasis, Debenhams, Iceland); ha investito pesantemente nel mercato immobiliare londinese e ha acquistato per 547 milioni di sterline un’antica banca d’affari britannica, la Singer & Friedlander.

A sostenere la fase crescente della parabola della Kaupthing, la bolla del mercato azionario e il costo moderato del debito. Alle critiche della agenzie di rating, che, pur non essendo particolarmente acute e vigili, avevano messo in guardia gli investitori da un modello di business pericoloso, le banche islandesi risposero indirizzando la loro provvista verso il mercato al dettaglio, in particolare quello veicolato attraverso internet: ecco come nascono IceSave e Kaupthing Edge, banche internet rispettivamente della Landsbanki e della Kaupthing.

Con il deprezzamento della corona islandese, che da un lato sottraeva valore alle attività reali in Islanda, gonfiando il valore dei debiti in divisa contratti all’estero, il sistema bancario islandese ha cominciato a scricchiolare; quando le banche internazionali hanno cominciato a chiudere i rubinetti del credito (il cosiddetto credit-crunch) il Governo islandese è stato costretto a nazionalizzare una dopo l’altre le tre banche. Poiché la Kaupthing, come anche la Landsbanki, avevano diverse migliaia di clienti in Gran Bretagna, il governo britannico ha congelato le attività del braccio britannico della Kaupthing Singer & Friedlander, cosa che, secondo il primo ministro islandese, ha contribuito al suo fallimento.

IceSave invece, a differenza della concorrente Kaupthing Edge, pur non avendo sede in Gran Bretagna vi operava mediante “passaporto” islandese; un sistema secondo cui un’istituzione regolamentata nel paese di origine è automaticamente autorizzata ad operare anche nel paese di destinazione. Una forma di tutela molto debole, dato che non è detto che i risparmiatori conoscano le normative bancarie del paese di origine della loro banca; inoltre, la tutela potrebbe essere più bassa di quella prevista nel paese ospite. Ai clienti inglesi di IceSave (circa 300.000, un numero pari agli abitanti dell’intera Islanda) sarebbe dunque spettata la protezione prevista dalla legge islandese (garanzia sui depositi fino a 20.000 euro); tuttavia il Governo islandese, non nuovo ad alzate di testa disperate ed autodistruttive, ha dichiarato di voler proteggere i soli clienti islandesi, disinteressandosi di quelli britannici.

Così il Governo britannico ha dovuto farsi avanti e garantire i suoi cittadini a rischio di truffa, congelando nel contempo i fondi di IceSave nell’unico modo possibile: ricorrendo ad una legge anti-terrorismo che a rigore farebbe dell’intera Islanda uno stato-canaglia. Di qui una grave crisi diplomatica tra l’Islanda e il Regno Unito, deciso a tutelare ad ogni costo, oltre agli interessi dei suoi cittadini, quelli degli oltre cento tra comuni, autorità di polizia e dei pompieri inglesi che, avendo investito la propria liquidità in IceSave, ci hanno rimesso circa 800 milioni di sterline.

Quando sono arrivati i fallimenti e le nazionalizzazioni, il paese si è risvegliato dal suo delirio, per ritrovarsi davanti agli occhi un sistema finanziario oberato da 100 miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo di soli 14 miliardi di dollari. Inevitabile l’intervento del Fondo Monetario Internazionale che, come contropartita ad un finanziamento di due miliardi di Euro, ha preteso un rialzo dei tassi interbancari dal 6% al 18%; misura praticamente inevitabile in un paese cui il drastico deprezzamento della divisa ha prodotto un tasso di un’inflazione del 15%.

Non è però solo la turbo-finanza a spingere la neo-benestante Islanda sull’orlo del baratro: in un bell’articolo pubblicato qualche giorno fa dal quotidiano britannico The Times, infatti, la cantante islandese Björk prende una posizione netta contro il progetto di realizzare nel suo paese due nuovi impianti di produzione di alluminio, che dovrebbero affiancarsi ai tre esistenti. Le accresciute necessità di energia elettrica renderebbero inevitabile la costruzione di nuovi impianti geotermici e la realizzazione di nuove dighe, con effetti devastanti su una natura del tutto incontaminata, con le sue fonti di acqua calda e le meravigliose sculture naturali realizzate dalla lava solidificata e ricoperta di uno strato di muschio che ne fa uno spettacolo unico al mondo.

Paradossalmente, l’attuale crisi finanziaria viene invocata nel Parlamento islandese come pretesto per accelerare sulla realizzazione dei nuovi impianti, liquidando come un impaccio inopportuno ogni valutazione sull’impatto ambientale delle nuove opere: non a caso, sembra che le multinazionali del settore estrattivo Alcoa e Rio Tinto, possano contare sull’”amicizia” di diversi deputati del parlamento di Reykjavík.