In questa lettera, che non ha ancora ricevuto risposta, Napolitano chiede che si realizzino poche e simboliche realizzazioni con "fondi certi", e invita il governo a lavorare perché la ricorrenza si onori con "progetti di carattere prevalentemente culturale, pedagogico e comunicativo, diretti a rappresentare e rafforzare la nostra identità nazionale", che però allo stato attuale non sono ancora neanche in cantiere anche se Berlusconi continua a dire che la RAI si dovrà far carico delle celebrazioni, magari con delle fiction sui protagonisti dell’Unità d’Italia.
Nel Consiglio dei Ministri di fine Agosto il governo dovrebbe rispondere con i fatti a queste sollecitazioni di Napolitano.
Ma non sarà affatto facile arrivare a un’intesa con la Lega che per bocca di Calderoli ha già avvisato "Sì, serve una riflessione, ma sul gap tra Nord e Sud del Paese, che è la mancata validazione del progetto unitario".
Ormai il tema dell'Unità d'Italia è entrato nell'agone politico italiota e ci resterà a lungo.
W l'Itaglia....
Ciampi:"Nel governo qualcuno frena i lavori per il 150esimo anniversario"
di Paolo Passarini - La Stampa - 21 Agosto 2009
Neppure la balsamica frescura delle Alpi stempera il mite furore del senatore a vita Carlo Azeglio Ciampi, ormai giunto alla triste conclusione che manca la volontà politica, o, come dice lui, che «alcuni membri dell’attuale governo stanno imponendo la tendenza a non decidere niente».
Se è vero, come ritiene anche Giorgio Napolitano, che si registra un deplorevole ritardo nella preparazione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, sembra essere altrettanto vero che questo non è il frutto di una distrazione, ma di una preferenza, una preferenza che l’ex presidente della Repubblica considera sia irresponsabile, sia contraria ai sentimenti della maggioranza degli italiani.
Il fatto che adesso il governo, in risposta alla sollecitazione affidata da Napolitano alle pagine di questo giornale, assicuri che, nella prima riunione della ripresa, il 28 agosto, completerà il finanziamento di quella decina di opere pubbliche di cui si parla da anni in relazione all’anniversario, aumenta piuttosto che diminuire l’irritazione di Ciampi.
«Quelle opere sono già state deliberate da anni, alcune di esse sono addirittura già iniziate -spiega il senatore -. Furono deliberate prima che venisse costituito il Comitato dei garanti, di cui mi fu poi affidata la presidenza. E, infatti, il Comitato non ne ha mai discusso, non solo perché erano già state decise, ma perché non ne aveva la competenza. Il Comitato è tenuto a pronunciarsi in seconda battuta, come garante, appunto, su iniziative del governo di carattere culturale o celebrativo, non ad approvare o disapprovare la realizzazione di infrastrutture pubbliche. E poiché nessuna iniziativa del genere è stata finora proposta, il Comitato non ha alcuna materia su cui esprimersi. In altre parole gli manca un "ubi consistam", una ragione di esistenza». E i suoi trenta prestigiosi componenti sono come personaggi dell’ineffabile Azione Parallela di cui parla Robert Musil nell’«Uomo senza qualità».
Si tratta di un augusto «parterre de roi», integrato, rispetto al Comitato formato in era prodiana, in seguito a legittime segnalazioni del governo in carica. «Solo che nel giugno scorso - ricorda amaramente Ciampi - alla prima riunione importante del nuovo Comitato ci fu la sorpresa». Quale, senatore? «C’eravamo tutti, proprio tutti, ma non c’era alcun rappresentante del governo».
Tornando al pacchetto, in linea molto generale si può anche sostenere che uno stadio qua, un auditorium là, una pista ciclabile altrove, facciano bene all’unità del paese, ma è difficile immaginarle come asse portante di una campagna culturale su un anniversario patrio. «Sta di fatto che, quando si tratta di lanciare qualche iniziativa più propria, ecco che mancano i soldi, prima per la crisi economica mondiale, poi per il terremoto d’Abruzzo... Tutte ragioni serissime, ma io non credo sia un problema di soldi».
Domenico Marchetta, che, prelevato dalla Corte dei Conti, fu il consigliere finanziario di Ciampi al Quirinale e ora è il capo del suo ufficio al Senato, racconta che, in precedenza (governo Prodi), vennero stanziati anche dieci milioni di euro proprio per promuovere il tipo di iniziative culturali che interessano il Comitato. Ma il governo Berlusconi decise di cambiarne la destinazione: coprire il buco creato dall’eliminazione dell’Ici sulla prima casa.
Aggiunge anche che, per il tipo di iniziative che servono, il problema dei soldi è relativo. «Certo, un po’ di soldi servono - spiega - ma non si tratta di fare cose costosissime e, inoltre, questi costi sarebbero ulteriormente ridotti con un’efficace cooperazione istituzionale. Per esempio, per la giornata fondamentale, il 17 marzo 2011, si potrebbe organizzare una cerimonia al Quirinale e le prefetture potrebbero coordinare ad essa iniziative locali». E poi il ministero dell’Istruzione, quello della Difesa, le Camere, l’Accademia dei Lincei sono tutte istituzioni che possono destinare piccole parti dei loro bilanci. «Insomma, la questione dei soldi rischia di diventare una specie di pretesto per coprire un fastidio politico».
Conclude Ciampi: «E’ stata senz’altra positiva la sollecitazione del presidente Napolitano, che mi ha fatto gentilmente avere una copia della lettera inviata al governo e da cui attende una risposta. Non è una cosa curiosa, questa?». In questa situazione è evidente che la minaccia di dimissioni da parte di Ciampi resta. Anzi no, perché a sentire lui la realtà è anche peggiore: «Non c’è alcuna minaccia di dimissioni, è la semplice constatazione di uno stato di fatto. Se il Comitato non ha nulla da fare, a che serve un presidente?».
Io studente leghista. Perchè mi vergogno dell'Unità d'Italia
di Matteo Lazzaro - Il Corriere della Sera - 18 Agosto 2009
Una lettera al Corriere della Sera
Caro professor Galli della Loggia,
sono uno studente universitario di 24 anni con una certa passione per la storia. Sono un leghista, abbastanza convinto. E lo confesso: se faccio un bilancio, certamente sommario, dall’Unità nazionale ad oggi, le cose per cui vergognarmi mi sembrano maggiori rispetto a quelle di cui essere fiero.
Penso al Risorgimento, alla massoneria e al disegno di conquista dei Savoia, rifletto sul fatto che nel Mezzogiorno furono inviate truppe per decenni per sedare le rivolte e credo che queste cose abbiano più il sapore della conquista che della liberazione. E penso, ancora, al referendum falsato per l’annessione del Veneto e al trasformismo delle elite politiche post-risorgimentali. E poi il fascismo, con la sua artificiosa ricostruzione di una romanità perduta e imposta a un popolo eterogeneo e diviso per 1500 anni che della «romanità classica » conservava ben poco: la costruzione di una «religione politica» forzata al posto di una «religione civile» come invece avvenne in Francia con la Rivoluzione, che fu davvero l’evento fondante di un popolo. In Italia l’unica cosa «fondante» potrebbe essere stata la Resistenza: ma anche lì, a guardare bene, c’era una Linea gotica a dividere chi la guerra civile l’aveva in casa da chi era già in qualche maniera libero.
E poi la Prima Repubblica, che si salva in dignità solo per pochi decenni, i primi, e poi sprofonda nei buio degli anni di piombo con terrorismo di sinistra e stragi di destra (o di Stato?), nel clientelismo politico più sfrenato, nelle ruberie, nelle grandi abbuffate che ci hanno regalato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.
Quanto alla Seconda Repubblica, l’abbiamo sotto agli occhi: la tendenza dei partiti a trasformarsi in «pigliatutto» multiformi e dai programmi elettorali quasi identici, con le uniche eccezioni di Di Pietro e della Lega. Il primo però è destinato a sparire con Berlusconi, che è la ragione del suo successo: quando svanirà la causa, svanirà anche l’effetto. Anche la Lega dopo Bossi potrebbe sparire, ma almeno a sorreggerla ci sono un disegno, un’idea, per quanto contestabili.
Guardo allo Stato poi e alla mia vita di tutti i giorni e mi viene la depressione. Penso a mia mamma che lavora da quando aveva 14 anni ed è riuscita da sola a crearsi un’attività commerciale rispettabile e la vedo impazzire per arrivare a fine mese perché i governi se ne fregano della piccola-media impresa e preferiscono continuare a buttar via soldi nella grande industria. E poi magari arriva anche qual che genio dell’ultima ora a dire che i commercianti son tutti evasori.
Vedo i miei dissanguarsi per pagare tutto correttamente e poi mi ritrovo infrastrutture e servizi pubblici pietosi. Vedo che viene negata la pensione di invalidità a mia zia di 70 anni che ha avuto 25 operazioni e non cammina quasi più solo perché ha una casetta intestata. E poi leggo che nel Mezzogiorno le pensioni di invalidità sono il 50% in più che al Nord. Come faccio a sentire vicino, ad amare, a far mio uno Stato che mi tratta come una mucca da mungere e in cambio mi dice di tacere?
Non ho paura degli immigrati, né sono ostile a chi ha la pelle differente dalla mia. Mi preoccupo però di certe culture. Per esempio mi spaventano i disegni di organizzazioni come i Fratelli musulmani, ostili verso l’Occidente, e mi fan paura le loro emanazioni europee. Non voglio barricarmi nel mio «piccolo mondo antico», ma ho realismo a sufficienza per pensare di non poter accogliere il mondo intero in Europa. La gente che entra va integrata, ma io credo che la possibilità di integrazione sia inversamente proporzionale al numero delle persone che entrano.
Eppure, se dico queste cose, mi danno del «razzista». Non mi creano problemi le altre etnie, mi crea problemi e fastidio invece chi le deve a tutti i costi mitizzare, mi irrita oltremodo un multi culturalismo forzato e falsato. Mi spaventano l’esterofilia e la xenomania, secondo le quali tutto ciò che viene da fuori deve essere considerato acriticamente come positivo, «senza se e senza ma». In pratica ho paura che l’Italia di domani di italia no non avrà più nulla e che il timore qua si ossessivo di non offendere nessuno e di considerare ogni cultura sullo stesso piano, cancelli quel poco di memoria storica che ancora abbiamo. Mi crea profondo terrore la prospettiva che la nostra civiltà possa essere spazzata via come accadde ai Romani: mi sembra quasi di essere alle porte di un nuovo Medioevo con tutte le incognite che questo può celare. E ho paura, paura vera. Sono razzista davvero oppure ho qualche ragione?
La storia è positiva. Ma proteste e paura oggi sono fondate
di Ernesto Galli della Loggia - Il Corriere della Sera - 19 Agosto 2009
No, non è la lettera di un razzista la lettera di questo studente — un bravo studente, si può immaginare — che il Corriere ha deciso di pubblicare per contribuire a far conoscere al Paese da quali sentimenti e di quali ragioni si fa forte l’opinione pubblica leghista così diffusa al Nord. Ha quasi sempre delle ragioni, infatti, anche chi non ha ragione: pure quando tali ragioni, com’è questo il caso, sono costruite su un ordito di vere e proprie manipolazioni storiche.
Quanto scrive Matteo Lazzaro dimostra innanzi tutto, infatti, il rapporto strettissimo che inevitabilmente esiste tra storia e politica; e di conseguenza, ahimè, il disastro educativo prodotto negli ultimi decenni nelle nostre scuole da un lato da una sfilza di manuali di storia redatti all’insegna della più superficiale volontà di demistificazione, e dall’altro da una massa d’insegnanti troppo pronti a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Gli uni e gli altri presumibilmente convinti di contribuire in questo modo alle fortune del progressismo «democratico» anziché, come invece è accaduto, a quelle di un autentico nichilismo storiografico di tutt’altro segno.
Ecco infatti il risultato che si è fissato nella mente di molti italiani: una storia del nostro Paese inverosimile e grottesca, impregnata di negatività, violenza, imbrogli e sopraffazione. Una storia di cui «vergognarsi», come pensa e scrive per l’appunto Lazzaro, e che quindi può solo essere rifiutata in blocco: dominata dall’orco massone e da quello sabaudo, dalla strega della partitocrazia, dal belzebù del «clientelismo», sfociata in «uno dei debiti pubblici più alti del mondo». Nessuno sembra aver mai spiegato a questi nostri più o meno giovani concittadini che il Risorgimento volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere liberamente, di fare un partito, un comizio e altre cosucce simili; o che ad esempio, nel tanto rimpianto Lombardo-Veneto di austriaca felice memoria, esisteva una cosa come il processo «statario», in base al quale si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato.
Nessuno sembra avergli mai raccontato come 150 anni di storia italiana abbiano anche visto, oltre alle ben note turpitudini, un intero popolo smettere di morire di fame, non abitare più in tuguri, non morire più come mosche e da miserabile che era cominciare a godere di uno dei più alti redditi del pianeta. Così come nessuna scuola sembra aver mai illustrato ai tanti Matteo Lazzaro quello che in 150 anni gli italiani hanno fatto dipingendo, progettando edifici e città, girando film, scrivendo libri: non conta nulla tutto ciò? E si troverà mai qualcuno infine, mi domando, capace di suggerirgli che la democrazia non piove dal cielo, che tra «uno dei debiti pubblici più alti del mondo» e l’ospedale gratuito sotto casa o l’Università dalle tasse pressoché inesistenti qualche rapporto forse esiste? E che la storia, il potere, la società, sono faccende maledettamente complicate che non sopportano il moralismo del tutto bianco e tutto nero, del mondo diviso in buoni e cattivi?
È quando viene all’oggi, invece, che il nostro lettore ha ragione da vendere, e alle sue ragioni non c’è proprio nulla da aggiungere. C’è semmai da capirle e interpretarle. Il che tira in ballo la responsabilità per un verso della classe politico-intellettuale di questo Paese, per l’altro quella dei nostri concittadini del Mezzogiorno. Per ciò che riguarda la prima è necessario e urgente che quello strato di colti, di giornalisti di rango, di scrittori, di attori della scena pubblica, i quali tutti insieme contribuiscono alla costruzione del «discorso » ufficiale del Paese, la smettano di assumere un costante atteggiamento di sufficienza, se non di disprezzo, verso ogni pulsione, paura o protesta che attraversa le viscere della società settentrionale (ma non solo! sempre più non solo!) tacciandola subito come «razzista», «securitaria », «egoista», «eversiva» o che altro.
Pericoli di questo tipo ci saranno pure, ma come questa lettera spiega benissimo si tratta di pulsioni e paure niente affatto pretestuose ma che hanno un senso vero, spesso un profondo buon senso, e dunque chiedono risposte altrettanto vere, sia culturali che politiche: non anatemi che lasciano il tempo che trovano.
E infine i nostri concittadini del Mezzogiorno: questi sbaglierebbero davvero se non avvertissero nelle parole del lettore leghista l’eco neppure troppo nascosta di una richiesta ultimativa che in realtà ormai parte non solo da tutto il Nord ma anche da tante altre parti del Paese. È la richiesta che la società meridionale la smetta di prendere a pretesto il proprio disagio economico per scostarsi in ogni ambito — dalla legalità, alle prestazioni scolastiche, a quelle sanitarie, all’urbanistica, alle pensioni — dagli standard di un paese civile, tra l’altro con costi sempre crescenti che vengono pagati dal resto della nazione. Il resto dell’Italia non è più disposta a tollerarlo, e si aspetta che alla buon’ora anche i meridionali facciano lo stesso.
La Lega, il Sud e la questione morale
di Domenico de Simone - http://nuovaeconomia.blogosfere.it - 21 Agosto 2009
Fa bene Galli Della Loggia a ricordare dalle colonne del Corriere, il rapporto strettissimo che inevitabilmente esiste tra storia e politica (*). L'occasione è il dibattito aperto da qualche settimana su cultura e politica e la risposta alla lettera di un giovane leghista che la redazione del Corriere ha deciso di pubblicare. Questa lettera è ampiamente condivisibile : non ci sono molte ragioni per essere orgogliosi di essere italiani e il ragazzo le espone con pacata chiarezza sostenendo quel federalismo che, se fosse stato fatto centocinquant'anni fa, ci avrebbe risparmiato tanti problemi.
Mancano però alcuni elementi essenziali a proposito di storia e politica, che lo studente leghista non conosce perché nessuno glieli ha mai raccontati. A scuola, infatti, si parla di altro.
Né Galli Della Loggia, contrariamente alle sue abitudini, fa chiarezza su queste omissioni, anzi rivendica orgogliosamente il ruolo propulsore verso la libertà e il progresso che ha avuto in Italia il Risorgimento, pur con tutti i suoi errori e forzature.
Quella che vedete in fotografia si chiamava Michelina Di Cesare e fu una partigiana contro l'invasore piemontese. Dopo aver condotto insieme al suo uomo, Francesco Guerra, ex soldato dell'esercito Napoletano, innumerevoli azioni di guerriglia, nel 1868 fu uccisa insieme ai suoi compagni, in uno scontro a fuoco contro il 27° Fanteria sul Monte Morrone. Il suo corpo nudo e martoriato fu esposto nelle piazze dei paesi della zona, a monito della ferocia della repressione sabauda.
Nessuna città italiana ha dedicato una piazza o una via o una targa alla memoria di una donna che ha combattuto per la sua terra. Già perché Michelina Di Cesare era una brigantessa, e non una combattente. Come le altre decine di migliaia di soldati, contadini, operai, lazzari e quant'altro delusi dalle promesse riforme mancate o fedeli al loro Re ed alla loro patria che nei trent'anni successivi all'Unità d'Italia hanno combattuto e sono morti per la loro causa.
Non era una causa giusta, anzi non era nemmeno una causa. Su di loro l'oblio e l'infamia dell'appellativo di briganti, di bestie, di ladri e di assassini. E certe espressioni razziste ancora oggi di gran voga derivano forse dai giudizi sprezzanti che il Generale Cialdini esprimeva tra l'altro in una lettera a Cavour: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi caproni, sono latte e miele». Per lui i meridionali erano poco meno che umani. Gli spagnoli hanno fatto peggio, hanno impiegato 150 anni per considerare umani gli indios.
Nemmeno i loro parenti potevano ricordarli: essere parente di un brigante significava esserne complice. Bisognava vergognarsi della loro stessa esistenza. Per decenni i meridionali sono stati tutti briganti e ancora oggi è così: dal sud vengono corruzione, latrocinio, illegalità diffusa, insomma la maggior parte dei guai dell'Italia già Sabauda ed ora repubblicana.
Bisogna vergognarsi di essere meridionali, soprattutto in certi luoghi del nord, dove il razzismo nei confronti delle genti del sud, grossolanamente accomunati tutti nell'appellativo dispregiativo di meridionali, è più diffuso e nasce proprio da quel periodo. Non è cambiato molto da allora: ogni tanto qualche bello spirito pensa che per risolvere la questione meridionale la cosa migliroe da fare è spedire l'esercito a mettere un po' di ordine. Cambiano i generali e i soldati, ma la sostanza cambia poco.
Ha ragione Gallli della Lggia a ricordare che grazie all'Unità d'Italia in Veneto fu abolito "il processo «statario», in base al quale si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato". Dimentica però che in tutto il sud fu applicata la Legge Pica, che era peggio del processo statario e che grazie ad essa decine di migliaia di persone fuono fucilate senza l'ombra di un processo, suscitando l'indignazione di mezza Europa.
Quindi niente vie e niente piazze per Michelina, né per Guerra né per Tulipano, né per Crocco e gli altri patrioti, ma l'oblio, il disprezzo, l'infamia. E la menzogna.
Perché i veri ladri sono stati quelli che hanno rapinato le risorse del sud gettandolo nella miseria e nella disperazione, da quelle finanziarie che erano venti volte quelle del Piemonte, a quelle industriali, agricole, umane. Perché gli assassini erano i Cialdini, i Cadorna, i Negri che hanno ordinato e perpetrato massacri vergognosi e che tuttora vengono onorati e ricordati nelle loro città come uomini d'onore che hanno fatto l'Italia.
Perché i corruttori erano nelle file di quei massoni piemontesi che hanno corrotto l'intero stato maggiore dell'esercito borbonico per non farlo combattere contro Garibaldi. Che era uno che credeva all'Unità d'Italia e non allo stupro ed al massacro di intere nazioni e che quando provò ad opporsi fu preso a fucilate dai bersaglieri sull'Aspromonte.
Perché in tutto il mezzogiorno furono premiati dai piemontesi l'ipocrisia, il conformismo, il tradimento, la corruzione e la vigliaccheria.
E su queste basi etiche è stata fondata l'Unità d'Italia nel sud. E cosa poteva venirne fuori se non una società dominata dal formalismo, dall'ipocrisia, dalla falsità, dalla vigliaccheria, dalla corruzione? Nella quale le persone per bene vengono considerate stupide perché i comportamenti delinquenziali sono premiati? Nella quale il coraggio, la determinazione, l'amore per la patria, vengono esecrati e disprezzati?
E allora se davvero vogliamo fare l'Unità d'Italia, occorre ripartire da qui, dal restituire dignità ed onore a chi si è battuto per la patria ed esecrazione a chi ha tradito, si è fatto corrompere, ha corrotto, ha rubato, ha ucciso senza giustificazione alcuna.
Il problema nel Mezzogiorno non è economico: le risorse della gente del sud sono sovrabbondanti, ci sono sempre state e sono maggiori che nel nord. Il problema è morale, e la questione morale nel mezzogiorno parte da queste cose elementari.
Per dire a tutti che il vento è cambiato, occorre partire rimettendo in piedi il rapporto tra etica e politica, occorre riprendere la memoria di quei fatti e di quelle persone. Cominciando ad esempio a smetterla di definirli briganti. L'occasione è in arrivo, ci sono i festeggiamenti per i 150 anni dall'unità d'Italia. La dignità, è questo il valore che deve essere restituito alle genti del Sud, la dignità e la memoria.
Perché si può ingannare qualcuno per sempre, e tutti per un po' di tempo. Ma non si può ingannare tutti per sempre.