Due giorni fa un convoglio di militari italiani, di pattuglia nel settore della valle di Musahy, vicino a Kabul, è stato investito dall’esplosione di un ordigno lasciato sul ciglio di una strada. Nessun paracadutista è rimasto ferito mentre il veicolo Lince ha riportato seri danni.
Ma nel giorno dell'ennesimo attacco ai militari italiani il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, solleva pesanti e imbarazzanti interrogativi destinati in particolare al ministro La Russa, che nell'intervista successiva pubblicata qui di seguito risponde piuttosto ambiguamente, vaneggiando anche di un codice militare nè di pace nè di guerra da applicare in futuro nelle varie missioni internazionali in cui sono impegnati i soldati italiani.
Dice Tricarico "Siamo sicuri che i blindati Lince non siano stati dotati di protezioni migliori per mancanza di fondi? [...] Bisogna capire se, e in che misura, sulla sicurezza dei nostri soldati in Afghanistan pesa la carenza di risorse. Siamo sicuri che l'addestramento dei nostri è adeguato, o invece è vero che non sono state fatte esercitazioni perché mancavano i soldi per comprare le munizioni? [...] Bisogna vedere se non si può finanziare meglio la sicurezza dei nostri soldati, magari con iniziative di finanza creativa [... ] Sulla questione occorre una complessiva rivisitazione di carattere politico e tecnico: solo dopo si potrà andare ai funerali - anche se tutti speriamo che non ce ne siano più - senza piangere lacrime di coccodrillo [...] Far fuoco con i cannoncini dei Tornado non solo è inutile, ma anche pericoloso perchè in scenari come quello afgano il rischio di danni collaterali è certo. Colpire un talebano con le armi di bordo di un Tornado è facile come vincere al superenalotto, mentre il rischio di centrare bersagli diversi, civili innocenti, è altissimo. Tecnicamente è così, tutti lo sanno. Proprio per questo le armi di bordo dei caccia non sono state mai usate neppure nei 78 giorni di operazioni aeree sui Balcani [...] C'è un modo diverso e certo più efficace per contrastare gli insorti in Afghanistan: quello di armare i velivoli senza pilota Predator. I nostri possono essere dotati di missili Hellfire in grado di essere diretti senza margine di errore sull'obiettivo. Durante il Governo Prodi questo velivolo, che si sta rivelando utilissimo per la ricognizione, non venne impiegato neppure disarmato perchè, come osservò ad esempio il leader di Rifondazione Giordano, 'con quel nome volete che sia uno strumento di pace?'. Oggi credo sia giunto il momento di dotare i Predator di missili di precisione."
E Tricarico dal suo punto di vista militare ha pienamente ragione. Infatti quella in Afghanistan non è una missione di pace ma una guerra vera e propria. E il governo sarà presto costretto ad esprimersi e comportarsi di conseguenza, senza più ridicole ambiguità.
Intanto pochi giorni fa il neosegretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha svelato quella che potrà essere la tattica dell'alleanza atlantica in Afghanistan "Se si vuole arrivare al successo in Afghanistan occorrerà aumentare le truppe sul terreno [...] La Nato ha fatto enormi progressi nella lotta ai talebani nel sud dell'Afghanistan proprio perchè in quell'area c'è stato un rinforzo del contingente [...] La soluzione per l'Afghanistan non può essere solo militare. Gli afgani meritano opportunità per una vita migliore".
Le dichiarazioni di Rasmussen fanno da eco a quelle di Stanley McChrystal, comandante in capo dell'ISAF, la missione Nato in Afghanistan. McChrystal avrebbe infatti presentato un rapporto nel quale presenta istanza per un aumento di uomini nelle zone di guerra.
Ma se in Afghanistan l'escalation è in pieno atto, in Iraq invece dopo una parentesi di semi normalità, si è tornati ormai alla piena normalità: tre giorni fa almeno 38 persone sono rimaste uccise in un attentato con autobomba a Mosul, nel nord dell’Iraq, nei pressi di una moschea sciita. Oltre alle vittime ci sono stati anche 276 feriti. E sempre venerdì a Baghdad sono rimasti uccisi sette pellegrini sciiti, rientrati nella capitale dopo un pellegrinaggio nella città santa di Kerbala, nel sud.
La normalità irachena è proseguita anche oggi: 41 morti e oltre 150 feriti, bilancio provvisorio di quattro attentati messi a segno questa mattina.
Due camion bomba sono esplosi nella cittadina di Khaznah, 20 chilometri a est di Mosul, causando la morte di 25 persone e il ferimento di altre 75.
A Baghdad invece, due auto sono esplose provocando 16 morti, in gran parte operai edili che si recavano a lavoro.
In sintesi, in Afghanistan e Iraq tutto procede nella norma: guerra, as usual.
La Russa:"In Afghanistan i Tornado possono sparare"
di Maurizio Caprara - Il Corriere della Sera - 10 Agosto 2009
«Rivolgo un appello ai magistrati affinché il tempo di sequestro dei blindati 'Lince' sia ridotto al minimo », dice Ignazio La Russa. In un’intervista al Corriere , il ministro della Difesa affronta alcuni degli aspetti più controversi e delicati della missione militare in Afghanistan, della quale i sigilli giudiziari ai mezzi italiani danneggiati dalle bombe talebane sono un indice. Fino a che punto si può far finta che una missione chiamata «di pace» non sia in un territorio di guerra? A quali norme devono essere sottoposti i nostri militari? Quanti ribelli sono stati uccisi dai soldati italiani? Tra il codice militare di pace applicato attualmente e quello militare di guerra che venne impiegato in Iraq, il ministro del Popolo della libertà indica una terza strada: «Serve un codice per le missioni internazionali sul quale è possibilissima un’intesa con l’opposizione».
I capi del parco macchine del contingente italiano in Afghanistan hanno detto al nostro inviato Lorenzo Cremonesi che a undici Lince colpiti dai ribelli sono stati messi sigilli giudiziari: per renderli «a disposizione» della Procura di Roma tenuta a indagare. Ministro, conferma?
«Sì. Non ho il numero esatto, ma l’articolo è corretto. Dal governo Prodi in poi, tranne la parentesi dell’Iraq, il codice che si applica non è quello militare di guerra, bensì il codice militare di pace. Se ci sono morti e feriti è come se questo avvenisse in una normale esercitazione. Tant’è che stiamo correndo ai ripari».
Verso dove?
«Io non me la sentivo di appoggiare un ritorno al codice militare di guerra. Alcuni del Pdl, con un emendamento, me lo chiedevano. Ho detto: lasciate stare, si creano più polemiche. Per farli desistere ho impiegato un argomento: nelle commissioni Difesa del Parlamento è possibilissima un’intesa con l’opposizione per un codice militare specifico per le missioni internazionali. Né di pace né di guerra».
Qui sta il punto. All’origine dei sigilli ai Lince non è l’ambiguità in base alla quale, per farla apparire nei limiti dell’articolo 11 della Costituzione, la missione italiana viene presentata come pacifica mentre agisce in quella che gli alleati definiscono una guerra?
«Non è tanto per l’ambiguità. E’ per la scelta fatta dal Parlamento di applicare il codice militare di pace. So che il mio predecessore al ministero, Arturo Parisi, l’ha subita, come l’ho subita io. Ma la rispetto, come va rispettata la Costituzione. Per questo stiamo predisponendo il nuovo codice».
Per vararlo non serve una legge costituzionale?
«Se ne discuterà in Parlamento. Vi sono fautori di entrambe le tesi».
Nel frattempo i Lince?
«Rivolgo un appello ai magistrati affinché il tempo di sequestro dei Lince sia ridotto al minimo. Per la specificità della missione, e perché anche i blindati rotti ci servono » .
A che cosa?
«Per i pezzi di ricambio. Questi Lince continuano a salvare le vite di molti soldati. Anche sabato una bomba ne ha fatto saltare uno, ma nessuno è rimasto ferito. Forse i magistrati pensano che il mezzo, molto danneggiato, possa stare sotto sequestro senza problemi. Invece da lì si prenderebbero i pezzi di ricambio per gli altri mezzi».
Non ne avete?
«Non portiamo tutti i ricambi in Afghanistan perché, statisticamente, sono i Lince usurati o danneggiati a fornirli. E non c’entrano i fondi».
Se viene ucciso un militare italiano, la Difesa lo dichiara: dal 2001 in Afghanistan ne sono morti 15. Manca però un dato: quanti miliziani afghani sono stati uccisi dai nostri soldati in scontri a fuoco?
«Il numero preciso non viene tenuto. Non c’è una contabilità anche perché è difficile accertarlo. Di certo il numero degli insorti — talebani, trafficanti di droga, tutti coloro che compiono atti ostili — è superiore alle perdite subite dai contingenti internazionali. E di molto».
Quelli colpiti da italiani?
«Anche per i nostri il rapporto è di sicuro più alto. Quando i nostri sono stati costretti a difendersi, gli altri hanno subito perdite. Tra i contingenti siamo quelli che hanno avuto meno lutti, anche se non per questo meno dolorosi».
I morti afghani sono di più da quanto avete tolto i caveat che limitavano l’impiego dei militari in combattimento?
«No, la natura della missione non è mai cambiata e l’unico caveat tolto è sull’impiego fuori dalla zona Ovest, per altro quasi mai utilizzato».
I cacciabombardieri Tornado italiani hanno già cominciato a dare copertura aerea ai soldati, ossia a sparare oltre che ad avere funzioni di ricognizione?
«Dopo aver informato le Camere, ho dato via libera ai comandanti. A loro valutare. Parliamo non delle bombe, che sull’aereo non portiamo neanche. Ma del cannoncino dei Tornado, simile a quello degli elicotteri Mangusta».
«Per ora li raddoppiamo: altri due. Sarebbe bene averne di più, ma al momento abbiamo questi. Li manderemo insieme con altri elicotteri».
Afghanistan, bambini insorti e cetrioli esplosivi
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 8 Agosto 2009
"Qual'era la colpa dei miei bambini innocenti? Non erano talebani! Gli stranieri sono venuti qui per ricostruire il nostro Paese o per uccidere i nostri figli innocenti?!". Abdul Rahim piange aggrappato alle sbarre del furgoncino nel quale riposano i piccoli corpi senza vita dei suoi due figli di pochi anni, uccisi martedì notte, assieme a un altro bambino e un uomo, dai missili sparati da un elicottero militare statunitense sul villaggio di Kowuk, nella valle di Arghandab, una ventina di chilometri a nord di Kandahar. Attorno al furgone, parcheggiato davanti al palazzo del governatore, un centinaio di parenti e amici di Abdul Rahim e delle altre vittime urlano "Morte all'America! Morte agli infedeli!". Tra loro Haztat Mohammad, che ai giornalisti locali dice che gli elicotteri sono arrivati attorno all'una di notte, e hanno sparato con le mitragliatrici prima di lanciare due missili.
Dinamica confermata dal comando militare Usa a Kabul, secondo cui, però, gli obiettivi erano insorti che stavano piantando una mina.
Il giorno dopo, verso la mezzanotte di mercoledì, cinque contadini del distretto di Zahri, trenta chilometri a ovest di Kandahar, stavano caricando casse di cetrioli nel bagagliaio di una macchina per portarli il mattino dopo al mercato. Con il caldo che fa in questa stagione, si lavora meglio di notte che di giorno. All'improvviso è arrivato un elicottero Apache dell'esercito statunitense, che ha aperto il fuoco con la mitragliatrice, facendo a pezzi i contadini, la macchina e i loro cetrioli. Secondo il comando militare Usa erano insorti che caricavano casse di munizioni. "Come possono fare questi errori?", si chiede Niaz Mohammad Sarhadi, capo della polizia di Zahri. "I piloti degli elicotteri indossano binocoli a infrarossi!".
La mattina di quello stesso giorno, nella vicina provincia di Helmand, un'intera famiglia di Garmsir stipata sul rimorchio di un trattore stava andando a una festa di matrimonio. Le ruote del mezzo hanno pestato una mina piantata dai talebani sul bordo della strada. L'esplosione ha fatto saltare in aria trattore e rimorchio, uccidendo due bambini, due donne e un uomo della famiglia.
Le mine artigianali talebane - ordigni esplosivi improvvisati (Ied) nel gergo militare - stanno facendo strage di civili nel distretto di Garmisr, occupato a inizio luglio da quattromila marines. Lo stesso accade in tutti gli altri distretti dove le truppe Nato statunitensi o britanniche sono arrivate in forze e dove, quindi, i guerriglieri piantano centinaia di mine e sferrano attacchi suicidi senza sosta. Ma la rabbia della popolazione civile non è indirizzata verso i talebani.
"Le mine e i kamikaze che colpiscono anche noi civili sono diretti contro i soldati stranieri. Tutto questo non accadrebbe se loro non ci fossero. Più soldati ci sono, più queste cose succedono!", racconta un anziano, ferito in un attacco suicida a Grishk e ora ricoverato all'ospedale di Emergency a Lashkargah. "Una maggiore presenza delle truppe straniere non ci aiuta. Anzi, ci mette tutti in pericolo. L'attentato nel quale sono rimasto ferito non sarebbe avvenuto se nel mio villaggio non ci fossero stati tutti quei soldati stranieri", protesta un giovane nel letto accanto, anche lui vittima dello stesso attentato.
E la Nato, senza accorgersene, dà loro ragione. In un video di propaganda alleato sugli ordigni esplosivi improvvisati dei talebani che quest'anno hanno già ucciso oltre quattrocento civili afgani, viene apertamente affermato (al minuto 1' 13'') che "più aumenta il numero di truppe in Afghanistan, più aumenta quello delle mine piantate dagli insorti"...
Afghanistan e Iraq: gli effetti del nuovo modello di guerra occidentale
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 4 Agosto 2009
In Afghanistan e in Iraq ci sono i nostri, il nemico e gli altri, quelli che dal nuovo modello di guerra occidentale hanno subito un danno incalcolabile, un effetto “collaterale” di cui non si ha più l’esatta portata, né in termini di vite umane né in numero di profughi. Persone costrette ad abbandonare le loro case, i loro cari, la loro vita, cifre approssimative che diventano terreno di discussione tra i detrattori e gli estimatori delle scelte americane d’inizio secolo, calcolati su notizie frammentarie diffuse attraverso i comunicati degli ospedali e delle organizzazioni umanitarie o da fonti di agenzie di stampa che rimbalzano da un giornale all’altro. Cifre impressionanti che vengono offuscate dalle statistiche della coalizione, che con attenzione certosina aggiornano in tempo reale i database relativi alla perdite subite dagli alleati.
Secondo Martin Shaw, professore di politica e relazioni internazionali all’Università del Sussex, le responsabilità di questa nuova politica, di questo nuovo modo di interpretare la guerra, sono gravissime; responsabilità che possono essere accertate solo attraverso un’analisi approfondita dei fatti, elemento fondamentale per un futuro giudizio politico e morale: quasi seimila soldati caduti in combattimento, 1271 in Afghanistan e 4646 in Iraq; tra gli 11 e i 30 mila civili afgani morti a causa delle operazioni militari e delle azioni terroristiche; più di 100 mila civili uccisi nel conflitto iracheno, 600 mila secondo uno studio della Johns Hopkins University che però si riferisce al solo periodo 2003-2007.
Indipendentemente dal contesto a cui ci si riferisce, in qualsiasi guerra, massacro o pulizia etnica, il numero delle vittime inizialmente stimato tende spesso ad essere superiore a quello reale. Se anche così non fosse, resta comunque il fatto che anche nella più ottimistica delle ipotesi, dal 2001 ad oggi, in Afghanistan e in Iraq si può sicuramente parlare di 120 mila civili morti e di un numero impressionante di feriti; un impatto umano incalcolabile che fa capire il potenziale di un conflitto che in alcune zone si potrebbe addirittura trasformato in scontro etnico.
Il rischio è infatti che almeno in Iraq il complesso scontro tra sciiti e sunniti si potrebbe allargare alla minoranza curda e questo darebbe luogo ad un aumento vertiginoso delle vittime e dei profughi. Le persone costrette ad abbandonare la propria casa sono infatti il secondo e più urgente problema di questa questione mediorientale: otto milioni secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHRC); 4,6 milioni in Iraq; 3,5 milioni in Afghanistan.
In realtà, in questo secondo caso il numero di rifugiati causato dal conflitto è prossimo alle 230 mila unità, un numero sicuramente inferiore ai 3 milioni di civili fuggiti dalle barbarie e dall’intollerante di un regime primitivo e violento come quelli dei Taleban. Un dato in netto contrasto con quanto avvenuto in Iraq dove, al contrario, dei 4,6 milioni di profughi “solo” un milione sarebbe antecedente al 2003, e quindi dovuto alla repressione messa in atto dal regime di Saddam Hussein; il resto sarebbe stato causato dall’azione bellica della coalizione e dal sanguinario scontro tra sciiti e sunniti. Fallimentare anche la politica del “ritorno”: in totale gli iracheni rientrati nelle loro abitazioni sarebbero circa 200 mila; 1,9 milioni quelli rimasti all’estero; 2,7 milioni quelli ancora accolti nei campi profughi organizzati all’interno dei confini iracheni.
In questi ultimi mesi, in Afghanistan, al drammatico aumento delle vittime civili corrisponde un altrettanto preoccupante aumento delle perdite Isaf. Questa vertiginosa escalation sarebbe la risposta talebana all’incremento di truppe deciso dall’amministrazione Usa e alle elezioni del 20 agosto. A differenza degli altri anni, le milizie applicherebbero una strategia simile a quella usata dai Vietcong negli anni Sessanta: i talebani attirerebbero infatti le truppe internazionali in zone dove il rischio di vittime civili è alto e, più che in passato, farebbero largo uso di attività di guerriglia, con attacchi suicidi, autobomba, ordigni fatti esplodere lungo il ciglio delle strade ed omicidi mirati.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nei primi sei mesi dell’anno sarebbero almeno 1.013 i civili morti in Afghanistan; il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2008, quando a perdere la vita erano stati 818 afgani, e quasi il 55% in più rispetto ai 684 morti del 2007. Al 30,5% di vittime che sarebbe addebitabili alle operazioni delle forze afgane e ai raid aerei dell’Isaf, fa da contraltare il 59% causato dalle azioni portate a termine dalle milizie talebane. Percentuali comunque in controtendenza rispetto allo scorso anno quando le forze che appoggiano il governo erano state ritenute responsabili del 41% dei morti, mentre ai gruppi anti-governativi era stato assegnato un altrettanto preoccupante 46%.
Oltre che sui civili, l’azione talebana colpisce in modo significativo anche sulle truppe Isaf. Nel caso dei soldati britannici si è addirittura registrato un numero totale di morti superiore a quello del conflitto iracheno: 191 contro 179 (dato rilevato alle 24:00 del 1 agosto 2009), con più di 150 feriti gravi nei soli ultimi dieci giorni di luglio e 19 soldati uccisi nelle prime tre settimane dello stesso mese. Vittime che si vanno ad aggiungere ai 763 militari americani morti in otto anni di conflitto, ai 125 canadesi, 33 tedeschi, 29 francesi, 25 spagnoli, 24 danesi, 19 olandesi, 15 italiani e ad altri 58 soldati di 14 diverse nazioni, per un totale di 1282 morti.
In Iraq il fallimento politico e militare della coalizione è altrettanto evidente, lo dimostra la sequela di attentati che, ad un mese dal ritiro delle truppe statunitensi dai centri urbani, sta straziando il Paese: luoghi di culto sciiti e cristiani; stazioni di polizia; sedi di partito; edifici pubblici. Fatti che ci riportano al 22 febbraio 2006, quando i sunniti fecero esplodere il mausoleo sciita di Samara, e che ci fanno capire come l’obiettivo sia ancora una volta quello di riportare il scontro sui binari dell’appartenenza settaria o religiosa, uno scontro che coinvolge anche fattori esterni e che prepara il Paese alle elezioni del prossimo gennaio.
Un fallimento che pesa anche sul sacrificio dei militari che in Iraq hanno perso la vita: 4646 in totale, 4328 americani, 179 britannici, 33 italiani, 23 polacchi, 18 ucraini, 13 bulgari, 11 spagnoli ed altri 41 soldati di 16 diverse nazioni. Numeri destinati a crescere, soprattutto grazie alla cecità politica di chi pensava di poter trattare il Medio Oriente come un affare interno, un problema di semplice e rapida soluzione, e che invece si è ritrovato a dover affrontare una situazione per la quale la soluzione militare è sicuramente la più cara.
A cosa è servita la guerra?
di Leila Fadel - McClatchy Newspapers - 4 Agosto 2009
Traduzione di Arianna Palleschi per www.osservatorioiraq.it
Ho preso un vizio in Iraq. Ogni mattina, prima di uscire dall’ufficio, assaporavo quel momento - l’attimo precedente. Forse questo derivava dal fatto che i miei amici iracheni mi raccontavano come pregavano prima di uscire di casa perché forse non vi avrebbero più fatto ritorno.
Per circa 3 anni ho trascorso le mie mattine allo stesso modo: mi svegliavo e iniziavo a preoccuparmi di ciò che la giornata avrebbe portato. Il problema non era se quel giorno sarebbero morte delle persone, il punto era solo quando, come, e quante.
In quelli che definivamo i giorni “buoni” ne morivano solo 10. Ma poi c’erano i giorni “cattivi”.
Il giorno in morì un amico. Quello in cui più 300 vite vennero spazzate via in pochissimi minuti.
La giornata in cui una madre pianse tra le mie braccia per aver perso suo figlio, ucciso da un membro della milizia, e la sua vedova si rannicchiò in un angolo della stanza ormai vuota che aveva condiviso con il marito.
Il giorno in cui un uomo raccontò di aver lavato il corpo della propria moglie, crivellato dai proiettili, in una moschea dedicata al religioso che lei adorava. Quello in cui una figlia pianse tra le braccia della madre uccisa per errore da una squadra di sicurezza americana. Il giorno in cui io stessa chinai il capo insieme ai soldati statunitensi mentre onoravano la memoria dei loro caduti.
Il giorno in cui piansi con la mia più cara amica a Baghdad. Il Paese in cui lei mi aveva accolto e i luoghi che mi aveva mostrato non erano più sicuri per lei, e aveva deciso di partire insieme a sua figlia e al marito. Dopo che diversi Paesi avevano negato loro il visto, è finita nella regione del Kurdistan, nel nord dell’Iraq, assai più sicura.
L’Iraq mi ha insegnato ad assaporare il bene e le banalità. I miei ricordi preferiti riguardano eventi frivoli - ridacchiare nel santuario sciita di Najaf con la mia collega Jenan, dopo essere fuggite dai rimproveri di una guardia correndo verso la zona della moschea destinata alle donne.
Avevamo fatto le nostre abluzioni nella parte sbagliata del cortile, quella riservata agli uomini, e quando una guardia aveva iniziato a urlare verso di noi in arabo, avevamo fatto finta di essere iraniane, e di non capire, prima di scappare attraverso le porte goffrate in oro nell’area del santuario riservata alle donne. Lì ci eravamo sedute con le gambe incrociate sotto il soffitto di specchi scintillanti, ridendo in silenzio, prima di chinare le nostre teste nel riflesso degli specchi mentre le altre donne pregavano sui tappeti disposti sul pavimento.
Abbiamo festeggiato compleanni con torte decorate con fragole fresche mentre un computer portatile riproduceva la musica ad alto volume. Abbiamo rallentato nel traffico di Baghdad per vedere le processioni di macchine da cui proveniva una musica assordante, mentre i clacson suonavano per celebrare una coppia di sposi che iniziava la propria vita insieme. Abbiamo finto che questi momenti fossero la normalità, non l’eccezione.
La realtà in questa capitale fatta di grigio e marrone è che guerra e povertà hanno prevalso, sempre e comunque. Nel mio ultimo giorno in Iraq, così come nel mio primo giorno nel Paese, non ho visto che cosa gli Stati Uniti e i loro alleati avessero realizzato.
Non sono riuscita a vedere molte tracce dei miliardi di dollari dei contribuenti americani che sono andati spesi per ricostruire una nazione devastata per più di trent’anni da guerre, sanzioni, e infine dall’ennesima guerra.
Non sono riuscita a capire per cosa avessero perso la vita migliaia di soldati americani, e perché centinaia di migliaia di iracheni fossero stati uccisi. Non ho visto una democrazia nascente in un governo iracheno che era sempre più simile a quello di Saddam Hussein. E non ho visto una terra divisa per tanto tempo da confessioni, etnie, tribù, e classi che iniziasse a fiorire diventando una nazione unita.
Per alcuni mesi ho sperato che le cose potessero funzionare. Questo è accaduto quando la violenza è diminuita, e la capitale ha iniziato di nuovo a vivere. La tv nazionale trasmetteva "Baghdad at Night" da quartieri che non erano mai stati i più pericolosi ma che comunque si stavano risvegliando.
Ho pensato che potesse funzionare quando ho cenato al ristorante italiano dove ero stata per la prima volta nel 2005, prima che i proprietari fuggissero e lo chiudessero. Venne riaperto a Capodanno. Le mie speranze crebbero il giorno in cui il locale dove facevano la miglior shawarma di tutta Baghdad riaprì quando il suo proprietario, che era stato sequestrato almeno una volta, era tornato, e quando il locale del kebab a Falluja riaprì i battenti.
Lentamente e con aria di sfida, le persone tornavano a vivere, costruendo le loro vite in cima alle macerie, al sangue, e alle cicatrici della guerra.
"Siamo esausti", mi aveva detto il mio amico e collega del gruppo McClatchy - Mohammed. "Tutto quello che vediamo ogni giorno è rosso, e a volte invece vorresti vedere qualsiasi altro colore eccetto quello”.
Questa primavera, mentre mi preparavo a partire, anche i soldati americani facevano lo stesso. La violenza aveva iniziato ad aumentare gradualmente di nuovo con il loro ritiro imminente, e le fazioni in conflitto, che erano state tenute insieme dalle forze armate statunitensi, si preparavano per le prossime battaglie.
Tutti quelli con i quali ho parlato mi hanno detto di temere la prossima battaglia - un conflitto che secondo loro potrebbe uccidere molti più iracheni di quanti ne siano stati uccisi nel corso degli ultimi sei anni.
Probabilmente quella battaglia inizierà un giorno o l’altro, dopo che i soldati americani se ne saranno andati. A quel punto, gli Stati Uniti non potranno tenere a freno un governo guidato dagli sciiti che è determinato a far sì che i suoi oppressori di un tempo non ricompaiano più.
Il governo appoggiato dagli Usa non può fermare una battaglia per la terra e per il petrolio tra kurdi e arabi nel nord del Paese. Non può seppellire, liquidare, o proteggere l’insurrezione sunnita che ha combattuto l’occupazione americana e la nuova leadership irachena che è arrivata al potere sui carri armati degli occupanti.
Durante i miei ultimi giorni in Iraq mi sono recata nell'est del Paese. Superata Ba'aquba, sono passata nella cittadina di Buhroz, davanti a dei bassi posti di blocco in cemento che erano stati spostati sul ciglio della strada.
Questo posto era stato una delle prime linee di "al Qaida in Iraq" per gran parte del 2007 e del 2008, quando il gruppo combatteva contro gli americani e i combattenti sunniti che questi ultimi avevano ingaggiato. Lungo i lati delle strade accidentate dalle enormi buche causate dalle bombe, gli edifici sembravano sgonfiati – abbattuti e avvizziti dalla violenza.
Lo scheletro di una scuola era tutto ciò che era rimasto in piedi dopo l’esplosione di una bomba che ne aveva fatto crollare il tetto. Non c’erano le risate dei bambini, né le mamme venute a riprendere le loro figlie. La maggior parte dei minuscoli villaggi erano vuoti e inabitabili.
C’erano i resti della guerra e i simboli della perdita – le carcasse bruciate di alcune Chevrolet Suburban bianche, automobili crivellate di proiettili o sorprese dalle bombe collocate nel cemento. Esplosivi fatti in casa erano ancora visibili lungo il ciglio di queste strade.
Nel villaggio di Yasser al Khuthayer, a poco più di 11 km da Ba'aquba, alcuni ragazzi stavano piantando l’erba nella terra abbandonata, vicino alle case distrutte dove una volta abitavano con le loro famiglie.
Il villaggio, come molti in Iraq, era composto da una famiglia allargata, gli Yas. Nei venerdì in cui c'era il sole si riunivano per fare dei picnic; i bambini giocavano su questa terra verdeggiante, e facevano il bagno nel piccolo canale dietro alle case e alle fattorie.
Oggi non è più così. L'erba adesso è secca, fragile, e marrone. Ha iniziato lentamente ad appassire il 15 novembre 2007.
Quel giorno maledetto, i combattenti di "al Qaida in Iraq" arrivarono a Yasser al Khuthayer e combatterono contro gli abitanti del villaggio. La lotta durò ore, e i combattenti portarono via tutti gli uomini del villaggio, adolescenti compresi. Alcuni riuscirono a scappare attraverso il canale, ormai in secca, dietro al villaggio; altri si nascosero sotto gli scaffali nel negozio del posto. Anche le pecore e le mucche vennero prese.
Gli uomini che invasero il villaggio accusavano i residenti di essere dei Sahwa, cioè membri del "Consiglio del Risveglio" che erano stati pagati dalle forze statunitensi per combattere "al Qaida in Iraq". Gli abitanti del villaggio non avevano idea di cosa fosse Sahwa.
Tre ragazzi furono liberati perché erano troppo giovani, ma 17 uomini sono scomparsi e ancora oggi non se ne ha traccia. Probabilmente sono stati gettati in un fiume dopo essere stati uccisi dagli estremisti. Le famiglie probabilmente non li troveranno mai, non potranno dare loro una decorosa sepoltura come previsto dall’Islam, e continueranno a chiedersi se siano da qualche parte, vivi.
Il giorno in cui mi sono recata nel villaggio un gruppetto di uomini giovani, adolescenti, e anziani invalidi, insieme a più di 120 tra donne e bambini del posto, avevano lasciato il villaggio e si erano trasferiti a Buhroz, la cittadina più vicina, dove oggi vivono in affitto in case che non possono permettersi.
Hasna Khowass Hassan mi aveva accolto in casa sua. Una donna afflitta, che porta ancora il lutto nella casa spoglia che ha affittato. Non c’era un filo d’erba fuori, solamente immondizia sparsa in giro dalle fognature rotte.
I suoi occhi erano appannati dalla tristezza. Cinque dei suoi sette figli sono stati uccisi, anche suo marito è morto, ucciso da "al Qaida in Iraq" in nome dello Stato islamico.
Prima dell’invasione Usa del 2003, non aveva mai sentito parlare di questo gruppo, ma questa è una delle cose che la guerra le ha portato. Non ha fatto più ritorno a Yasser al Khuthayer da quel fatidico giorno, e mai ci tornerà.
"Perché dovrei?, mi aveva detto la Hassan, mentre si prendeva la testa fra le mani e singhiozzava silenziosamente. Per alcuni minuti non era riuscita a parlare.
Perché dovrebbe tornare nel luogo in cui la sua famiglia è stata uccisa, quella che era la sua casa da oltre 30 anni distrutta, e la sua vita è stata stravolta per sempre?
Un ritratto del marito era appeso al muro della stanza vuota dove viveva con le vedove dei suoi figli e i loro bambini.
"Al Qaida in Iraq" ha ucciso almeno 17 uomini di questo villaggio, e ora Walid Taha Yas, 25 anni, mantiene 22 membri della sua famiglia allargata. Suo fratello minore ha solo 14 anni.
Quattro uomini del villaggio, in grado di lavorare, si dividono il peso di anziani, donne, e bambini. Gli uomini piantano l’erba sugli appezzamenti di terra arida, e li rivendono agli agricoltori per sfamare le famiglie di vedove e bambini rimasti orfani dei padri, le quali spesso dipendono dalla carità della tribù più grande per farcela ogni mese.
Ci sono voluti 6 mesi prima che gli uomini tornassero nuovamente a Yasser al Khuthayer. Walid Yas è andato con loro, ma non ha trovato niente della sua vita precedente qui, eccezion fatta per il metallo attorcigliato delle colonne del letto a baldacchino, alcuni tappeti bruciati, e frammenti del passato.
Quel che resta delle abitazioni sono muri carbonizzati e macerie. Walid aveva speso tutto ciò che aveva per arredare la stanza che divideva con sua moglie, collegata alla camera dei suoi fratelli da un cortile.
Mi ha mostrato dove si trovava il suo letto, mi ha descritto orgogliosamente il bellissimo cassettone di legno che aveva comprato e il grande letto matrimoniale che aveva acquistato con l’aiuto della sua famiglia.
Per un mese non ha fatto altro che venire qui e piangere.
Walid mi ha indicato uno degli edifici distrutti dove cinque persone erano state uccise. Altre due persone avevano perso la vita nella casa accanto, e poi altre tre, e i racconti continuavano, sempre uguali.
Attorno a me c’erano solo i frammenti di ciò che era stato.
In una casa, dei piatti rotti decorati con dei fiori rosa erano sparsi tra le macerie là dove un tempo una famiglia si riuniva per mangiare. Gli scaffali blu della cucina erano anneriti dal fuoco. Fuori, i mattoni decorati erano disposti lungo il vialetto abbandonato del giardino.
Lì vicino, si scorgevano i resti polverosi di un tappeto sotto a un mucchio di mattoni rotti.
Tornando da Buhroz, pensavo ad Hassan, l'anziana vedova. Mentre mettevo in valigia le mie cose per lasciare l’Iraq, pensavo a lei. Mentre percorrevo per l’ultima volta la strada che porta all’aeroporto di Baghdad, attraverso il labirinto di muri di cemento che circondano i quartieri come prigioni, superati i checkpoint dove i cani avevano annusato le mie borse e le donne mi avevano perquisito, pensavo a lei.
Mentre scrivo queste parole penso a lei, e mi chiedo, così come me lo chiedevo la prima volta che ho percorso quella strada dell’aeroporto, a cosa siano serviti la sua sofferenza e lo spargimento di sangue di iracheni e americani.
Notizie sull’autrice
Leila Fadel ha seguito la guerra in Iraq per il gruppo Knight Ridder e poi McClatchy da giugno 2005, ed è stata responsabile dell’ufficio di Baghdad per quasi tre anni. Per il suo lavoro in Iraq ha vinto il prestigioso premio George Polk per il giornalismo internazionale. “I suoi articoli hanno fornito una raccolta completa di racconti inquietanti, di prima mano della violenza e del conflitto, giustapponendo la dolorosa condizione delle famiglie in quartieri etnicamente lacerati alla vanteria di un ribelle vendicativo, orgoglioso dei suoi exploit criminali, e la carneficina e il dolore tra le vittime dell’autobomba più letale in Iraq in una remota regione del Paese dove ben pochi reporter si sono avventurati”, è stata la motivazione della commissione del premio Polk. “ I suoi reportage hanno anche fornito delle immagini vivide dei complessi sviluppi e degli impercettibili cambiamenti nella continua lotta politica e militare in Iraq”.
Oggi corrispondente nazionale nell'ufficio di Washington del gruppo McClatchy, Leila Fadel ha lavorato al Fort Worth Star-Telegram come giornalista di cronaca nera e istruzione. Laureata alla Northeastern University, ha vissuto in Libano e Arabia Saudita, e parla arabo colloquiale.
I due partiti di governo avranno una maggioranza ridotta nel nuovo parlamento del Kurdistan
da www.osservatorioiraq.it - 8 Agosto 2009
I due principali partiti kurdi conservano la maggioranza nel nuovo Parlamento della regione autonoma del nord Iraq, ma con un margine ridimensionato.
I risultati definitivi delle elezioni parlamentari che si sono tenute il 25 luglio nel Kurdistan iracheno, annunciati ieri dalla Commissione elettorale, assegnano alla lista Kurdistani, la coalizione che vede uniti Partito Democratico del Kurdistan (KDP) e Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), 59 dei 111 seggi che compongono il parlamento regionale kurdo.
Subito dopo si è piazzata Goran, la vera novità di queste elezioni: gruppo di opposizione formato in gran parte da fuoriusciti dal PUK, la lista, il cui nome in kurdo significa “cambiamento”, ha ottenuto 25 seggi.
Al terzo posto - con 13 seggi - “Servizi e riforme”, un’altra coalizione di opposizione che raggruppa partiti islamici e laici di sinistra.
Per il resto, due seggi sono andati alla lista dell’Islamic Movement of Kurdistan, e uno ai comunisti, mentre 11 seggi erano riservati alle minoranze (cinque ciascuno a cristiani e turcomanni, e uno agli armeni).
Complessivamente, KDP e PUK, che governano insieme la regione autonoma kurda da 18 anni, vedono la loro maggioranza ridursi, rispetto ai 78 seggi che avevano in precedenza. Emerge inoltre per la prima volta una vera opposizione all’interno del parlamento regionale kurdo.
Confermato per un secondo mandato alla presidenza della regione autonoma Mas’ud Barzani, leader del KDP.
I due maggiori partiti sciiti potrebbero presentarsi divisi alle prossime elezioni
da www.osservatorioiraq.it - 7 Agosto 2009
Non è scontato che la United Iraqi Alliance (UIA), la coalizione sciita di maggioranza, resti effettivamente unita alle prossime elezioni politiche irachene.
L'attuale Primo Ministro, Nuri al Maliki, e il suo partito al Da'wa, una delle due principali forze che compongono l'alleanza, potrebbero infatti decidere di andare per conto loro – cercando altri alleati.
Sami al-Askari, un deputato considerato vicino al premier che è fra coloro che stanno conducendo le trattative, parla di disaccordi derivanti dalle intenzioni del Consiglio Supremo islamico iracheno (ISCI), l'altro principale partito sciita, che vorrebbe ricreare la coalizione che si è presentata alle elezioni del dicembre 2005, limitandola esclusivamente a forze politiche sciite.
Maliki, che ha ottenuto un risultato eccellente alle elezioni provinciali che si sono tenute in gennaio, con una piattaforma nazionalista, e una formazione denominata "Alleanza per lo Stato di diritto", avrebbe invece in mente di continuare a giocare questa carta – facendo appello a un arco di forze più ampio, e non caratterizzato a livello confessionale.
"Una delle nostre opzioni è partecipare alle prossime elezioni come Coalizione per lo Stato di diritto", dice Ascari. "Se il Primo Ministro e l'ISCI non dovessero riuscire ad arrivare a un accordo, lavoreremo per costruire una alleanza nazionale che comprenda il Primo Ministro e i suoi alleati".
Il fatto è che la rivalità fra al Da'wa e ISCI sembra difficile da comporre, soprattutto dopo il risultato delle elezioni provinciali di gennaio – che hanno visto la coalizione guidata dal premier vincere in 9 delle 14 province del Paese nelle quali si votava (a cominciare da Baghdad e Bassora) e scalzare l'ISCI da tutte le province del sud nelle quali era al governo.
"Esiste la possibilità che [alle prossime elezioni] di alleanza sciita non ce ne sia solo una. Al Da'wa e ISCI rifiutano entrambi di avere un ruolo secondario", dice Mustafa al-Ani, analista presso il Gulf Research Centre di Dubai.
Secondo Askari, l'ISCI dovrebbe ammettere di aver perso gran parte della sua influenza dopo la sonora sconfitta alle elezioni provinciali di gennaio.
"Se i leader dell'ISCI non riconosceranno il loro peso reale dopo il risultato avuto alle elezioni provinciali, non faremo alcun accordo con loro", dice.
Gli ribatte Jalal al-Din al-Saghir, uno degli esponenti di punta del partito rivale.
"Questa volta dico che qualunque cosa accada ... noi andremo avanti, annunciando l'alleanza la settimana prossima", dice durante la preghiera del Venerdì. E nella lista dei possibili alleati al Da'wa non c'è. Però, sottolinea il politico sciita, che è anche imam della moschea Buratha di Baghdad, le porte saranno aperte a chi vorrà farne parte, anche in seguito.
Maliki, nel frattempo, è stato di recente in visita nella regione autonoma kurda, portando con sé anche alcuni membri di primo piano di al Da'wa – il suo partito.
La situazione resta molto fluida, i giochi ancora tutti aperti.