sabato 29 agosto 2009

Il Risiko delle pipelines

Una serie di articoli su ciò che si sta muovendo in Asia Centrale tra accordi militari e corridoi energetici in conflitto tra loro, con ovvie ripercussioni nell'UE e nei rapporti tra UE e USA.


Gli Stati Uniti accellerano il passo in Asia Centrale
di M. K. Bhadrakumar - Asia Times - 25 Agosto 2009

Quando giovedì scorso a Taškent il capo del Comando Centrale degli Stati Uniti Generale David Petraeus e il Ministro della Difesa uzbeko hanno firmato un accordo militare tra gli Stati Uniti e l'Uzbekistan, la posizione geopolitica di quest'ultimo è radicalmente mutata.

L'accordo prevede “un programma di contatti militari, compresi futuri scambi nei settori della formazione e dell'addestramento”, secondo la concisa dichiarazione dell'Ambasciata americana.

L'Ambasciata ha dribblato i comunicati stampa russi secondo cui gli Stati Uniti mirerebbero a ottenere basi militari in Uzbekistan, affermando che le informazioni su “discussioni a proposito di una base militare non corrispondono alla realtà”. Ma le speculazioni continuano, soprattutto perché si è svolto un significativo colloquio Petraeus e il Presidente uzbeko Islam Karimov su “cruciali questioni regionali”e in particolare sulla situazione in Afghanistan.

Karimov, le cui dichiarazioni sono sempre caute, ha fornito un resoconto positivo dell'incontro: “L'Uzbekistan attribuisce grande importanza all'ulteriore sviluppo delle relazioni con gli Stati Uniti ed è pronto a espandere la costruttiva cooperazione multilaterale e bilaterale basata sul reciproco rispetto e l'equa collaborazione... Le relazioni tra i nostri Paesi sono in ascesa. Il fatto che ci incontriamo nuovamente [per la seconda volta in sei mesi] dimostra che entrambe le parti sono interessate a rafforzare i legami”. (Corsivo aggiunto.)

Secondo il portavoce di Karimov, “Petraeus ha detto a Karimov che l'attuale amministrazione statunitense è interessata alla cooperazione con l'Uzbekistan in diversi settori. Durante la conversazione le due parti hanno scambiato opinioni sul futuro delle relazioni uzbeko-statunitensi e su altre questioni di comune interesse”.

Si è tentati di interpretare questo sviluppo come una risposta rapida di Taškent alla mossa russa di costruire una seconda base militare in Kirghizistan nelle vicinanze della Valle di Ferghana. Ma le mosse della politica estera uzbeke sono sempre ponderate. È del tutto evidente che quando Taškent mira a una cooperazione militare con gli Stati Uniti e con l'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) si tratta di ben più di un riflesso istintivo.

A Taškent c'è crescente apprensione per il fatto che nella corsa alla leadership regionale il Kazakistan abbia cominciato a mettere in ombra l'Uzbekistan. Taškent diffida anche del possibile rafforzamento della presenza militare russa in Asia Centrale. Nel frattempo, la politica per l'Asia Centrale dell'amministrazione Barack Obama si è decisamente cristallizzata nell'obiettivo di contrastare l'influenza della Russia nella regione. Anzi, gli Stati Uniti hanno ripetutamente assicurato che non perseguiranno una politica intrusiva per quanto riguarda gli affari interni dell'Uzbekistan.

Taškent e la ricomparsa dei taliban

Taškent ha messo in conto tutti questi fattori. Tuttavia il fatto cruciale è la situazione afghana. Taškent deve prepararsi in fretta a gestire la ricomparsa dei taliban nella regione dell'Amu Darya.

Sta per configurarsi una situazione simile a quella di dieci anni fa. Ancora una volta il Movimento islamico dell'Uzbekistan (IMU), che fa base in Afghanistan e sarebbe armato e addestrato dai taliban, sta conducendo incursioni in Asia Centrale. Fino al 1998 Rashid Dostum agiva come guardia di frontiera dell'Amu Darya. Taškent lo finanziava, lo armava e lo coccolava. Ma nell'ottobre del 1998, quando i taliban fecero il loro ingresso nella regione dell'Amu Darya, Dostum fuggì. Karimov non glielo perdonò mai. Dostum dovette rifugiarsi in Turchia.

Inoltre c'è il cosiddetto “fattore tagiko”. Ci sono più tagiki in Afghanistan che in Tagikistan. Il nazionalismo tagiko continua a preoccupare Taškent. Dostum era in grado di tenere bada il fattore tagiko. Occasionalmente aveva inoltre svolto azioni di disturbo con il Tagikistan, con la copertura di Taškent, per innervosire la dirigenza di Dušanbe. Taškent inoltre offriva rifugio al ribelle di etnia uzbeka Mahmud Khudaberdiyev proteggendolo dal Tagikistan e usandolo per attacchi oltrefrontiera. Ma la presenza militare russa in Tagikistan dall'aprile del 1998 aveva impedito a Taškent di intimorire il paese vicino.

Dunque c'è oggi un cambiamento di clima nella regione dell'Amu Darya. Essenzialmente Taškent deve dipendere dai contingenti NATO per perché questi facciano da cuscinetto tra il territorio taliban e quello uzbeko, il che non è realistico. I contingenti tedeschi della NATO, che sono posizionati nella regione dell'Amu Darya, operano nell'ambito di restrizioni nazionali all'impiego delle truppe, i cosiddetti caveat. La futilità della loro presenza è messa in luce dal fatto che i taliban hanno consolidato la loro presenza nella provincia di Kunduz.

Ma soprattutto è in ebollizione la Valle di Ferghana. Dato il modo in cui viene percepita l'intesa Russia-Tagikistan e le tensioni generate dal conflitto irrisolto sulla questione della nazionalità uzbeko-tagica – l'eredità di Josif Stalin – Taškent non può contare su Mosca come arbitro della stabilità regionale. Inoltre Mosca appoggia Dušanbe nella disputa tra quest'ultima e Taškent sulla spartizione dell'acqua che origina dai ghiacciai del Pamir, questione esplosiva e carica di immense conseguenze per la sicurezza regionale.

L'eredità timuride

Nella seconda metà del 1999, quando Taškent cominciò a fare la pace con il regime taliban a Kabul, gli osservatori diplomatici furono colti di sorpresa: la retorica uzbeka improvvisamente non caratterizzava più i taliban come la “principale fonte di fanatismo ed estremismo nella regione” ma come un “partner nella lotta per la pace regionale” e Karimov cominciò a suggerire che valeva la pena di prendere in considerazione il riconoscimento del regime taliban.

Il voltafaccia di Taškent di oggi e quello di allora mostrano parallelismi stupefacenti. Anche nel 1999 Karimov giunse alla conclusione che i taliban fossero il minore dei due mali che minacciavano la visione uzbeka dell'Asia Centrale, mentre il male maggiore era rappresentato da una rafforzata presenza militare russa. Dieci anni fa, in circostanze analoghe, Mosca cominciò energicamente a consolidare le intese per la sicurezza collettiva tra la Russia e gli Stati centroasiatici.

Nell'ottobre del 1999 Mosca firmò un patto formale con diversi Stati centroasiatici per uno spiegamento rapido di truppe, straordinariamente simile all'attuale iniziativa russa nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO) per la creazione di una forza di reazione rapida. Taškent uscì dall'intesa per la sicurezza collettiva sotto la leadership russa. Nell'ottobre del 1999 Taškent aveva giù avviato colloqui con i taliban.

Taškent ha sempre diffidato delle motivazioni della Russia e della sua presenza militare in Asia Centrale, che ritiene possa insidiare la posizione dell'Uzbekistan come unica potenza militare della regione. Tutto considerato, dunque, non dovrebbe sorprendere che Taškent abbia deciso che è preferibile accumulare un po' di capitale politico risuscitando le relazioni con gli Stati Uniti.

Taškent si sente più minacciata dall'IMU che dai taliban. In altre parole, non vorrebbe inimicarsi i taliban. Nel 1999 offrì il riconoscimento diplomatico del regime dei taliban in cambio della rinuncia all'IMU da parte di questi ultimi.

Gli uzbeki si sentono gli eredi di Tamerlano. La riconciliazione con i taliban permette a Taškent di realizzare l'ambizioso obiettivo di diventare il principale architetto della pace nella regione; di respingere la presenza militare russa in Asia Centrale; e di promuovere lo status dell'Uzbekistan come potenza egemonica nella regione.

La complessa mentalità uzbeka offre opportunità produttive per la politica degli Stati Uniti nella regione. È indubbio che gli Stati Uniti manipoleranno nelle prossime settimane la creazione di un equilibrio di potere a Kabul assolutamente favorevole al piano americano di riconciliazione con i taliban. Come ha sottolineato il Ministro degli Esteri britannico David Miliband nel suo recente discorso al quartier generale della NATO a Bruxelles, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono oggi aperti alla riconciliazione con i taliban, al punto da consentire ai loro quadri afghani di conservare le armi.

Tuttavia l'accettabilità dei taliban nella regione rimane una questione controversa. Deve esserci un ampio consenso regionale su questo punto. Ed è qui che il voltafaccia di Taškent diventa strategico per Washington. Oltre che sul Pakistan, fautore della riconciliazione con i taliban, Washington può ora contare anche sul consenso di Turkmenistan e Uzbekistan.

Mutamenti nella regione dell'Amu Darya

L'Uzbekistan è un attore chiave nella regione dell'Amu Darya, non meno del Pakistan nelle terre pashtun. Un asse con Taškent nell'Afghanistan settentrionale e con Islamabad nel sud e nel sud-est dell'Afghanistan costituirà la matrice di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per la riconciliazione con i taliban e il rientro di questi ultimi nella vita politica afghana.

Washington avrebbe voluto creare un asse simile con Dušanbe, ma è stata bloccata dalla presenza russa in Tagikistan. D'altro canto, gli Stati Uniti possono trarre consolazione dal fatto che i tagiki afghani sono oggi divisi e che alle fazioni “Panjshiri” è stato impedio di compattarsi.

Se gli Stati Uniti riusciranno a far eleggere a Kabul Abdullah Abdullah perché succeda al Presidente Hamid Karzai, ciò contribuirà immensamente a ostacolare gli elementi irredentisti che alimentano il nazionalismo tagiko. Ma se Karzai verrà eletto gli Stati Uniti si ritroveranno a dover affrontare la potenziale sfida rappresentata da Mohammed Fahim, il candidato alla vice presidenza. Fahim, diversamente da Abdullah, che è un uomo da pubbliche relazioni, possiede notevoli trascorsi militari e nei servizi segreti. Di fatto, Fahim e Dostum sono i due “guastafeste” che maggiormente innervosiscono gli Stati Uniti mentre questi ultimi si accingono ad avviare il processo di riconciliazione con i taliban.

Il Turkmenistan e l'Uzbekistan – nonché la Cina – avevano trattato con i taliban negli anni Novanta e non esiterebbero a rifarlo se questo significasse stabilizzare l'Afghanistan. La Cina, in particolare, ha molto da guadagnare dall'apertura dell'Afghanistan come rotta di transito verso i mercati mondiali.

L'energica diplomazia regionale degli Stati Uniti in Asia Centrale è riuscita a strappare il Turkmenistan e l'Uzbekistan all'influenza russa. Washington ha negoziato con loro accordi per la creazione di corridoi di transito e ha cominciato a posizionare il proprio personale militare nella capitale turkmena, Ašgabat. (Il vice capo di stato maggiore delle forze armate britanniche, Jeff Mason, si trova attualmente in visita ad Ašgabat.) Gli Stati Uniti stanno promuovendo rapporti cordiali tra turkmeni e uzbeki (Karimov si sta preparando a visitare Ašgabat). Washington ha offerto opportunità economiche e imprenditoriali legate alla ricostruzione dell'Afghanistan. E infine, ma non meno importante, gli Stati Uniti stanno rafforzando i legami della NATO con questi paesi.

È un successo notevole. Gli Stati Uniti possono ora lavorare a un corridoio di transito per l'Afghanistan dalla Georgia e dall'Azerbaigian via Turkmenistan e Uzbekistan aggirando il territorio russo. In un recente articolo per il New York Times, Andrew Kuchins del Centro Studi Strategici e Internazionali ha sottolineato che a Washington è alto il livello di scetticismo sulle intenzioni della Russia e su “quanto la Russia voglia realmente il successo degli Stati Uniti in Afghanistan”.

L'Iran è in grado di rimescolare le carte

Scrive Kuchins:

Nei recenti colloqui a Taškent con alte cariche del governo uzbeko questo problema si è riproposto ripetutamente, e le risposte che abbiamo ricevuto non sono rassicuranti. Le autorità uzbeke sono profondamente scettiche nei confronti di Mosca. Ritengono che i russi considerino più utile per i loro interessi una condizione di costante instabilità in Afghanistan. L'instabilità aumenterà sia la minaccia terroristica in Asia Centrale che il traffico di droga, e giustificherà un rafforzamento della presenza militare russa nella regione...

Taškent vede la crescente presenza militare russa nella regione come una minaccia alla sicurezza. Lo scetticismo uzbeko nei confronti della Russia è così profondo che diverse figure di spicco hanno fatto capire che per quanto riguarda l'Afghanistan l'Iran sarebbe per Washington un alleato più affidabile di Mosca.

Sicuramente il modo migliore per fronteggiare il “fattore tagiko” in Afghanistan passa attraverso un contatto tra Washington e Teheran. La scorsa settimana l'ambasciatore iraniano a Kabul, Fada Hossein Maleki, ha dichiarato che Teheran è pronta a dialogare con gli Stati Uniti sull'Afghanistan purché Washington si astenga dall'interferire negli affari interni iraniani. Maleki ha detto:

Le parole del Presidente Obama dopo l'elezione indicavano un cambiamento di linguaggio rispetto alla precedente presidenza. Purtroppo dopo la vittoria del Presidente Mahmud Ahmedinejad abbiamo assistito a sconsiderate interferenze da parte degli americani [negli affari interni dell'Iran]. È naturale che se verrà adottato un approccio unico e compatto le nostre autorità lo prenderanno in considerazione e che vi sono molte questioni che riguardano l'Afghanistan sulle quali possiamo cooperare con altri Paesi.

L'Iran è in grado di rimescolare le carte. Ma per ballare bisogna essere in due. Oggi la grande questione sul tavolo afghano è se Obama riuscirà a eludere la lobby pro-israeliana nella sua amministrazione e nel Congresso americano e ad aprire la porta alle prospettive di dialogo con i superiori di Maleki a Teheran. Forse dovrebbe imparare le lezione di Karimov.

Traduzione a cura di Manuela Vittorelli, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.


A proposito della strategia AF-PAK

di F. D'Attanasio - http://ripensaremarx.splinder.com - 28 Agosto 2009

La lotta tra potenze imperversa più che mai dunque, ma per accorgersene bisogna scavare molto, oltre le solite apparenze che gli addetti al mondo dell'informazione tendono, al contrario, a presentarci come la "vera" realtà. Il falso mondo ovattato e pieno di buone intenzioni che promanerebbero soprattutto da chi decide delle sorti dell'umanità nei più svariati angoli del mondo, non regge affatto alla prova di certi fatti che ogni giorno trovano concretezza ed ai quali non viene dato affatto il peso che meriterebbero.

Prendiamo spunto dalla guerra che si sta dispiegando in Afghanistan, guerra che vede fortemente impegnati gli Stati Uniti con il solito codazzo degli alleati-sudditi tra i quali l'Italia, e che rientra nella cosiddetta strategia Af-Pak, tesa a normalizzare la situazione socio-politica di questa zona dell'Asia centro-meridionale secondo i voleri della potenza a stelle e strisce.

Le operazioni di carattere militare si svolgono però in un quadro molto più complesso, fatto di un intricato intreccio di strategie di più svariata natura: diplomatiche, politiche, di intelligence, nonché energetiche. Il fine ultimo, di lungo "respiro", è quello di contrastare nella maniera più efficace possibile ogni velleità delle nuove potenze nascenti volte a ritagliarsi un ruolo sempre più influente nel contesto complessivo internazionale.

In realtà, se si tiene conto soprattutto del ruolo della Russia negli ultimi tempi, si tratta molto di più di semplici velleità, essa, grazie ad una dirigenza politica ben decisa e radicata nella propria società, frutto evidentemente di una notevole lungimiranza e senso dello Stato, sta stando non poche preoccupazioni agli USA stessi.

Le operazioni di voto che si starebbero per concludere proprio in Afghanistan, costituiscono un fattore importante nell'evolversi della situazione generale. Secondo Bhadrakumar, noto diplomatico indiano (vedasi i suoi articoli tradotti da Manuela Vittorelli e riportati dalla rete di traduttori per la diversità linguistica: www.tlaxcala.es/entree.asp?lg=it) il candidato prediletto dagli Stati Uniti non è Hamid Karzai bensì il suo rivale Abdullah Abdullah.

Ed un certo ruolo l'avrebbe avuto anche l'Iran soprattutto nel favorire proprio quell'alleanza politica tra Karzai e vecchi capi mujaheddin che il governo di Washington vede come fumo negli occhi; difatti il Dipartimento di Stato americano avrebbe dichiarato: " "Abbiamo spiegato chiaramente al governo dell'Afghanistan le nostre gravi preoccupazioni riguardo al ritorno di Dostum [uno dei capi mujaheddin costretto dai Talebani a rifugiarsi in Turchia svariati anni fa] e a un suo possibile futuro ruolo in Afghanistan".

Il Presidente Barack Obama ha già chiesto ai suoi esperti di sicurezza nazionale ulteriori informazioni sui "trascorsi" di Dostum, compreso il suo sospetto coinvolgimento nella morte di vari taliban fatti prigionieri nella guerra del 2001 durante l'invasione degli Stati Uniti ". Quindi si potrebbe profilare in caso di vittoria di Karzai e della sua coalizione la necessità di creare una "situazione iraniana", difatti non a caso Ahmed Rashid [noto autore pakistano, legato al Pentagono], che conosce l'Afghanistan come le sue tasche, avrebbe dichiarato: " "Penso che dopo queste elezioni, indipendentemente dai risultati, ci saranno pesanti accuse e contro-accuse di brogli".

Prevede poi che se si renderà necessario un ballottaggio "sarà un momento molto pericoloso per l'Afghanistan... Creerà un vuoto di due mesi, ci saranno caos e confusione politica" ". In realtà tutto ciò manderebbe letteralmente all'aria il piano di Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Pakistan volto a cooptare i Talebani nella struttura di potere che si ritiene, secondo appunto la strategia Af-Pak, debba governare l'Afghanistan nei prossimi anni.

Ma le operazioni militari si integrano con ben altre mosse ed iniziative di varia natura, tutte queste sono ben sintetizzate nel cosiddetto progetto di nation-building; la squadra che ad esso si dedicherà sarà composta da diplomatici ed esperti di antiterrorismo del Pentagono, della CIA e dell'FBI e comprenderà anche rappresentanti dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, e noti accademici e membri di think tank, sarà aumentato il personale civile impiegato nell'ambasciata a Kabul che ad esempio salirà a 976 unità dalle 562 dello scorso anno, il tutto senza considerare naturalmente il fiume di denaro che continuerà ad arrivare, destinato a vari progetti di "sviluppo", ma che in realtà servirà a finanziare e sostenere le più disparate operazioni comprese la corruzione e i crimini più efferati.

Tutti questi "civili" chiaramente fanno affidamento sul successo dei militari nell'eliminare i Talebani riottosi e tutti i militanti sia in Afghanistan che Pakistan.
Quello a cui dunque si è assistito (sempre secondo Bhadrakumar) è stata un' "afghanizzazione" di Karzai; " fu alla fine del 2007 che Karzai cominciò a reclamare il diritto di dire la sua sulla presenza militare americana e sulla scala delle operazioni dei contingenti stranieri.

Parlò della necessità di uno Status of Force Agreement (accordo sullo status delle forze armate) sul modello di quello iracheno. Essenzialmente voleva che le forze d'occupazione si conformassero alle leggi afghane. Sollevò poi la questione alle Nazioni Unite: dopo tutto è su mandato ONU che operano le forze NATO in Afghanistan. Poi Karzai cominciò a chiedere che la comunità internazionale si impegnasse insieme al suo governo nelle varie attività di ricostruzione dell'Afghanistan, mentre gli Stati Uniti sono contrari a passare per il governo afghano e preferiscono dispensare i finanziamenti direttamente. Era una situazione da Comma 22. Gli Stati Uniti continuavano a dire che il governo di Karzai non aveva i mezzi per dispensare gli aiuti stranieri.

Ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Il fatto è che nel frattempo si sono sviluppati forti interessi acquisiti ". Karzai in definitiva rivendicherebbe un ruolo primario e non certo di rincalzo rispetto agli americani nel processo di pacificazione dell'Afghanistan, compresa la riconciliazione con i Talebani; ma gli americani non possono assolutamente prendere rischi su questo fronte dato che sono in gioco questioni geo-politiche decisive nella lotta per la supremazia mondiale.

Ma un fatto molto importante è accaduto in questi ultimi giorni: un accordo militare di ampia portata tra gli Stati Uniti e l'Uzbekistan che muterebbe completamente la posizione geo-politica della ex repubblica sovietica, la quale non vedrebbe affatto di buon occhio il rinnovato protagonismo russo che potrebbe seriamente stroncare ogni sua aspirazione al ruolo di potenza regionale e preferirebbe quindi, a tal fine, entrare a far parte dell'orbita statunitense; difatti la Russia, fra le altre cose, sarebbe intenzionata a costruire una seconda base militare in Kirghizistan, oltre che ad appoggiare decisamente il Tagikistan in varie contese aperte proprio con l'Uzbekistan.

Al patto formale che Mosca firmò nell'Ottobre del 1999 con diversi Stati centroasiatici per uno spiegamento rapido di truppe, simile all'attuale iniziativa russa nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO) per la creazione di una forza di reazione rapida, l'Uzbekistan non aderì; nel frattempo il governo di Taškent ha portato avanti una decisa politica filo talebana fino al riconoscimento di questo regime nel 1999.

In definitiva ci sarebbe una netta convergenza tra la strategia Af-Pak tesa a cooptare i Talebani e le aspirazioni geo-politiche regionali uzbeke, anch'esse facenti perno sulle forze talebane in chiave anti-russa (da considerare che esiste anche un cosiddetto fattore "tagiko", vale a dire una forte minoranza di tagiki in Afghanistan addirittura numericamente superiore a quelli propri del Tagikistan, in grado di alimentare un nazionalismo, sostenuto dalla Russia, fonte di forte preoccupazione per le autorità uzbeke).

L'energica diplomazia regionale degli Stati Uniti in Asia Centrale è riuscita a strappare così il Turkmenistan e l'Uzbekistan all'influenza russa. "Washington ha negoziato con loro accordi per la creazione di corridoi di transito e ha cominciato a posizionare il proprio personale militare nella capitale turkmena, Ašgabat. (il vice capo di stato maggiore delle forze armate britanniche, Jeff Mason, si trova attualmente in visita ad Ašgabat.) Gli Stati Uniti stanno promuovendo rapporti cordiali tra turkmeni e uzbeki (Karimov [l'attuale presidente uzbeko] si sta preparando a visitare Ašgabat).

Washington ha offerto opportunità economiche e imprenditoriali legate alla ricostruzione dell'Afghanistan. E infine, ma non meno importante, gli Stati Uniti stanno rafforzando i legami della NATO con questi paesi. È un successo notevole. Gli Stati Uniti possono ora lavorare a un corridoio di transito per l'Afghanistan dalla Georgia e dall'Azerbaigian via Turkmenistan e Uzbekistan aggirando il territorio russo. In un recente articolo per il New York Times, Andrew Kuchins del Centro Studi Strategici e Internazionali ha sottolineato che a Washington è alto il livello di scetticismo sulle intenzioni della Russia e su "quanto la Russia voglia realmente il successo degli Stati Uniti in Afghanistan" ".

Ma un ruolo chiave, sempre secondo Bhadrakumar, potrebbe giocare l'Iran, un ruolo utile agli americani a riguardo della complessa questione afghana, tant'è che l'ambasciatore iraniano a Kabul, Maleki, avrebbe dichiarato che Teheran è pronta a dialogare con gli Stati Uniti sull'Afghanistan purché Washington si astenga dall'interferire negli affari interni iraniani; " l'Iran è in grado di rimescolare le carte.

Ma per ballare bisogna essere in due. Oggi la grande questione sul tavolo afghano è se Obama riuscirà a eludere la lobby pro-israeliana nella sua amministrazione e nel Congresso americano e ad aprire la porta alle prospettive di dialogo con i superiori di Maleki a Teheran ".

Per concludere dunque sembrerebbe proprio che gli USA abbiano messo a segno un bel colpo in Asia centrale, ancor più se si considera un altro importante versante su cui si sta dispiegando la lotta geo-politica, cioè quello energetico con i due grossi progetti tra loro fortemente concorrenti, i gasdotti Nabucco e Southstream.

Sappiamo che uno dei maggiori ostacoli che potrebbe addirittura impedire la realizzazione del primo (fortemente sponsorizzato dagli USA) risiede nella difficoltà di poterlo sufficientemente alimentare con la materia prima; quando e se sarà terminato, esso prevede il trasporto del gas del Caucaso e del Medio Oriente (partendo, da un lato, dal confine georgiano-turco, e, dall'altro, da quello iraniano-turco) attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria, in Austria e, da lì, dovrebbe raggiungere tutti i mercati dell'Europa Centrale e Occidentale. Finora, l'unico fornitore individuato sarebbe l'Azerbaijan, il quale già rifornisce il gasdotto anglo-americano Baku-Tiblisi-Ceyhan, gestito dalla British Petroleum, che porta il gas dal Mar Caspio in Occidente eludendo del tutto la Russia.

Ma la stessa Azerbaijan gioca anche sul tavolo del potente vicino, difatti ha recentemente siglato con esso un accordo per la fornitura di gas, e comunque anche se Washington dovesse riuscire ad assicurarsi tutto il gas delle riserve azere, ciò non sarebbe ancora sufficiente per le prospettive di serio competitore del Nabucco nei confronti del Southstream.

L'Irak e l'Iran potrebbero rappresentare delle valide opportunità per la difficile realizzazione del progetto, ma le difficoltà politiche in questi casi si moltiplicano a dismisura, anche se questo fatto contribuisce ulteriormente a chiarire del perché gli USA abbiano ultimamente dedicato così tante "attenzioni" alla repubblica islamica. Quindi inevitabilmente nel grande gioco geo-strategico-energetico rientrano Uzbekistan e Turkmenistan.


I tubi di Putin

di Lorenzo Mazzei - www.campoantimperialista.it - 10 Agosto 2009

La rabbia del partito americano per South Stream

“La «guerra dei gasdotti» è la vera partita geostrategica del nostro tempo. Dove si muovevano soldati e divisioni corazzate, oggi si muovono tubi e permessi di transito”. Con questa premessa un po’ troppo enfatica, un’editoriale di Franco Venturini sul Corriere della Sera dell’8 agosto dà la misura dell’irritazione del partito americano stanziato in Europa per il recente accordo sul gasdotto South Stream.

“Relazioni pericolose” è il titolo assai significativo dell’articolo, che dà voce ad una rabbia euroatlantica tanto diffusa quanto interessante. Cerchiamo perciò di capire qual è la reale posta in gioco.

L’accordo di Ankara

L’importanza dell’accordo firmato ad Ankara il 6 agosto non sta tanto nei numeri (che vedremo più avanti), quanto nei suoi risvolti geostrategici. Il nodo è quello del legame energetico tra Russia ed Europa, un rapporto che gli Stati Uniti vorrebbero a tutti i costi incrinare.

E’ una partita complessa, che vede in campo diversi attori – basti pensare al ricorrente contenzioso Russia-Ucraina di cui ci siamo già occupati – ma che è in definitiva riconducibile al tentativo americano di indebolire la Russia. L’Urss è stata sciolta quasi vent’anni fa, l’“Impero del Male” non esiste più, ma non per questo la competizione è meno dura che in passato. Oggi, con le nuove ambizioni di Mosca da un lato, e con l’imporsi della dottrina Bzrezinski a Washington dall’altro, il conflitto è destinato a riaccendersi.

Del resto, per una di quelle strane coincidenze della storia, l’accordo di Ankara è venuto a cadere ad un anno esatto dall’attacco georgiano all’Ossezia del Sud che si risolse in un pesante rovescio politico-militare per Washington e Tbilisi.

Venendo ai gasdotti, la questione è semplice. La Russia, sia per la vicinanza geografica che per la consistenza delle riserve, è la fornitrice naturale dell’Europa, tant’è vero che svolge questo ruolo ormai da decenni.

Il flusso del gas russo incontra però degli ostacoli in alcuni paesi dell’ex Urss (Ucraina e, più recentemente, Bielorussia) ed in altri in passato facenti parte del blocco sovietico (Polonia). Da qui la necessità per Mosca di cercare percorsi alternativi, che hanno assunto il nome di North Stream e di South Stream, capaci di aggirare appunto a nord ed a sud il blocco dei paesi ostili o quantomeno inaffidabili.

Il caso dell’Ucraina è quello più eclatante, dato che è proprio questo paese il boccone più ghiotto del nuovo balzo ad est progettato dalla Nato, fermato per ora dalla debacle georgiana dell’estate 2008.

Mentre il progetto North Stream, che collegherà direttamente il territorio russo alla Germania attraverso il Baltico, va avanti sia pure in mezzo a mille difficoltà, il South Stream ha avuto fino ad oggi un percorso più accidentato.

Stati Uniti ed Unione Europea gli hanno infatti contrapposto un altro progetto, il cosiddetto Nabucco, un gasdotto che dall’Azerbaigian, attraverso la Georgia e la Turchia dovrebbe portare gas “non russo” in Europa. Con Nabucco, presieduto dall’ex ministro degli esteri tedesco Joshka Fisher (oggi membro della fondazione Rockefeller…), l’Unione Europea si è messa completamente in mano ai voleri della Casa Bianca, mentre non si sono invece del tutto allineati alcuni stati membri (Italia in primo luogo) e le rispettive aziende nazionali del settore.
E’ questo il fatto interessante che ha portato all’accordo di Ankara.

“Non si capisce ancora dove lo sdoganeranno, quale gas vi faranno passare, anche perché l’Azerbaigian, dove Nabucco finisce non ha gas a sufficienza”. Con queste parole, che non hanno bisogno di particolari commenti, Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni ha liquidato il progetto Nabucco. Ed in effetti l’idea di un gasdotto che evita sia il territorio che il gas russo si scontra con un problema irrisolto: i paesi dell’Asia centrale non hanno ancora gas a sufficienza per alimentare un simile gasdotto, tant’è che si ipotizzano futuribili diramazioni verso l’Iraq ed addirittura l’Iran (chissà, domani, con un governo amico...).

All’incertezza di questo scenario ha corrisposto la prontezza di Putin nell’andare a chiudere il tassello mancante di South Stream, l’accordo con Ankara per il transito sui fondali del Mar Nero nelle acque territoriali turche. Va detto, però, che di un ultimo passo si è trattato, perché non meno importante era stato l’accordo di Gazprom con la Bulgaria, del gennaio 2008, che prevede la comproprietà del tratto bulgaro del gasdotto ed un patto “gas in cambio dell’attraversamento” che Sofia non ha potuto respingere.

South Stream attraverserà dunque il Mar Nero dalla città russa di Beregovaya fino a quella bulgara di Varna, mentre il tratto continentale non è stato ancora definito. Sono allo studio due direttrici: la prima, verso nord, attraverso la Romania, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria (in questo caso la rete italiana verrebbe connessa attraverso il valico di Tarvisio); la seconda, verso ovest, passando per la Grecia, con destinazione Italia attraverso il canale d’Otranto.

L’accordo di Ankara ha dato dunque il via al progetto voluto da Putin. Non è detto che questo segni necessariamente la morte del concorrente Nabucco, ma questa è l’ipotesi più probabile. Oltretutto la potenzialità a regime di South Stream (63 miliardi di metri cubi all’anno) è doppia di quella ipotizzata per Nabucco (30 miliardi di metri cubi).

L’accordo è stato firmato da Gazprom ed Eni, che gestiranno l’impresa al 50% (costo previsto 20 miliardi di euro), e dalla Turchia che ha ricevuto in cambio la partecipazione di aziende italiane e russe ad alcuni progetti industriali nel paese.

La stretta di mano tra Putin, Erdogan e Berlusconi ha mandato su tutte le furie il partito americano che attraversa trasversalmente gli schieramenti politici europei. L’accusa è quella di “essersi messi definitivamente nelle mani dei russi”, in pratica un’accusa di tradimento rivolta in particolare al capo del governo italiano.

Alcuni dati

Per inquadrare correttamente la questione è necessario conoscere alcuni dati.
La dipendenza europea dal gas russo è rilevante, ma non così schiacciante come si vorrebbe far credere. Nel 2007, secondo i dati dell’Aie (Agenzia Internazionale dell’Energia) le importazioni dalla Russia coprivano solo il 24% dei consumi di gas europei. Al 43% prodotto negli stessi paesi dell’UE, va aggiunto il 15% proveniente dalla Norvegia, mentre la restante parte viene importata da Algeria (11%), Libia, Qatar e Nigeria.

E’ noto, però, che l’offerta di gas di produzione europea è in forte declino, mentre i consumi continuano a crescere al di là della crisi. L’Unione Europea stima un aumento della domanda interna dagli attuali 524 miliardi di metri cubi annui ai 636 previsti per il 2020. Di questi ultimi, 179 dovrebbero essere forniti dalla Russia. Una cifra enorme, ma pur sempre soltanto il 28% dei consumi finali. Tenendo conto che il gas naturale rappresenta circa il 25% delle fonti primarie utilizzate in Europa, ne consegue che l’importazione di gas dalla Russia (di cui quello proveniente dal South Stream sarebbe comunque soltanto un terzo) arriverà a coprire il 7% dei consumi energetici complessivi dell’UE. Un po’ poco per gridare alla sudditanza all’orso russo.

Se dal dato generale passiamo ad analizzare la dipendenza dal gas russo nei singoli paesi, quel che risulta chiaro è che essa deriva non da scelte politiche, ma da banalissime ragioni geografiche.

La dipendenza è infatti massima ad est, con punte del 100% in Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Seguono Bulgaria (90%), Grecia (81%), Repubblica Ceca (78%), Austria (67%), Ungheria (65%), Slovenia (51%).

All’opposto, non consumano neppure un metro cubo di gas russo i seguenti paesi: Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
In mezzo si collocano tre grandi paesi della UE: la Germania con il 39%, l’Italia (27%), la Francia (16%).

Questi dati ci dicono che nel settore del gas i fattori geografici sono tuttora dominanti, ed è logico che sia così. L’unico modo per stravolgerli si chiama rigassificazione, uno spreco enorme di risorse per il trasporto, l’impiantistica ed i rischi connessi. Uno spreco voluto in nome del “mercato”, ma sponsorizzato per evidentissime ragioni strategiche.
Nonostante tutto ciò non è difficile prevedere che il peso della rigassificazione, non fosse altro per la sua anti-economicità, resterà ancora a lungo marginale.

Questi richiami agli aspetti tecnici e geografici ci servono per mostrare quanto sia pretestuosa l’argomentazione del partito americano, quanto siano assurde le sue pretese. Tanto assurde da provocare un fuggi fuggi delle stesse multinazionali europee del settore: non solo l’Eni, ma anche le tedesche Basf ed E.on che partecipano con Gazprom al progetto North Stream, tra l’altro presieduto dall’ex cancelliere Schroeder, giusto per sottolineare la frattura che attraversa la classe dirigente tedesca.

L’indecente sezione italiana del partito americano (leggere per credere)

A questo punto ogni persona normale dovrebbe chiedersi: ma di che si impicciano gli americani? Cosa c’entrano con l’approvvigionamento del gas europeo? Si tratta di una merce che non devono né vendere né acquistare, perché sono così prepotenti?
Queste domande, talmente banali da apparire ingenue, non sfiorano neppure la sinistra italiana, tutta intenta a demonizzare Berlusconi quando irrita gli americani, quanto silenziosa, complice e plaudente quando il governo ne asseconda in toto le richieste (vedi Afghanistan).

Leggere per credere.
C’è un quotidiano di questa “sinistra” che il 7 agosto ha dedicato integralmente 5 pagine all’accordo di Ankara con i seguenti titoli:
“La banda del tubo – Berlusconi sensale dell’affare del secolo tra Putin ed Erdogan – Joint-venture per far fuori l’Europa e l’America” (pagina 1).
“Gas, Berlusconi lega il Paese ai voleri della Russia di Putin” (pagina 4).
“Così l’Italia dà a turchi e russi tutto il potere sull’Europa” (pagina 5).
“La «guerra dei gasdotti» che spiazza la UE e irrita Obama” (pagina 6).
“Donne e gas – La lunga amicizia di Silvio e Vladi” (pagina 7).

La citazione di questi titoli a tutta pagina dà l’idea del contenuto degli articoli che battono tutti sullo stesso chiodo: l’accordo di Ankara lega il futuro energetico dell’Europa alla Russia di Putin, il traditore Berlusconi (ma anche il traditore Erdogan, che però interessa meno alla bassa cucina politica del nostro paese) ha avuto la condanna di Barak Obama. Una condanna, si precisa, “senza appello”.

Domanda da un euro: qual è il nome della testata che ha ospitato questo fulgido esempio di giornalismo? L’“Unità”, ovvero quel giornale, che volendo offendere la memoria oltre che il buon senso, continua a riportare la dicitura “Fondata da Antonio Gramsci nel 1924”.

Che dire? Se la sezione europea del partito americano, particolarmente potente nei palazzi dell’Unione, è trasversale agli schieramenti politici del continente, in Italia brilla per servilismo la cosiddetta “sinistra”. E con il dilagare dell’obamismo sarà sempre peggio.

Perché Berlusconi ha sgarrato?

Se l’opposizione parlamentare fa veramente schifo, resta da capire il perché della politica governativa e di Berlusconi in particolare.
Tenendo conto della situazione energetica italiana, e di quella delle forniture di gas in particolare, l’accordo di Ankara è assolutamente logico. Si prende il gas dove c’è, con accordi diretti con chi lo produce, per trasportarlo dove dovrà essere consumato: cosa c’è di strano? Il linguaggio attuale definisce questi accordi win win, dato che entrambi i contraenti hanno evidenti motivi di soddisfazione.

Abbiamo già detto che il gas russo copre il 27% dei consumi italiani, che corrisponde al 31% di quello importato (c’è infatti da considerare anche la produzione interna, pari al 13% dei consumi). La quota russa è addirittura superata da quella algerina (33,2%), mentre anche Libia (12,5%), Olanda (10,9%) e Norvegia (7,5%) detengono una fetta non disprezzabile. Solo una propaganda sfacciata può vedere in questa situazione una dipendenza assoluta da Mosca.
Lo ribadiamo: dal punto di vista degli interessi nazionali l’accordo di Ankara, che vede in gioco anche il ruolo dell’Eni, è assolutamente logico. Solo il partito americano può negarlo, continuando ad emettere minacce e condanne attraverso i multiformi canali dei suoi mezzi di disinformazione.

Resta però la domanda: perché Berlusconi ha sgarrato, perché non si è allineato ai voleri di Washington, esponendosi così alla pesante condanna della Casa Bianca? Ci sono tre tipi di spiegazione: una gossippara, una economicista, una politica.

Quella gossippara, che riportiamo per dovere di completezza ma anche per mostrare fino in fondo il tipo di lotta ingaggiata dal partito americano, si basa su una sorta di scambio “bionde per gasdotti”, un traffico che porterebbe addirittura la mafia russa nelle stanze dei bottoni dello stato italiano.

Anche qui, leggere per credere la già citata “Unità” che riprende nell’occasione il Nouvel Observateur: “Il feeling italo russo si ferma alla luce del sole? Se lo chiede il Nouvel Observateur di questa settimana riprendendo indiscrezioni provenienti da Bari: la presenza di «intere barche di ragazze dell’Est, russe e ucraine» fatte venire alle feste di Villa Certosa da Tarantini, imprenditore con frequenti viaggi a Mosca dove è consulente societario. «Con queste ragazze c’è la droga – scrive il settimanale francese citando un poliziotto antimafia – E’ la stessa filiera». Insomma attraverso la pista della cocaina seguita dai pm «l’ipotesi di un’infiltrazione della mafia russa al vertice dello stato italiano prende consistenza»”.

La spiegazione economicistica è meno contorta: Berlusconi fa prevalere gli affari sopra ogni altra considerazione. Siccome sono in ballo gli investimenti dell’Eni ed anche la penetrazione di alcuni grandi gruppi italiani in Russia (ma anche in Turchia), ogni altro elemento di valutazione è passato in secondo piano.

E se invece la spiegazione fosse ancora più semplice? Se, cioè, per una volta avessero davvero prevalso gli interessi nazionali? Naturalmente questi ultimi non sono una cosa astratta, ed in una società capitalista corrispondono inevitabilmente a precisi interessi di classe.
Ovviamente, gli “interessi nazionali” così come possiamo intenderli noi sono cosa ben diversa da quelli eventualmente perseguiti dalle forze capitalistiche.

Una domanda provocatoria

Ma – domanda provocatoria – se al posto di Berlusconi vi fosse in Italia un governo socialista ed antimperialista avrebbe dovuto sottoscrivere l’accordo di Ankara, oppure no?

Io ritengo di sì, per almeno 5 motivi.
1. L’accordo garantisce forniture certe di una fonte energetica che sarà fondamentale ancora per molti anni e che è la più pulita tra i combustibili fossili disponibili.
2. Mentre non è vero che esso renda eccessivamente dipendente l’Italia dalla Russia, è certo che la strada opposta avrebbe condotto alla necessità di un elevato numero di rigassificatori, negativi sotto ogni profilo (ambientale, economico, di sicurezza).
3. Dire di no a South Stream avrebbe voluto dire sì all’offensiva della Nato verso est. E’ francamente impossibile non rendersene conto.
4. L’imperialismo americano rimane il principale nemico dei popoli e della pace, il principale presidio dell’ordine capitalistico mondiale. Ad Ankara ha preso un calcio negli stinchi, dovremmo dolercene?
5. La storia ci insegna che per la lotta antimperialista ed anticapitalista il multipolarismo è meglio dell’unipolarismo. Crea più spazi alle lotte dei popoli e degli sfruttati. Sia chiaro, il multipolarismo è di là da venire, ma se gli Usa avessero vinto la partita dei gasdotti l’unipolarismo a stelle strisce si sarebbe ulteriormente rafforzato.

Conclusione

Tornando alle scelte del governo italiano (certamente contrastate da una parte consistente della stessa maggioranza parlamentare), quel che Ankara fa intravedere è un possibile, parziale, ritorno alla politica estera democristiana, pur in un mutato contesto. La Dc, e poi il Psi, erano assolutamente filo-atlantici, ma nelle maglie della guerra fredda trovavano il modo di sviluppare (ad esempio verso il Medio Oriente, ma non solo) una propria iniziativa, corrispondente a dei precisi interessi. Il tutto avveniva dentro limiti rigorosi, e se qualcuno li varcava anche di poco (Craxi a Sigonella) si trovava il modo di fargliela pagare.

Poi la guerra fredda è finita, e anche quei piccoli margini alla politica estera italiana sono scomparsi. L’impero americano non ammetteva più neppure la più piccola autonomia.
Ma con il fiasco dell’offensiva bushiana e con l’esplosione della crisi economica non siamo forse entrati in una nuova fase? Forse è proprio questo che ci dice l’accordo di Ankara, che può essere letto come un momento di riemersione politica di due sub-imperialismi (Italia e Turchia), che certo non mettono in discussione la fedeltà atlantica, ma che intendono ritagliarsi un proprio piccolo spazio approfittando del momento di passaggio in atto negli equilibri mondiali.

Se adottiamo questa chiave di lettura tutto risulta assai più chiaro. La versione economicista (gli affari prima di tutto!) può benissimo integrarsi con quella politica e, se proprio lo si vuole, perfino con quella gossippara. Quando i pasciuti ministri democristiani trafficavano con il mondo arabo non dimenticavano mai né gli interessi dei maggiori gruppi capitalistici italiani, né la riscossione di laute tangenti. Non per questo possiamo dire che non si muovessero dentro un preciso disegno politico.

Un disegno politico che oggi sta riemergendo secondo le vecchie direttrici di un tempo. Pretendere di ricondurre questo fatto evidente nel classico schema antiberlusconiano è il peggiore degli errori che si possano commettere. Del resto, rimanendo al caso in oggetto, vogliamo forse dimenticare che il memorandum di intesa tra Eni e Gazprom su South Stream fu firmato già il 23 giugno 2007, cioè in pieno governo Prodi?

Ed a proposito di presente e passato, ricordiamoci che mentre si muovevano con una qualche (sempre parzialissima) autonomia sull’altra sponda del Mediterraneo, i governi di centrosinistra della Prima repubblica accoglievano gli euromissili destinati a spianare la strada all’impero americano. Ugualmente, oggi, il premier dell’accordo di Ankara è lo stesso che incrementa le truppe in Afghanistan, che appoggia totalmente Israele, che lavora per la piena americanizzazione culturale e sociale.

E’ dunque un premier da combattere con ogni mezzo, ma stando sempre ben attenti (vedi anche il caso libico) a non diventare strumenti magari inconsapevoli del ben più pericoloso partito americano, oggi forte soprattutto a “sinistra”.