martedì 18 agosto 2009

La ripresa della crisi...

Mentre ieri le Borse crollavano per l'ennesima volta - in particolare quelle asiatiche - il Centro Studi di Confcommercio stimava che il Pil dell'Italia crollerà a -4,8% nel 2009 e crescerà solo di un misero 0,6% nel 2010 e di un 0,8% nel 2011.

Inoltre per Confcommercio sono scesi anche i consumi delle famiglie italiane tra il 2002 e il 2008, tranne che per i telefonini. D'altronde si sa che l'Italia è il Paese con più telefonini procapite al mondo...

Qui di seguito un aggiornamento sulla crisi economica in pieno corso e su alcuni accorgimenti che sarebbe il caso di adottare al più presto per venirne fuori.


La corsa delle Borse è finita. Ora chi salverà i governi dai debiti?
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 18 Agosto 2009

Il rally è finito. Lo avevamo detto e non solo perché dopo tante sedute al rialzo ci si concede di rifiatare con le prese di beneficio. È finito perché è finito l'effetto del mega-stimolo monetario messo in atto dai governi per cercare di rivitalizzare i mercati e l'economia. Due trilioni di dollari sembravano tutto il denaro del mondo ma non lo erano.

Ieri mattina il tonfo dello Shanghai Composite al -5,8%, peggior risultato dal 18 novembre scorso, aveva suonato la sveglia su quanto stava per accadere. Nonostante gli oracoli di Francoforte avessero giorni fa annunciato trionfalmente che Germania e Francia era tornate a crescere, sia il Cac40 che il Dax perdevano terreno, come Londra e Milano. A trascinare in basso, tanto per cambiare, titoli bancari (meno male che erano sani, al primo giorno di ritracciamento sono crollati) e commodities, indicatore quest'ultimo che la ripresa è lunghi dall'essere dietro la porta.

Quando poi la Fed, dopo l'avvio in nero di Wall Street, annuncia il prolungamento del programma statale di protezione degli assets, Talf, per altri sei mesi, ecco che come dicevo la scorsa settimana la bomba del debito comincia a innescarsi. Lo dicevamo venerdì: quando i governi avranno salvato il salvabile, chi salverà i governi? Ovvero, per quanto si stampi moneta e la si inietti artificialmente nel sistema - “il Tamiflu della crisi” viene definito nella City - quanto potrà durare questa politica? Certo, ha garantito un rally di ripresa ma non ha fatto nulla per far ripartire i fondamentali dell'economia, nonostante la Bce e gli annunci che il Giappone è ormai fuori dalla recessione.

David Karlsboel, capo analista alla Saxo Bank, ha parlato chiaro ieri: «Non ci saranno scossoni violenti a novembre come temevamo ma abbiamo detto agli investitori di prepararsi a 6-12 mesi di seria crisi sui mercati. La volatilità è destinata a crescere parecchio e per chi si aspettava un mercato del Toro potrebbero esserci brutte sorprese».

E il fatto che la Cina sia stato il mercato che ha performato peggio ieri in tutto il mondo manda un altro duplice segnale: la bolla del real estate creata dai prestiti facili voluti dal governo è ormai pronta a esplodere e questo, di converso, elimina molte delle speranze di chi credeva che il motore asiatico fosse quello in cui riporre fiducia per la ripresa globale. Qualcuno nelle scorse settimane mi invitava a guardare ai positivi segnali marco che arrivavano dall'America: lo invito ora a guardare al segnale che arriva dalla Fed.

Se si blocca la Cina o - almeno - questa cambia politica strategica sulle riserve e sulle valute, il rischio di un'asta di bond Usa a vuoto potrebbe non essere così peregrina: e tutti sanno che senza l'enorme mercato del debito Usa la Cina non sa dove scaricare riserve ma se queste si contraggono e si taglia, non ci saranno più diluvi di trilioni per garantire il debito Usa. Ieri Pechino ha reso noto che comprerà altri due miliardi di dollari di mutui Usa garantiti dal programma statale (guarda caso, proprio poco prima che la Fed svelasse la novità) ma ormai siamo al rattoppo quotidiano di una situazione che sta andando fuori controllo nuovamente.

E infatti, nonostante le notizie che arrivavano dal Giappone, la sterlina è crollata a un minimo di quattro settimane per le brutte novità date dalla Fed: l'America è messa male e i piani messi finora in campo, fossero quello dell'amministrazione Bush o quello attuale reiterato ieri, non stanno offrendo risposte. In compenso il numero di default su carta di credito di Bank of America e Capital One Financial ha toccato il record massimo a luglio, un 10% netto di aumento rispetto a giugno. Si compra a credito ma non si hanno soldi per ripagare: una trappola già vista da quelle parti ai tempi dei subprime.

Il tempo però passa e i rischi aumentano. Una brutta spirale a cui si sta aggiungendo quella deflattiva globale, visto che i timori iper-inflattivi di molti sono risultati errati e dalle economie reali arrivano segnali opposti. In compenso, come annunciato venerdì, l'ok di Ubs a rivelare al governo Usa i nominativi dei cittadini americani con conti segreti, ha portato un immediato risultato a Fiat. La quale, infatti, sbarca nel mercato cinese e avvia con la Chrysler la produzione della 500 a Toluca, in Messico, come annunciava ieri il Wall Street Journal.

Secondo il quotidiano finanziario, la Fiat dopo due tentativi falliti è finalmente riuscita a costituire una joint venture per operare in Cina, uno dei pochi mercati in grande espansione anche in questo momento di profonda crisi economica. Ron Bloom, alla guida della task force, ha sottolineato, secondo quanto riportava sempre il Wall Street Journal, che non è nelle intenzioni del governo entrare nei dettagli della gestione di ogni compagnia: «Se la decisione riguarda un nuovo piano o una nuova macchina, sarà la nuova Chrysler, e non il governo degli Stati Uniti, a prenderla».

Crediamoci. E infatti, guarda caso, ostacoli potrebbero arrivare dal sindacato statunitense, poiché una fonte ufficiale del sindacati auto (Uaw), che preferiva rimanere anonima, ha dichiarato che il sindacato non è stato informato del nuovo piano di produzione della 500. Questo perché le decisioni, in casa Chrysler, non sono prese da molto in alto...


Tutti a caccia di segnali di ripresa sull'ottovolante delle previsioni
di Massimo Gaggi - Il Corriere della Sera - 18 Agosto 2009

I dati dell'economia reale i contrasto con quelli statistici

Dopo due settimane di dati positivi (o presentati come positivi) e di messaggi fiduciosi dei governi e delle banche centrali, il cielo dei mercati torna a farsi nuvoloso mentre gli americani, frastornati dal gioco di specchi delle previsioni, intravedono il fantasma di una ripresa che si manifesta nella sua dimensione statistica, ma non incide sull’economia reale. Chiusa la stagione del panico e del timore di un meltdown del sistema bancario, arrestato— negli Usa e in gran parte d’Europa— il crollo del Pil che aveva fatto temere una depressione come quella degli anni ’30, possiamo sperare in una vera ripresa o dovremo accontentarci di una stagnazione che, nei fatti, continuerà a distruggere posti di lavoro?

Con gli economisti divisi sulla risposta, l’unica certezza sembra essere che da qui a fine anno vivremo su una specie di «ottovolante» delle previsioni: i dati dell’economia reale americana continueranno a dare pochi appigli all’ottimismo (disoccupazione in ulteriore crescita, aumento del numero delle case abbandonate da proprietari non più in grado di pagare le rate del mutuo, contrazione dei consumi) mentre i numeri-chiave del Pil nei prossimi due trimestri non solo saranno positivi, ma potranno addirittura spingere qualcuno a gridare al miracolo.

È lo scenario descritto da esperti come Abby Cohen, celebre analista di Goldman Sachs secondo la quale, nonostante le fluttuazioni, si può ormai affermare che Wall Street è uscita dal tunnel e ha davanti a sé un periodo di mercato «toro». Una previsione che si basa, oltre che sull’incremento dei profitti registrato da moltissime aziende, sulla previsione di un forte impatto psicologico positivo dei dati della produzione e del reddito nella seconda parte del 2009.

Dopo che anche nel periodo aprile-giugno il calo del Pil si è ridotto all’1% rispetto al meno 6,4% di gennaio-marzo, l’aspettativa è che nel trimestre attuale e in quello di fine anno le cose migliorino ulteriormente, anche perché le imprese, che con la recessione hanno diradato gli acquisti, ora si ritrovano coi magazzini semivuoti e, quindi, devono ricostituire le scorte. Nessuno si aspetta una vera impennata della produzione: la crescita sarà anemica, gli impianti resteranno largamente sottoutilizzati, con i rischi di deflazione che ciò comporta.

Eppure chi vuole pompare a tutti i costi fiducia tra i consumatori, o chi ha un disperato bisogno di riconquistare consensi politici, sarà tentato di gridare addirittura al miracolo: anche una crescita anemica, infatti, una volta confrontata coi dati disastrosi della seconda metà del 2008 (nel terzo trimestre il Pil calò del 2,7% per poi precipitare a -5,4% nel quarto, dopo la caduta di Lehman Brothers e la «gelata» del credito) si tradurrà in una forte impennata. Sentiremo parlare di numeri da «boom».

Insomma, un mondo spaccato a metà dalla realtà economica, ma anche dalla psicologia e dalle spinte contrapposte che animano i principali attori in campo. Gli operatori se ne sono accorti e hanno reagito. Non tanto col calo (tutto sommato non drammatico) delle quotazioni che ieri si è diffuso dalla Cina all’Europa e poi agli Usa, quanto con l’impennata degli indici della volatilità dei mercati.

I governi hanno ovviamente interesse a presentare i dati in rosa, a diffondere una certa dose di ottimismo, perché hanno elezioni all’orizzonte (come la Merkel in Germania) o perché devono cercare di arginare una perdita di carisma e consenso politico che rischia di bloccare il percorso di riforme già di per sé impopolari (è il caso di Obama). Anche la Fed americana e la Banca centrale europea usano (con maggiore discrezione) la lente dell’ottimismo perché senza il carburante della fiducia i mercati non girano. Ma gli economisti, che si sono ripresi a fatica dallo shock di una crisi che li ha colti di sorpresa, ora non sono affatto inclini al facile ottimismo. Vedono i miglioramenti dei risultati delle imprese, certo.

Nelle fasi di rallentamento dell’economia, in genere, la produttività peggiora: i costi rimangono alti mentre il fatturato si contrae. Negli Usa, invece, la produttività nel secondo trimestre 2009 è addirittura cresciuta a un tasso annuo del 6,4% (il maggior incremento dal 2002) perché le imprese hanno reagito con grande rapidità alla crisi tagliando drasticamente gli organici e la produzione.

L’altra faccia di questo dimostrazione della reattività e del buono stato di salute delle imprese è, però, una crescita della disoccupazione che sta vanificando gli sforzi di sostenere la domanda interna e di tamponare la crisi immobiliare: più gente senza lavoro significa anche meno consumi e più gente costretta ad abbandonare la casa di proprietà.

Con la domanda delle famiglie che non può crescere e il governo che più di tanto non può fare per sostenere l’economia, visto che il deficit ha già raggiunto dimensioni «stellari», servirebbe almeno un mercato del credito più dinamico, ma le banche, appesantite da una crisi immobiliare che continua ad avvitarsi, arrancano: i grandi gruppi sono stati messi al sicuro dagli interventi di salvataggio del Tesoro e della Fed, ma il tessuto delle banche locali è sempre più sfilacciato: se nel 2008 sono fallite 28 banche, quest’anno siamo già a quota ottanta (la più grossa, la Colonial dell’Alabama, è caduta quattro giorni fa), e per altri 150 istituti è allarme rosso.


Evitando il peggio

di Paul Krugman - www.nytimes.com - 9 Agosto 2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Carlo Pappalardo

Sembra proprio che, dopotutto, non avremo una seconda Grande Depressione. Che cosa ci ha salvato? In sintesi, la risposta è il Grande Governo.

Per essere chiari: la situazione economica resta catastrofica, in realtà peggiore di quanto si sarebbe potuto pensare solo poco tempo fa. Da quando è cominciata la recessione il paese ha perso 6,7 milioni di posti di lavoro, e se teniamo conto del fatto che una massa crescente di popolazione in età lavorativa ha bisogno di un'occupazione sfioriamo adesso i 9 milioni di posti mancanti.

Non c'è stata inversione di tendenza nel mercato del lavoro: la leggera contrazione del tasso di disoccupazione rilevata il mese scorso è probabilmente l'effetto di una fluttuazione statistica. Non abbiamo ancora raggiunto il punto in cui la situazione comincia realmente a migliorare; per adesso possiamo rallegrarci solo del fatto che le cose peggiorano meno rapidamente.

Nonostante tutto, l'ultima infornata di rapporti economici suggerisce che l'economia si è allontanata dall'orlo del precipizio.

Solo qualche mese orsono, la possibilità di finire nel baratro sembrava quasi inevitabile. Il panico finanziario di fine 2008 era per molti versi paragonabile a quello bancario dei primi anni '30, e i principali indicatori economici (commercio mondiale, produzione industriale globale, quotazioni azionarie) stavano crollando a una velocità pari a quella del 1929-1930, se non maggiore.

Ma negli anni '30 le linee di tendenza continuarono a precipitare, mentre adesso sembra che, dopo un anno tremendo, la caduta stia finendo.

Cosa ci ha salvato da una replica della Grande Depressione? Con quasi assoluta certezza la ragione va cercata nel diverso ruolo del governo.

L'aspetto probabilmente più importante del lavoro svolto dall'amministrazione in questa crisi non è quello che è stato fatto, ma quello che non è stato fatto; a differenza del settore privato, il governo federale non ha ridotto drasticamente la spesa quando le entrate si sono contratte (quella delle amministrazioni locali e statali è una storia differente). Le entrate fiscali si stanno riducendo, ma la previdenza sociale onora ancora i suoi assegni, Medicare continua a rimborsare le fatture ospedaliere, gl'impiegati federali - dai giudici alle guardie forestali e ai militari - continuano ad essere pagati.

E tutto ciò ha sostenuto l'economia nel momento del bisogno, a differenza di quanto accadde nel 1930, quando la spesa federale rappresentava una percentuale molto più limitata del PIL. In altre parole, i deficit di bilancio, pessima cosa in tempi normali, sono ora un buon segno.

Oltre a svolgere una funzione stabilizzatrice "automatica", il governo si è mosso per ridar fiato al settore finanziario. Potrete dire che il salvataggio delle società finanziarie avrebbe dovuto essere gestito con procedure più efficaci, o che i contribuenti hanno pagato troppo e hanno ricevuto troppo poco: si può essere scontenti, o addirittura furiosi, per il modo in cui sono state condotte le operazioni, senza al tempo stesso negare che in assenza d'interventi la situazione sarebbe stata di gran lunga peggiore.

Il punto è che questa volta, a differenza degli anni '30, il governo non ha assunto una posizione di attesa mentre buona parte del sistema bancario collassava. E questa è una ragione in più per capire come mai non stiamo vivendo una seconda Grande Depressione.

Per finire, ma l'argomento non è marginale, sono stati i deliberati sforzi del governo a rimettere in moto l'economia. Sin dall'inizio avevo concluso che la portata dell'American Recovery and Reinvestment Act, il piano di stimolo messo a punto da Obama, era troppo limitata; stime ragionevoli suggeriscono però che, senza questo piano, un altro milione di persone (e il numero è senza dubbio destinato ad aumentare) sarebbe oggi senza lavoro e che lo stimolo ha svolto un ruolo importante nel fermare la caduta libera dell'economia.

Tutto considerato, il governo ha svolto un ruolo cruciale nello stabilizzare la crisi economica. Ronald Reagan aveva torto: qualche volta il problema è il settore privato, e il governo è la soluzione.

E non siete contenti che proprio adesso il governo sia in mano a persone che non lo odiano?

Non sappiamo quali sarebbero state le politiche economiche dell'amministrazione McCain-Palin, ma sappiamo comunque quello che ha detto l'opposizione repubblicana; la loro posizione si riduce a chiedere al governo di smetterla d'interferire con una possibile depressione.

Non sto parlando solamente di opposizione a qualsiasi forma di stimolo; i leader repubblicani vogliono anche sbarazzarsi delle procedure di stabilizzazione automatica. A marzo John Boehner, il capogruppo della minoranza dalla Camera, ha dichiarato che siccome le famiglie stavano soffrendo "era tempo che il governo stringesse la cinghia e lo facesse capire agli americani". Per fortuna il suo punto di vista è stato ignorato.

Sono ancora estremamente preoccupato per la situazione economica. Sussistono, temo, forti probabilità che la disoccupazione resti per molto tempo a livelli elevati, ma il peggio sembra essere passato: la catastrofe totale non appare più inevitabile.

E il Grande Governo, guidato da gente che ne capisce le virtù, è la ragione principale della nuova situazione.


L'economia e il cambiamento climatico
di Fidel Castro Ruiz - Cubadebate - 17 Agosto 2009

Una giusta causa da difendere e la speranza di andare avanti

Durante le ultime settimane il presidente degli Stati Uniti si è impegnato a dimostrare che la crisi sta cedendo come frutto dei suoi sforzi per affrontare il grave problema che gli Usa e il mondo hanno ereditato dal suo predecessore.

Quasi tutti gli economisti fanno riferimento alla crisi economica che iniziò nell'ottobre del 1929. La precedente c'era stata alla fine del XIX secolo. La tendenza abbastanza generalizzata nei politici nordamericani è quella di credere che una volta che le banche dispongono di dollari sufficienti per ingrassare la macchina dell'apparato produttivo, tutto marcerà verso un idilliaco mondo mai sognato.

Dalla fine della prima guerra mondiale il dollaro, sulla base del gold standard, ha sostituito la sterlina britannica, date le immense somme di oro che il Regno Unito spese nel conflitto. La grande crisi economica negli Stati Uniti ci fu appena 12 anni dopo quella guerra.

Franklin D. Roosevelt, del Partito Democratico, che vinse in gran parte grazie alla crisi, come Obama con la crisi attuale. Seguendo la teoria di Keynes, immettendo denaro in circolazione, ha costruito opere pubbliche come strade, dighe e altre di indiscutibile beneficio, il che aumentò la spesa, la domanda dei prodotti, l'occupazione e Pil per anni, però non ottenne fondi stampando banconote. Li ottenne con le tasse e con parte del denaro depositato nelle banche. Vendendo obbligazioni degli Stati Uniti con interessi garantiti che li resero attraenti per gli acquirenti.

L'oro, il cui prezzo nel 1929 era a 20 dollari l'oncia, Roosevelt lo portò a 35 dollari come garanzia interna delle banconote degli Stati Uniti. Sulla base di la base di questa garanzia in oro fisico, ci fu l'accordo di Bretton Woods nel luglio 1944, che dette al poderoso Paese il privilegio di stampare moneta convertibile quando il resto del mondo era rovinato. Gli Stati Uniti possedevano più dell'80% dell'oro del mondo.

Non è necessario ricordare quel che accadde dopo, dalle bombe atomiche lanciate sopra Hiroshima e Nagasaki - si sono appena compiuti i 64 anni da quel genocidio - fino al colpo di Stato in Honduras e le 7 base si militari che il governo degli Stati Uniti si propone di installare in Colombia.

La realtà è che nel 1971, sotto l'amministrazione di Nixon, il gold standard fu soppresso e la stampa illimitata di dollari si convertì nelle più grande truffa dell'umanità. In virtù del privilegio di Bretton Woods, gli Stati Uniti, sopprimendo unilateralmente la convertibilità, pagano con la carta i beni ed i servizi che acquistano in tutto il mondo.

E' vero che in cambio di dollari offrono anche beni e servizi, però è anche vero che dal momento dell'abolix zione del gold standard, la banconota di questo paese, che si contabilizzava a 35 dollari l'oncia, ha perso di quasi 30 volte il suo valore e 48 volte quello che aveva nel 1929. Il resto del mondo ha soffero le perdite, le sue risorse naturali e il si uo denaro hanno finanziato il riarmo e sostenuto in gran parte le guerre dell'impero. Basta segnalare che la quantità di obbligazioni somministrate ad altri Paesi, secondo calcoli al ribasso, supera la cifra de 3 milioni di milioni di dollari e il debito pubblico, che continua a crescere, sorpassa la cifra di 11 milioni di milioni.

L'impero e i suoi alleati capitalisti, mentre sono in competizione tra loro, hanno fatto credere che i metodi anticrisi costituiscono la formula salvifica. Però Europa, Russia, Giappone, Corea, Cina ed India non raccolgono fondi vendendo buoni del tesoro né stampando banconote, ma applicano altre formule per difendere le loro monete ed i loro mercati, a volte con grande austerità da parte delle loro popolazioni. La immensa maggioranza dei Paesi in via di sviluppo di Asia, Africa e America Latina è quella che paga i piatti rotti, fornendo risorse naturali non rinnovabili, sudore e vite.

Il Tlcan (trattato di libero scambio del Nordamerica, ndr) è l'esempio più chiaro di quello che può succedere con un Paese in via di sviluppo nelle fauci del lupo: nell'ultima riunione il Messico non ha potuto ottenere né soluzioni per gli immigranti negli Stati Uniti, né permessi per viaggiare senza visto in Canada.

Comunque, in piena crisi prende vigore la più grande zona di libero scambio nel mondo: l'Organizzazione mondiale del commercio, che è cresciuta, sulle note del neoliberismo trionfante, nel pieno apogeo della finanza mondiale e dei sogni idilliaci

Dall'altra parte, la Bbc World ha detto l'11 agosto che mille funzionari delle Nazioni Unite riuniti a Bonn, Germania, hanno dichiarato che cercano la strada per un accordo sul cambiamento climatico a dicembre di quest'anno, però il tempo si sta esaurendo.

Yvo de Boer, il funzionario di maggior rango della Nazioni Unite per il cambiamento climatico, ha detto che mancavano 119 giorni per il summit e che ci sono «Un'enorme quantità di interessi divergenti, scarso tempo di discussione, un documento complicato sul tavolo (200 pagine) e problemi di finanziamento. Le nazioni in via di sviluppo insistono che la maggior parte dei gas che producono l'effetto serra proviene dal mondo industrializzato».

Il mondo in via di sviluppo pone la necessità di aiuti finanziari per far fronte agli effetti del clima.

Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato che «Se non si adottano misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici, possono portare alla violenza ed a disordini di massa in tutto il pianeta. Il cambiamento climático intensificherà siccità, inondazioni ed altri disastri naturali. La scarsità d'acqua colpirà centinaia di milioni di persone. La malnutrizione annienterà gran parte dei Paesi in via di sviluppo».

In un articolo del New York Times dello scorso 9 agosto si spiegava che «Gli analisti vedono nel cambiamento climatico una minaccia per la sicurezza nazionale. Queste crisi - continua l'articolo - provocate dal clima potrebbero rovesciare governi, stimolare movimenti terroristi o destabilizzare intere regioni, dicono gli analisti del Pentagono e le agenzie di intelligence che per la prima volta stanno studiando le implicazioni del cambiamento climatico sulla sicurezza nazionale. "Diventa molto complicato molto rapidamente", ha detto Amanda J. Dory, segretario aggiunta della difesa per la strategia, che lavora e con un gruppo del Pentagono destinato a incorporare i cambiamenti climatici nella pianificazione della strategia di sicurezza nazionale».

Dall'articolo del New York Times si deduce che tuttavia anche in Senato non tutti sono convinti che questo sia un problema reale, finora totalmente ignorato dal governo degli Stati Uniti, dopo che è stato approvato 10 anni fa a Kyoto.

Alcuni dicono che la crisi economica è la fine dell'imperialismo; forse questo si realizzerà, altrimenti sarà molto peggio per la nostra specie.

A mio parere è sempre meglio avere una giusta causa da difendere e la speranza di andare avanti.


La salute dell'ambiente
di Giovanni Sartori - Il Corriere della Sera - 17 Agosto 2009

Passa un Ferragosto, passa l' altro, torno sempre al tema dell' ambiente e del clima. Chi la dura la vince, dice il proverbio. Speriamo che sia vero. Che tempo fa? Che tempo farà? E' quel che ogni giorno vien spiegato e previsto dai meteorologi. Qual è il clima, e cosa succede del clima, è invece una domanda del tutto diversa che verte, nel lungo periodo, sulle condizioni di siccità, calore, inquinamento e vivibilità del nostro pianeta.

Eppure moltissime persone confondono le due cose. L' anno scorso - dicono - ha piovuto poco e ha fatto molto caldo; ma quest' anno ha piovuto molto e siamo stati bene. Dunque - concludono - quelle dei climatologi sono balle.

E se la pensa così anche un bravo giornalista come Pietro Calabrese, mi tocca di rispiegare tutto daccapo. L' indicatore più ovvio del riscaldamento climatico è che i ghiacciai si stanno sciogliendo, con una velocità imprevista, dappertutto: in Asia, Africa, Europa, sulle Ande, ai Poli. Abbiamo poi misure precise della quantità crescente di anidride carbonica e di altri gas serra nell' atmosfera.

Pertanto la disputa non è più sul riscaldamento del clima terrestre - il fatto è indubbio - ma sulle sue cause. Chi dubita che la causa prima, primaria, «siamo noi», ricorda che i cicli di riscaldamento e di raffreddamento della Terra sono sempre avvenuti, e quindi che possono soltanto dipendere da cause astronomiche. Sì, ma nel ciclo che stiamo vivendo sono entrate due nuove variabili: la società industriale, che è fortemente inquinante, e un gigantesco «salto» in popolazione. E l' entrata in gioco di questi due nuovi fattori inficia le analogie con il passato.

Tantovero che la stragrande maggioranza degli studiosi ritiene che il riscaldamento in corso non appartiene alla naturale variabilità del clima. Beninteso la scienza non è mai unanime. C' è ancora chi nega, per esempio, che il virus dell' Hiv sia la causa dell' Aids. Inoltre, e soprattutto, il problema del clima e dell' ambiente è davvero un macro-problema, tanto grande e complesso da non consentirci di stabilire chi sia un competente e chi no, chi abbia davvero voce in capitolo e chi no.

Ma non c' è dubbio che la scienza nel suo complesso punti il dito su un malfare e strafare dell' uomo, su cause «antropiche». Ciò posto, a che punto siamo? La buona notizia è che ci siamo liberati del «texano tossico», del nefasto ex presidente Bush, e che il suo successore Obama ha già fatto approvare dal Congresso una severa legge anti-inquinamento che prevede una riduzione dei gas serra dell' 83% entro il 2050.

E l' America è un Paese che quando si mobilita, si mobilita sul serio. Anche l' Unione europea si è convinta, e propone la formula del 20-20-20 (meno 20% di emissioni di anidride carbonica, più 20% di efficienza energetica, più 20% da fonti di energia rinnovabili). Ma Berlusconi è come Bush, Berlusconi non ci sta. Combatte persino le esigue (e insufficientissime) riduzioni imposte dal protocollo di Kyoto; e a dicembre ha brutalmente dichiarato a Bruxelles: «Trovo assurdo parlare di emissioni quando è in atto una crisi». Sì, ma no. Perché una catastrofe ecologica sarebbe mille volte più grave della crisi in atto.



A cosa serve la crisi finanziaria. Parte 2
di Paolo Franceschetti - http://paolofranceschetti.blogspot.com - 15 Agosto 2009

1. Premessa.
Tra settembre e ottobre, a dispetto delle rassicurazioni del nostro presidente del consiglio, ci aspetta, pare, una ripresa della crisi, che diventerà sempre più grave per avere il massimo picco nel 2011 - 2012.

Di questi giorni poi è la notizia che nelle scuole hanno diminuito in modo drastico le cattedre, e quindi pare che salteranno circa 100.000 posti di lavoro in tutta italia. Il che è come dire che ci saranno 100.000 persone a spasso, in Italia, che non lavoreranno. Persone che hanno studiato anni, spesso si sono specializzate facendo le famose SSIS (ovvero le scuole di specializzazione per l'insegnamento) pagate a caro prezzo, si ritroveranno lo stesso a girarsi i pollici.

Nel nostro precedente articolo sulla crisi finanziaria ci eravamo occupati dei motivi che hanno provocato questa situazione, soffermandoci sulle dinamiche strettamente economiche; in altre parole avevamo individuato a chi giova, nell’immediato, il tracollo finanziario dei mercati occidentali.

Tuttavia c’è un’altra ragione, meno immediata e meno visibile ma ancora più valida della precedente.
Vediamo quale è questa ragione, non prima però di aver fatto alcune osservazioni.

Avevamo detto che la crisi finanziaria serve essenzialmente ad arricchire i banchieri, perché il fatto che il denaro non valga più nulla (a seguito degli accordi di Bretton Woods del 1944), unitamente al fenomeno dell’acquisizione di beni reali in cambio di beni fittizi, in ultima analisi giova esclusivamente ai proprietari delle grandi banche mondiali e delle multinazionali. E’ un meccanismo che avevano giù descritto e su cui ora non torneremo, che potremo definire “redistribuzione delle ricchezze”. In pratica a seguito della crisi ci sarà una redistribuzione delle ricchezze del pianeta, perché il denaro varrà poco più della carta straccia, e chi aveva basato la sua vita sull’accumulazione del denaro o di prodotti derivati da esso, si ritroverà con un pugno di mosche in mano; in compenso invece conserveranno valore i beni reali (terreni, case, oro, pietre preziose).

Alla fine, essendo la nostra economia basata prevalentemente sul debito, l’effetto ultimo della creazione delle crisi finanziaria, sarà che i privati avranno perso molti dei loro beni per l’impossibilità di coprire i costi dei mutui, e quindi coloro che avranno guadagnato da tutta questa operazione saranno coloro che si ritroveranno proprietari di terre, case, beni di valore, ecc…
In poche parole chi si avvantaggera´da questa situazione sono i grandi gruppi di potere economico.

Tuttavia la logica porta a cercare anche altri motivi a questa crisi.

Le grandi multinazionali e le grandi banche infatti, sono già, di fatto, proprietarie della maggior parte delle ricchezze del pianeta. Poche famiglie, non più di una ventina in tutto, controllano direttamente o indirettamente oltre la metà dei beni della terra e per acquisire l’altra metà non occorre provocare una crisi finanziaria; le grandi multinazionali sono già proprietarie, nella stragrande maggioranza dei casi, delle minierie di diamanti e pietre preziose dell’africa e dell’Asia; le cosiddette sette sorelle hanno il monopolio dell’energia del pianeta, non permettendo alle energie alternative di svilupparsi; controllano di fatto la maggior parte degli stati asiatici, africani, e dell’america latina, mediante governanti compiacenti, allineati, corrotti, o semplicemente incapaci di reagire alla strapotenza del mondo occidentale e dei suoi diktat.
Le grandi superpotenze economiche sono così ricche che potrebbero tranquillamente acquistare tutto il rimamente in modo leciti o illeciti.
Allora…. Perché provocare una crisi finanziaria di questa portata?

Solo per acquistare altri beni, a seguito del fallimento di molti privati e molte aziende?

2. Due parole sul sistema fiscale (la prima parte già pubblicata in precedenza)
La ragione delle crisi è la stessa che regge il sistema fiscale dissennato che abbiamo. Un sistema fiscale assurdo, che però ha una ragione molto profonda. Ripeto qui quello che ho detto nell’articolo sul sistema in cui viviamo con alcuni correttivi.
Il sistema di tassazione deve essere vessatorio e non ci sarà mai un governo che ridurrà le tasse veramente. I soldi, infatti, in realtà ci sono, ma vengono dispersi decuplicando il costo delle opere pubbliche, finanziando società inesistenti grazie all’aiuto della CE, creando fondi neri, spendendo miliardi di euro per una sanità malata.

Il vero scopo del sistema di tassazione attuale, però, non è quello di reperire fondi da spartire tra le elite (ne hanno già a sufficienza senza dover rubare anche pochi spiccioli al cittadino comune) ma quello di costringere il cittadino a non alzare mai la testa; lo scopo è cioè quello di farlo lavorare dodici ore al giorno per sopravvivere. Se non avrà troppo tempo libero, non avrà tempo per riflettere, informarsi e svegliarsi.

Ecco quindi che appena il livello economico della popolazione inizia ad innalzarsi, sopravviene una nuova crisi economica, una nuova necessità finanziaria per cui lo stato chiede nuovi sacrifici…Quello che non ci dicono mai, infatti, è che il 99 per cento dei nostri soldi va allo stato, e quindi non è con un aumento delle tasse che migliorano le condizioni di vita generali, né è in questo modo che lo stato si procura una maggiore disponibilità di risorse. Le tasse infatti non sono il 40 o il 50 per cento, a seconda dell’aliquota. Le tasse coprono invece quasi il 100 per cento dei guadagni dei cittadini. Se sembra assurdo, proviamo a fare questo ragionamento. Se un cittadino guadagna 1000 euro, 300 le da immediatamente allo stato. Ne rimangono 700 che può spendere come vuole.

Queste 700 verranno usate per acquistare dei beni, quindi verranno date ad altri cittadini. Questi cittadini, su queste 700 euro, pagheranno un altro 30 per cento di tasse, quindi ne rimarranno 490. Che verranno utilizzate per acquistare altri beni da altri cittadini che pagheranno altre tasse. Aggiungiamo che ogni bene è gravato da IVA. Cioè un’imposta all’origine che grava i beni di ulteriori carichi fiscali.

Facciamo un esempio con una parcella emessa da un professionista (medico, avvocato, notaio, ecc..). Lo stato ti dice che la tua aliquota è del 50 per cento. Ma è falso. Perché quando io faccio una fattura da 1000 euro, il 50 per cento va in tasse, ma il 20 per cento è l’Iva, a cui si aggiunge l’IRAP (circa il 4 o il 5 per cento) e la Cassa (che per noi avvocati è il 10 per cento). Il che significa che di quelle 1000 euro ce ne rimangono in tasca 200 o 300 circa.

Quindi in merito al problema delle tasse sono due le balle che ci raccontano:

1) è falso che il prelievo fiscale, sia del 30, 40 o 50. Il prelievo (quando si calcola Iva, imposte locali e casse) è comunque dal 70 all’80 per cento, a seconda delle aliquote.
2) Quando il cittadino acquista un bene, lo acquista comunque giù gravato da Iva (che, ricordiamolo, fino a qualche anno fa per certi beni era il 40 per cento). E ciò che va allo stato è molto di più anche di quell’ottanta.
E’ una somma molto vicina al 100 per cento.

In pratica tutto ciò che produciamo finisce nelle tasche dello stato, tranne quel poco che uno riesce a risparmiare e mettere da parte senza farne alcun uso. In sostanza: solo i soldi non utilizzati rimangono a noi e non vanno allo stato. Quelli messi in circolazione prima o poi finiscono nelle casse statali.

Insomma, quando lo stato aumenta quindi le tasse del 2 per cento, non incassa realmente quel 2 per cento. Perché il cittadino, guadagnando il due per cento in meno, acquisterà meno beni, e quindi il risultato è che ad un’entrata da una parte, corrisponde un’uscita dall’altra.
Ne consegue che quello che ci raccontano, sulla necessità di aumentare le tasse per far entrare più soldi nelle tasche dello stato, è una balla colossale.
Allo stato va già quasi tutto. L’aumento dell’imposizione fiscale serve unicamente per vessare il cittadino affinché non possa mai godere una vita di reale benessere.
Inoltre un sistema così congegnato aumenta le aree di illegalità e di evasione, quindi si traduce in una ulteriore perdita economica per lo stato.

Che la vera ragione del sistema fiscale non sia quella di reperire fondi, lo dimostra un fatto emblematico. Sotto il governo Prodi venne fuori lo scandalo (di cui ovviamente i media non hanno più riparlato) dei 98 miliardi di euro che i monopoli dello stato dovevano incassare dai gestori di video games e slot machine. Sono state accertate 98 miliardi di euro di evasione, pari a quasi 200.000 miliardi di lire. Il costo di diverse finanziarie. Una somma che si potrebbe (e dovrebbe) recuperare in poco tempo, ma che il governo si guarda bene dal recuperare. Basterebbe una semplice operazione coordinata dalla guardia di finanza per ottenere in poche settimane un somma che consentirebbe allo stato di respirare per due o tre anni senza drenare altro ai cittadini.

Tant’è che l’8 luglio di quest’anno il deputato del Partito Democratico Alberto Fluvi ha presentato un'interrogazione a risposta immediata in Commissione Finanze della Camera per sapere dal Ministero dell'Economia e Finanze "quali misure abbia adottato o intenda adottare in ordine alla presunta, imponente evasione d'imponibile nel settore delle slot machine, eventualmente valutando le ipotesi, prospettate nella richiamata relazione della commissione ministeriale, di ridurre l'aliquota del Preu, di introdurre il divieto per i gestori di assumere la veste di concessionari, nonché di utilizzare la Sogei per effettuare controlli sui dati di gioco, l'imposta conseguentemente dovuta e quella effettivamente dichiarata e versata, e se, considerata la dimensione del problema, non ritenga opportuna una correzione della struttura organizzativa dell'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, che preveda, a tutela della stessa amministrazione, l'istituzione di una struttura di audit centrale analoga a quella presente in tutte le Agenzie fiscali.

Ma noi sappiamo benissimo quali misuire adotterà il governo. NESSUNA.
In conclusione. Non sono i soldi di cui ha bisogno il governo. Il governo ha bisogno di schiavi che tengano la testa bassa per lavorare dodici ore al giorno e che non si informino, non pensino, non si evolvano.

3. E torniamo alla crisi finanziaria.
Dunque, le ragioni delle crisi finanziaria sono le stesse che valgono per il sistema fiscale, ovverosia abbassare le aree di benessere della popolazione.
Con l’aumentare delle aree di benessere, infatti, aumentano le persone che si informano, che hanno tempo per pensare, che possono fare collegamenti pericolosi. E hanno piu´ tempo per organizzarsi in associazioni che possano contribuire alla vita democratica del paese.

Al contrario, in una situazione di crisi la gente ha meno tempo per riposarsi, pensare, crescere…. Chi lavora dodici ore non ha tempo per fermarsi a riflettere e allora i telegiornali, i giornali, ecc…, è costretto a guardarli di sfuggita, distrattamente, e senza relazionare tra loro fatti il cui legame è invece evidentissimo.

Se le persone avessero tempo per pensare e riflettere succedere questo:
- delitto di Bagno a Ripoli; Lapo Santiccioli uccide la fidanzata, e poi si suicida con tre coltellate sul collo. Non ci sono tracce di sangue della ragazza sul suo corpo, perché dopo averla uccisa si sarebbe lavato e poi si sarebbe suicidato. Tre coltellate sul collo - si domanderebbe il cittadino che ha tempo per pensare - ? Ma come fa uno a suicidarsi con tre coltellate sul collo? E poi perché hanno archiviato subito la cosa anche se non c’erano tracce di sangue sul corpo del ragazzo?

- Tò… è stato realizzato in pieno il programma della P2. Lo trovate qui.
http://www.misteriditalia.it/loggiap2/ilpiano/P2%28piano%29.pdf
Controllo dei giornali, separazione delle carriere nella magistratura, controllo dei mass media, abolizione monopolio RAI, riforma dei rapporti stato-regione, ecc…. E, caso strano, coloro che erano nelle liste della P2 oggi sono ai vertici del ptoere statale. Ma non sarà che…

- Come mai il primo atto del governo Prodi, al momento dell’insediamento, fu quello di nominare sottosegretario alla camera un ex terrorista che aveva scontato anni di galera per l’assassinio di un poliziotto? Si trattava - disse Bertinotti, il leader dei poveri - di un cittadino che aveva pagato il suo debito con la giustizia, quindi poteva tranquillamente stare in una posizione di potere politico. Ma non sarà che c’è un collegamento tra terrorismo e istituzioni? Non sara´che la sinistra di Bertinotti aveva in qualche modo agevolato, se non peggio, quel terrorismo che a parole diceva di non volere. E soprattutto il cittadino si domanderebbe: ma come cazzo e´stato possibile che sia stato eletto un soggetto del genere? Non sara´che la legge elettorale e´una fregatura?

- Perché non recuperano i 98 miliardi dai gestori di slot-machine, ma in compenso se un barista non fa uno scontrino di due euro gli rifilano una multa che questo se la ricorda finchè campa?

- Come mai lo stato permette grandi illegalità a cielo aperto, ospedali iniziati e mai costruiti, strade iniziate e mai costruite ma poi se un cittadino qualunque cambia il tipo di fari montato sull’auto, o costruisce un garage abusivo, patisce conseguenze pesanti?

Queste sono le domande che si farebbe il cittadino che avesse tempo per riflettere, pensare, collegare, senza l´ossessione di arrivare a fine mese.
Questa crisi finanziaria poteva essere evitata. Poteva essere evitata in molti modi. Prima di tutto perchè erano anni che i "complottisti" andavano dicendo che ci sarebbe stata una crisi finanziaria.

Quando Disinformazione nel 2002 diceva che nel 2006 ci sarebbe stato il collasso economico, Pamio (il direttore di Disinformazione) veniva accusato di essere un paranoico complottista.

Ma la verità era che nei centri del potere economico e finanziario queste cose erano risapute.

Una persona che conosco, dirigente di banca, mi ha detto "certo che tutti noi sapevamo... gli esperti di finanza non potevano non accorgersi che i prodotti finanziari piazzati dalle banche erano un flop... un collage di nulla destinato a far saltare il sistema. Così come oggi, le rassicurazioni sulla ripresa sono ridicole, e chi è esperto lo sa, perchè un'economia che piazza prodotti finanziari pari a sei volte il prodotto interno lordo DEL MONDO INTERO, prima o poi è destinato a crollare, perchè vuol dire che le banche stanno piazzando è un prodotto vuoto, senza sostanza e che prima o poi ci sara´un botto di proporzioni clamorose".

La crisi quindi poteva essere evitata con un maggiore controllo dei prodotti finanziari da parte delle banche, con una riappropriazione da parte dello stato della capacità di battere moneta (ricordiamo che oggi lo stato NON batte moneta, perchè questa è emessa dalle banche centrali e dalla BCE, che NON sono sotto il controllo dei governi, e NON dipendono dai governi, ma dalle grandi banche d'affari mondiali).

Ma non è stata evitata.

Nè è stata annunciata, dai governi. Eppure Prodi, solo per fare un esempio, era un economista... avrebbe potuto e dovuto capirlo, ed era suo preciso dovere istituzionale avvertire i cittadini.

Il punto è - lo ripetiamo - che vero scopo della crisi finanziaria è impedire che i cittadini possano un giorno alzare la testa, e riflettendo si accorgano di essere degli schiavi al servizio dei padroni. Le banche e la grande industria. E questa crisi, ovviamente, aumenterà lo stato di sudditanza dei cittadini nei confronti dei “padroni” perchè aumenteranno le persone che andranno a raccomandarsi dal politico, dall’amministratore, dal potente di turno.

La crisi finanziaria non ha altro scopo che renderci ancora più schiavi.
.
4. Come ti elimino il rompicoglioni (ovvero colui che non si adegua al sistema).
La cosa non deve stupire piu´di tanto. E´dall´antichita´che chi governa cerca di mantenere in uno stato di soggezione i sudditi mediante i sistemi piu´diversi. Panem et circensem, diceva il poeta Giovenale, intendendo dire che per tenere soggiogata la popolazione e´sufficiente dargli un po´di pane e farla divertire con il circo.

In periodo Borbonico, a Napoli, l´espressione divenne "feste farina e forca", ma la sostanza era la stessa.
Attualmente i metodi usati per rendere la popolazione una massa di pecore fedeli al potere, sono gli stessi di un tempo; al posto del circo abbiamo la televisione, i media, il calcio, e tutti i miti creati dalla societa´consumistica.

Pochi si rendono conto pero´, che uno degli strumenti piu´formidabili per controllare le masse e´proprio il sistema fiscale e l´attuale crisi finanziaria. Perche´ l´ínformazione puo´essere manipolata quanto si vuole, ma ci sara´sempre qualcuno che capira´l´inganno; le leggi possono essere repressive quanto vogliono, ma per quanto esse siano dure, ci saranno sempre degli spiragli che consentiranno alle persone piu´intelligenti di reagire; ed inoltre, quando le leggi superano una certa soglia di durezza e diventano intollerabili, ci sara´sempre qualcuno disposto a ribellarsi e pagare con la vita la sua ribellione.

L´unica cosa a cui non e´possibile porre rimedio e´la carenza di beni necessari per la sussistenza. Se la persona viene privata dei beni essenziali, per quanto possa essere consapevole, informata, e intelligente, il suo obiettivo principale diventera´sopravvivere, e quindi diventa inoffensiva per il sistema, anche perche´spesso, pur di sopravvivere, scendera´a compromessi con i potenti di turno, specialmente se ha figli.
Aumenteranno cioe´le persone che saranno disposte a rivolgersi al politico di turno, che accetteranno condizioni disumane o patti moralmente illeciti, pur di avere un lavoro.

In altre parole. Noi viviamo in un´illusione di democrazia. Una vera democrazia implicherebbe il governo del popolo ma invece sappiamo bene che non abbiamo alcun potere, neanche di scegliere i nostri governanti. Il mezzo migliore per imporre una dittatura non e´la forza (perche´prima o poi qualcuno si ribellera´) ma dare al popolo l´illusione di essere libero, e quindi creare una dittatura mascherata, facendo si´che la gente chieda esattamente quello che i potenti vogliono imporre.

Non ci si ribella a qualcosa di cui non si sospetta l´esistenza e in questo modo il controllo sulla popolazione puo´andare avanti all´infinito.

Ed e´tempo di rendersi conto che il mezzo di controllo piu´potente e´, appunto, il sistema fiscale e finanziario, che puo´essere riassunto cosi´:
1) sistema fiscale ai limiti della tollerabilità, in modo che ciascuno lavori dodici ore al giorno per poter sopravvivere;
2) leggi fiscali e controlli strutturati in modo tale che sia impossibile mettersi in regola, di modo che i contr0lli fiscali siano diretti a vessare il cittadino (a cui verra´controllato l´emissione di uno scontrino da due euro) e a favorire i potenti (non verranno mai richiesti i 98 miliardi di euro ai gestori di video-games);
3) sistema economico che garantisca sempre un´alta percentuale di disoccupati, e un´alta percentuale di lavoratori che vivano al livello di sussistenza.

Se, nonostante tutti gli sforzi, il benessere aumenta (il che e´inevitabile perche´ogni societa´tende naturalmente, nel lungo periodo, a migliorare le sue condizioni di vita) si crea una bella crisi finanziaria... e voila´... l´equilibrio e´ristabilito.

In pratica, negli stati dittatoriali in cui la dittatura e´conclamata si usano le uccisioni di massa per eliminare i possibili dissidenti.
Nella nostra "democrazia" si usano le tasse e la crisi finanziaria. Gli eventuali dissidenti che non venissero resi innocui con questo sistema, perche´troppo in vista, troppo potenti, o troppo vicini al sistema per non capirlo fino in fondo, avranno un incidente d´auto come Rino Gaetano, un malore improvviso come Berlinguer (che peraltro qualche anno prima si salvo´per miracolo proprio da un incidente d´auto); oppure si suicideranno, come Luigi Tenco.

Oppure, quando la tesi del suicidio o dell´incidente sarebbe cosi´ridicola che pure Emilio Fede, Mentana, e Liguori si rifiuterebbero di accettarla, arrivera´un pazzo isolato e fara´fuoco, come accadde a Gandhi, Martin Luther king, Jonh lennon, Jonh Kennedy o Papa Giovanni Paolo II.
La gente sara´troppo occupata a far quadrare i conti di casa per capire che si tratta di omicidi programmati dal sistema.

Vedi anche: A COSA SERVE LA CRISI FINANZIARIA ? E A CHI GIOVA ?


La decrescita: un'idea su cui puntare
di Giuseppe Giaccio - www.opifice.it - 1 Febbraio 2009
Tratto da Diorama Letterario numero 290

Chi si pone, come nel nostro caso, in una posizione di critica radicale (nel senso letterale dell’andare alle radici) al mondo in cui vive, si imbatte, prima o poi, nella classica domanda: che fare? Ha un senso impegnarsi, spendere tempo ed energie intellettuali e materiali in una realtà imbevuta fino al midollo di valori opposti, o comunque profondamente avversi, a quelli in cui ci riconosciamo?

Tanto più in un contesto dove i mezzi di informazione di massa da un lato, e la società dello spettacolo e del divertimento (anche qui, nel senso letterale del distrarre, dell’allontanare dal centro, dalla sostanza delle cose) dall’altro, hanno assunto un carattere così pervasivo e invasivo da rendere quasi chimerici i propositi di quanti si prefiggono dei mutamenti sostanziali e non di facciata.

L’appiattimento è talmente pronunciato da aver indotto Alain de Benoist ad amare considerazioni sulla “straordinaria aspirazione moderna all’omogeneità”, che non risparmia neppure i giovani che pure dovrebbero essere portati per natura alla rivolta generazionale: “Si resta sbalorditi nel vedere fino a che punto la maggior parte dei giovani, anche e sopratutto tra i più ‘ribelli’ – emarginati e spaccatutto – abbia interiorizzato i valori dominanti e come unica opzione sappia proporre soltanto un’accelerazione (‘tutto e subito’)”[1].

“Non capisco, ma mi adeguo” è la risposta data da molti che, dopo essere passati nel variegato campo anticonformista, ne sono più o meno rapidamente usciti, preferendo l’uovo oggi (sicuro) alla gallina domani (del tutto ipotetica). Sia chiaro che, dicendo questo, non intendiamo affatto impancarci a censori o moralisti o darci arie di superiorità. Non ne abbiamo la vocazione e possediamo, in compenso, uno spiccato senso del ridicolo.

Semplicemente, descriviamo ciò che abbiamo visto, letto e sentito in tanti anni di militanza politica prima e di impegno intellettuale poi. Ma quali prospettive hanno di fronte a loro quanti non solo non capiscono, ma continuano ostinatamente a non volersi adeguare? Sono dei folli, degli illusi, dei don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento? È possibile provare ad immaginare dei percorsi praticabili di fuoriuscita da quello che un tempo si chiamava “sistema” senza finire nel patetico o nel kitsch?

Marino Badiale ha lodevolmente tentato, nel numero 286 di “Diorama”, di fornire qualche primo elemento di risposta, ovviamente bisognoso di approfondimento. Pur condividendo parecchie delle sue affermazioni e dei suoi giudizi, facciamo tuttavia fatica a capire il punto di fuga del suo scritto. In altri termini, dove vuole andare a parare. Dall’ultimo paragrafo del suo testo, sembrerebbe che egli auspichi, in prospettiva, la nascita di “una nuova forza politica”. Subito dopo, Badiale ci fornisce però una descrizione dell’ambiente cui questa forza dovrebbe, quantomeno in prima battuta, fare riferimento (coloro che si oppongono al capitalismo e all’imperialismo) a dir poco sconfortante; ma il guaio è che tale descrizione, oltre ad essere sconfortante, è anche realistica e condivisibile.

È verissimo, infatti, che la fauna umana che si incontra nel milieu anticapitalista e antimperialista “è costituita da persone che presentano distorsioni della personalità tali da renderle non affidabili per un lavoro collettivo”. Ne abbiamo conosciute e ne conosciamo anche noi un discreto numero, ma, contrariamente a Badiale, non siamo granché propensi ad attribuire alle distorsioni di cui costoro patiscono delle nobili motivazioni, pur non escludendole del tutto (il “travaglio profondo” e le “sofferenze individuali” provocate dal doversi confrontare quotidianamente con una realtà ostile). Detto in termini brutali, per noi si tratta, puramente e semplicemente, di gente che non ha tutte le rotelle al posto giusto.

A mano a mano che leggevamo le considerazioni di Badiale, le abbiamo mentalmente associate al nome di un narratore, James Graham Ballard, autore di un trittico di opere (Millennium people, Regno a venire e Il paradiso del diavolo) nelle quali viene sviscerato, con gli strumenti di cui dispone un romanziere – ossia l’affabulazione che riesce però a conservare uno stretto rapporto col reale – lo stesso mondo di marginalità politica e sociale analizzato da Badiale con mezzi che rimandano piuttosto alla filosofia e alla politica. Le analogie tra i due discorsi sono sorprendenti. I personaggi di questi romanzi – che rinviano, rispettivamente, al contesto dell’estremismo di sinistra, del radicalismo destra e del fondamentalismo ecologista – sono, infatti, un vero campionario di turbe psichiatriche e/o psicanalitiche.

A differenza di Badiale, tuttavia, Ballard non nutre alcuna illusione sulle potenzialità rivoluzionarie di queste persone, o di una molto ipotetica minoranza all’interno di tale minoranza che, per misteriose ragioni, sarebbe esente da problemi causati da squilibri nei rapporti fra Io, Es e Superio. Ed infatti nei suoi romanzi le loro ribellioni hanno esiti catastrofici. Noi la pensiamo allo stesso modo. Coltivare rapporti privilegiati con costoro non ha alcun senso. Non è possibile cavare sangue dalle rape. Chi, dunque, dovrebbe essere il destinatario di un forte e serio discorso di opposizione?

Potenzialmente, questo pubblico si trova in tutte le fasce sociali e non solo nella nicchia individuata da Badiale. Se, infatti, il punto di partenza che ci accomuna è il presupposto che viviamo in un mondo affetto da profonde carenze, sia a livello individuale che collettivo, è evidente che tali deficienze non risparmiano nessuno. Per rendere la stessa idea, Bauman ha utilizzato – in verità anche abusandone – la metafora della liquidità. Indubbiamente, è meglio affrontare la realtà liquida, e quindi sfuggente e infida, della globalizzazione stando a bordo di un transatlantico anziché su una zattera, ma anche chi vive su un transatlantico non può dire di essere al sicuro, come insegna l’esperienza del Titanic. Dobbiamo allora puntare sulla capacità, insita in ogni essere umano, di ribellarsi, di dire no – capacità che, per quanto assopita a causa dell’omogeneizzazione di cui si parlava all’inizio, non è del tutto spenta.

Anche se ciò può suonare come un atto di fede, crediamo che ci sia (ancora) del vero in ciò che ha scritto Serge Latouche nel suo La scommessa della decrescita: “Penso che sia impossibile colonizzare totalmente le menti; un po’ di senso critico resiste sempre”[2]. Quando, però, dal potenziale passiamo all’attuale, ai processi che sono realmente in atto, lo scenario diventa meno esaltante e promettente. L’opposizione sembra avere la catena misurata. Raggiunta una certa soglia di tensione e mobilitazione, rifluisce, senza produrre risultati significativi. I verdi e i rifondatori comunisti sono una esemplare illustrazione di questa parabola. I diversi movimenti sorti negli ultimi tempi in Italia (contro la linea ferroviaria veloce in Val di Susa, contro la presenza di una base militare americana nel vicentino, contro il Mose a Venezia e il Ponte sullo Stretto), sembrano destinati a conoscere la stessa sorte dei molti che li hanno preceduti: un fuoco di paglia, generoso ma effimero. Questa consapevolezza è stata, in alcuni, talmente acuta da aver prodotto effetti drammatici. Pensiamo ai suicidi di Petra Kelly in Germania e di Alexander Langer nel nostro Paese.

Proprio Langer, commentando la tragica fine della militante verde tedesca, ebbe a dire, quasi prefigurando il suo stesso destino, che “troppo grande è la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”. In una certa misura, ciò è inevitabile. Il mondo reale non corrisponderà mai pienamente ai nostri disegni e desideri ed un vero uomo politico, uno cioè animato dalla vocazione per la politica, deve esserne consapevole, deve saper superare, come ha insegnato Weber, queste difficoltà ed andare avanti. Probabilmente, né Kelly né Langer erano politici a trecentosessanta gradi, ma piuttosto il risultato di un miscuglio tra idealismo e politica, dove il primo elemento del composto ha avuto decisamente e fatalmente la meglio, capovolgendosi in disperazione a causa degli scacchi subiti. Tuttavia, è pur vero che la distanza che è stata letale per Langer è in parte spiegabile col fatto che il seme dell’azione politica, per germogliare, ha bisogno di un terreno adatto, in mancanza del quale rimane sterile o produce solo aborti.

La proposta metapolitica, che ci vede impegnati da molto tempo, nasce appunto da questa convinzione. Ci si può obiettare (e ci è stato in effetti da più parti obiettato) che finora essa è rimasta ampiamente sulla carta – in parte per deficienze nostre, in parte per l’estrema povertà dei mezzi di cui disponiamo, in parte per la durezza di cervice e l’ottusità di alcuni interlocutori via via incontrati, in parte per la potenza di seduzione, in termini di prebende e di carriere, di cui si avvale l’apparato di potere – ma ciò nulla toglie al fatto che se prima non si ara e non si dissoda, se non si preparano le menti e gli spiriti, non si va molto lontano e si finisce con l’essere fagocitati da strategie altrui. Questa attività, sebbene abbia punti di contatto con la sfera politica, se ne distingue tuttavia essenzialmente, perché la politica – pur rimandando, nelle sue migliori espressioni, ad orizzonti più vasti – è qualcosa di eminentemente pratico, mentre la metapolitica ha un carattere teorico.

Chi fa politica deve ottenere risultati concreti in tempi possibilmente non biblici, dovendo rendere conto sia al suo entourage, sia ai cittadini che lo hanno eletto (quando, ovviamente, opera in un regime democratico). Egli ha a che fare con una serie di rigidità sistemiche dalle quali può difficilmente prescindere e che contribuiscono ad appiattire e omogeneizzare i discorsi dei vari attori politici, fino a renderli pressoché indistinguibili e intercambiabili, o a confinare l’azione politica nell’ambito della presenza testimoniale, nobile ma priva di incisività. Naturalmente, pure chi si consacra a un’attività di tipo culturale deve ottenere risultati, che però concernono la sfera della conoscenza, della verità; egli deve perciò rendere conto solo a se stesso, alla sua coscienza e onestà.

Il suo impegno ha valore in sé e prescinde da possibili ricadute politiche, anche quando queste ultime sono auspicate. L’intellettuale può allora prefiggersi metapoliticamente di creare le condizioni adatte alla produzione di queste ricadute, ma non può mettersi al servizio di esse, perché questo significherebbe cambiare mestiere, correndo peraltro il serio rischio di tradirli entrambi, dato che, come recita un detto evangelico, non si possono servire due padroni. Ora, a noi pare che nel testo di Badiale questi due piani vengano confusi e che l’urgenza, per certi aspetti comprensibile, di dare uno sbocco operativo a determinate idee finisca col nuocere alla lucidità dell’analisi e quindi non favorisca nemmeno un loro eventuale e corretto viatico politico.

Scendendo più nel dettaglio, non si può avere come obiettivo strategico la decrescita, scrivendo che “solo la prospettiva della decrescita rappresenta una via d’uscita dal vicolo cieco in cui l’umanità si è cacciata”, ed al tempo stesso restare legati all’immaginario della civiltà occidentale, facendone proprio l’universalismo in salsa liberale e socialdemocratica che quel vicolo cieco ha potentemente contribuito a creare, perché in questa maniera, come ha osservato Wolfgang Sachs, si scaccia il diavolo con Belzebù: “Si invoca l’universalismo per salvarsi dalla attuale situazione critica, mentre l’universalismo è proprio il peccato originale che quella situazione critica ha generato”[3].

La necessità tutta politica di proporre alle “masse”, come si sarebbe detto un tempo, un percorso ritenuto più appetibile e concreto rispetto a quello agitato dagli estremisti di sinistra e di destra impedisce a Badiale di vedere questa contraddizione, che invece andrebbe risolta ed eliminata con la precisione chirurgica di un’analisi che non faccia sconti a nessuno. Assumere la decrescita come cardine del proprio impegno intellettuale e politico è poco più di un flatus vocis se a tale impegno non si accompagna una chiara consapevolezza dell’irrimediabile fallimento, e quindi della improponibilità, dell’universalismo e del progetto illuministico che lo sorregge, basato sul tentativo di edificare, per dirla ancora con Sachs, “un mondo”, cioè un universo fatto di un genere umano, un mercato, un pianeta.

Ad essere finito in un cul de sac è quello che Giacomo Marramao chiama “universalismo dell’identità” che si è filosoficamente manifestato sia nella forma, da Marramao ritenuta più “nobile”, dell’ “idea kantiana dell’individuo umano come soggetto etico-trascendentale indifferenziato (indipendente dal carattere situato della propria esistenza)”, sia nella forma, implicitamente considerata meno nobile, dell’antropologia utilitaristica[4]. Politicamente, questa concezione dell’uomo ha dato vita allo Stato Leviatano, al modello assimilazionista repubblicano, anello intermedio tra il locale e il globale, che oggi, nell’attuale fase di “passaggio a Occidente”, ovvero di globalizzazione, è entrato in crisi non tanto in termini quantitativi (il numero degli Stati, ricorda infatti Marramao, è semmai cresciuto rispetto al passato), quanto qualitativi, nel senso che lo Stato è diventato uno strumento inefficace, non è più in grado di fare bene il suo mestiere, essendo bypassato da istanze transnazionali.

L’universalismo dell’identità, cioè l’ideologia universalistico-illuministica – che, secondo Sachs, ha trovato nella Carta delle Nazioni Unite una delle sue ultime espressioni – ha dichiarato guerra alla diversità in tutte le sue accezioni, configurandosi come una macchina per annichilire le differenze, nella convinzione che queste ultime fossero sinonimo di conflittualità. Per portare la pace e la prosperità sulla Terra, basterebbe, secondo questa visione delle cose, eliminare ogni elemento di differenziazione, costruire un mondo di spazi, per definizione omogenei e intercambiabili, e non di luoghi, che rimandano inevitabilmente alle diversificate culture che li hanno partoriti.

L’universalismo è “spaziocentrico”, non “luogocentrico”. Qualcosa di simile dice anche Latouche quando osserva che la cosmopoli universalista è divoratrice di spazi e che a questa “topofagia” bisogna opporre una “rinascita dei luoghi” e una “riterritorrializzazione”[203]. Gli effetti di questo furore antidifferenzialista, continua Sachs, sono sotto i nostri occhi: “Ovunque si volga lo sguardo, l’omogeneizzazione del mondo è in piena attività. Una monocultura globale si spande a macchia d’olio sull’intero pianeta. Cinquant’anni di sviluppo, foggiati sul modello ‘un mondo’, sono passati. L’esito di tutto ciò, se le apparenze non ingannano, è una visione orrifica: l’uomo moderno, tutto solo nel mondo, per sempre”.

Questa distinzione tra spazi e luoghi è rintracciabile anche in Marramao, dove assume la forma di un’opposizione tra l’Europa, terra di luoghi, e segnatamente di quel luogo tutto europeo, matrice di civiltà, costituito dalla città, dalla cultura cittadina (o meglio, dalle culture cittadine, al plurale) e gli Stati Uniti, terra degli spazi: “L’America del Nord ha strade, spazio dove si passa, ma non luoghi dove ci si incontra”[5].

Mentre in Habermas il dualismo Europa/Stati Uniti ha un carattere congiunturale derivante dalla scelta – che avrebbe “diviso” l’Occidente – delle amministrazioni repubblicane influenzate dagli ideologi neoconservatori di privilegiare un unilateralismo venato di richiami cristiano-fondamentalisti, a scapito della tradizione kantiana, laica e universalistico-illuministica che si manterrebbe integra in Europa e alla quale una futura amministrazione statunitense dovrebbe, a suo parere, ritornare[6], in Marramao esso ha un carattere piuttosto strutturale, il quale fa sì che l’Europa rappresenti “l’esatto rovescio del Centauro americano”. Quest’ultimo, avendo “una testa monoculturale e monolonguistica” e “un corpo multietnico e multiconfessionale”, appare fisiologicamente inadatto a raccogliere le sfide del XXI secolo, a governarne le tensioni, sbrogliando la matassa “dei conflitti endemici che l’attraversano”.

L’Europa, al contrario, terra di un presente vissuto come kairós, “tempo debito e opportuno” che si oppone alla fretta e di cui le città e le piazze sono una delle manifestazioni, appare “già vaccinata rispetto alle differenze”, conoscendo, in virtù di una storia millenaria, “quella pluralità insopprimibile delle ragioni e dei punti di vista che sola può sostenere una comunità in grado di reggere la sfide del futuro”[7] e che spinge l’Europa, molto più che gli Stati Uniti, nella direzione, molto apprezzata anche dai teorici della decrescita e dagli ecologisti, della valorizzazione di un’“etica della finitudine”, di un positiva declinazione del senso del limite, “vedendo in esso non un ostacolo o una mancanza, ma al contrario un’opportunità: una condizione per dar senso alla nostra esperienza, alle nostre concrete forme di vita”[8]. L’Europa è, storicamente, un “mosaico di dissonanze” (un “arcipelago”, per dirla con Cacciari) che la rendono idonea a sostenere quell’“universalismo della differenza” che Marramao oppone all’universalismo dell’identità di stampo illuministico.

È significativo che Serge Latouche, che della decrescita è uno dei più noti esponenti, si sia scagliato contro l’occidentalizzazione del mondo ed abbia reso omaggio, riconoscendolo come uno dei suoi maestri, a Michael Singleton, cioè a un acerrimo critico dell’universalismo[9]. Un pensiero anticonformista non può non interrogarsi sull’immane carico di dolore, devastazioni, sofferenze, lutti e morte che si cela dietro gli accattivanti e seducenti discorsi occidentalisti di cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Costituzione italiana sono dei riflessi. Se la società basata sulla decrescita è, citiamo ancora Latouche, “necessariamente plurale”, allora essa non può non avere come suo nemico principale “l’universalismo dei valori e dell’economia”[10].

Quest’ultimo va combattuto perché, come ha più volte spiegato Alain de Benoist, è una forma di etnocentrismo mascherato, una maniera per imporre ad altri popoli e culture, spesso ricorrendo a una violenza nutrita di buona coscienza, i propri valori e i propri modelli, a cominciare dallo sviluppo, spacciandoli appunto per universali. Non diversamente si è espresso Immanuel Wallerstein quando ha scritto che “non vi è nulla di più etnocentrico, di più particolaristico delle rivendicazioni universalistiche”[11], mentre Marramao ha criticato la pretesa che “l’homo europaeus rappresenti l’Umanità intera e che la Ragione occidentale costituisca l’autentica matrice e culla della Libertà e l’esclusivo pattern dell’universalismo, a fronte del particolarismo, localismo, irrazionalismo delle altre civiltà”[12].

È sempre stato così, d’altronde. La “retorica del potere” ha fatto costantemente ricorso a motivazioni alte e nobili per coltivare interessi molto concreti e spesso inconfessabili. La disputa che, dopo la cosiddetta scoperta dell’America, vide impegnati Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de Las Casas contiene già in nuce tutti gli elementi del dibattito che ha opposto fino ad oggi i sostenitori dell’universalismo – e delle politiche espansionistiche e imperialistiche che all’universalismo sono inestricabilmente legate – e quelli dei diritti dei popoli.

Sepúlveda giustifica l’intervento spagnolo nel Nuovo Mondo (il loro “diritto di ingerenza”, diremmo oggi) appellandosi alla supposta barbarie e crudeltà dei nativi, le quali consigliavano che fossero “governati da altri”, alla legge divina, al diritto naturale e all’evangelizzazione che avrebbe tratto beneficio dalla presenza spagnola in America. Aggiornando leggermente questo lessico, non è difficile immaginare scenari che ci sono molto più familiari: diritti umani, esportazione della democrazia, pericolo islamista, superiorità della civiltà occidentale e giudaico-cristiana.

Questo è il patrimonio ideale di cui il capitalismo assoluto, giustamente deprecato da Badiale, si serve per legittimarsi. Non vediamo alcuna sostanziale soluzione di continuità tra questa forma di capitalismo e quelle dei secoli precedenti che si servivano, per giustificare il proprio discorso, di un apparato valoriale – i diritti civili del liberalismo e quelli sociali del Welfare State – che a Badiale sembra più accettabile, al punto da proporlo come leva per tentare di scardinare il capitalismo assoluto (le linee di continuità e la coerenza del dispiegarsi della Forma-Capitale, per usare un’espressione cara a de Benoist, sono state efficacemente evidenziate da Sophie Bessis nel suo L’Occident et les autres).

Al di là delle innegabili, e del resto ovvie, differenze storiche, è sempre rimasta costante la pretesa universalistica occidentale di “dire la norma”, di proporsi e/o imporsi agli altri come idealtipo in cui specchiarsi, nella convinzione che “l’enunciazione dell’universale, qualunque ne sia il contenuto”, sia “appannaggio naturale dell’Occidente”[13]. Chi dubitasse della veridicità di questa affermazione o la ritenesse esagerata, non deve far altro che leggere gli scritti di un intellettuale come Jürgen Habermas, dove è possibile cogliere tale persuasione allo stato puro. Le critiche da lui rivolte agli Stati Uniti nascono dal fatto che, con la scelta unilateralistica in politica estera, essi hanno perso “autorevolezza normativa” e pertanto non hanno più le carte in regola per dire al mondo intero quale deve essere la direzione di marcia (un kantiano “assetto giuridico cosmopolitico” che Habermas vede meglio prefigurato nell’Unione europea e in una Organizzazione delle Nazioni Unite adeguatamente riformata)[14].

Questa pretesa normativa è, peraltro, fortemente conflittuale e polemogena, dal momento che gli altri non fanno fatica a rilevare come l’universalismo occidentale si configuri, con ogni evidenza, come un discorso ad usum delphini: vale per gli altri, ma non per se stessi. La norma universalistica solennemente proclamata ha un’applicazione – nota ancora la Bessis – “a geometria variabile”. L’Occidente è perciò liberale in politica, liberista in economia, difensore dei diritti dell’uomo in ambito filosofico-giuridico quando si rivolge ai paesi terzi per esportarvi i suoi prodotti, siano essi economici o culturali, ma diventa protezionista e statalista quando sono i paesi terzi a prendere sul serio le sue ricette e a bussare alle sue porte.

L’Occidente gioca perciò la partita dell’universalismo con “dadi truccati”. Per farla finita con questa pratica ipocrita, l’Occidente dovrebbe allora, secondo la Bessis, “invalidare il modello al quale ha dato lo statuto di universale”[15]. In questo modo, la smetterebbe di giocare “sporco” e sarebbe più credibile quando chiede sacrifici e cambiamenti. Compito evidentemente molto gravoso che finora ha visto impegnate solo piccole minoranze, tra cui alcuni fautori della decrescita, che, pur muovendosi in direzioni non necessariamente convergenti, hanno però in comune la consapevolezza della necessità di sgombrare il campo da riferimenti all’universalismo occidentale come conditio sine qua non di ogni ulteriore passo in avanti.

Ciò porta Latouche e Singleton a passare nel campo opposto del nominalismo e del relativismo. Questi sono i punti di riferimento filosofici che stanno dietro i numerosi lavori di Latouche e che gli hanno valso, a sinistra, l’ostilità degli ambienti più chiusi e settari. La “società della decrescita” è una società che ha rinunciato all’universalismo, con tutto il suo corredo di maiuscole (il Progetto, il Progresso, lo Sviluppo, i Diritti dell’Uomo) con le quali, come scrive Singleton, si cerca di costringere dei pali quadrati a entrare dentro buchi rotondi, rettangolari o esagonali, ossia, fuor di metafora, di imporre la civiltà occidentale a culture lontane anni luce da essa[16].

Un altro – e, a nostro parere, più interessante e fruttuoso – tentativo di “invalidare” il modello occidentale è costituito invece da tutte quelle posizioni teoriche le quali, pur rifiutando l’universalismo dell’Occidente, non rinunciano ad avere sullo sfondo un quadro di riferimento di carattere generale. In questa ottica, Alain de Benoist preferisce parlare di universale, e di “costanti universali”, anziché di universalismo – universale che si dà naturalmente in termini plurali e “incarnati”, dato che è in forma mediata, particolare, attraverso cioè le diverse culture, che l’uomo partecipa dell’universale. Oppure di oggettività, di cui l’universalismo è considerato una corruzione e una inversione in quanto tenta di imporre all’essere un dover-essere astratto e arbitrario.

Sul terreno politico, questo discorso assume il volto di un rinnovato sistema imperiale-federale, capace di tenere insieme politicamente (e dunque non in termini puramente giuridici) il locale e il globale[17]. Tra l’universale e il particolare non vi è quindi un rapporto di subordinazione gerarchica, in base al quale tutte le volte che ci si discosta da una visione considerata generale, universale, del bene, del bello, del giusto e del buono, si viene più o meno bruscamente richiamati all’ordine (anche a suon di bombe, come abbiamo più volte potuto constatare negli ultimi tempi), ma un intreccio, una relazione orizzontale, che vede nei contesti particolari non delle entità chiuse in se stesse e non comunicanti tra loro, bensì le innumerevoli lingue, le grammatiche e le sintassi, nelle quali si esprime l’universale e che richiedono, pertanto, un costante sforzo di traduzione (la vera lingua europea, ricorda Marramao, è appunto la traduzione).

Ciò pone, indubbiamente, a chi si riconosce in questa impostazione che rigetta il relativismo senza rinunciare a una prospettiva universale, il problema – che potremmo definire dei “casi-limite” – di come atteggiarsi quando l’universale si esprime in una lingua che suona ostica o incomprensibile. Problema difficile, ma che richiede, per poter essere avviato a soluzione, proprio l’abbandono dell’approccio giuridico-normativo propugnato da Habermas, foriero di un uso della violenza perpetrata in totale buona coscienza (Habermas arriva ad augurarsi “lo sviluppo delle cosiddette armi di precisione”[18] che, come ben sappiamo, tanto precise poi non sono), in favore di un più umile approccio politico machiavelliano che privilegia la “verità effettuale della cosa” alla “immaginazione di essa”.

Qualcosa di simile sembra evocare anche Wolfgang Sachs. La prospettiva della costruzione di “un mondo” non è di per sé negativa, ma va sganciata, a suo avviso, dall’omologante sfondo illuministico-universalistico, sforzandosi di andare non verso una “super-nazione” (il che ci farebbe restare all’interno del quadro illuministico), bensì verso una “meta-nazione”, che è “l’orizzonte entro il quale i luoghi vivono la loro densità e la loro profondità”. Per dare un’idea di ciò che intende dire con queste parole, Sachs si richiama esplicitamente allo schema imperiale: “I contadini croati, così come i cittadini di Cracovia, erano anche membri dell’Impero asburgico”. Abbiamo già visto che in Marramao c’è una messa in discussione dell’universalismo dell’identità di matrice illuministica (il modello République) – cui fa da pendant una simmetrica presa di distanze dall’“antiuniversalismo delle differenze” e dal modello Londonistan (comunitarismi, identitarismi, etnicismi, fondamentalismi) – accompagnata dal tentativo di delineare un “universalismo della differenza”, una “politica universalista della differenza” basata su una “sintesi disgiuntiva” che realizzi una relazione, sicuramente ardua, “tra singolarità irriducibili e reciprocamente inassimilabili” e accompagnata altresì dalla coscienza che, nell’interregno in cui ci troviamo, dovremo necessariamente, e ancora per molto tempo, “scrivere con una mano la parola universalità, con l’altra la parola differenza, resistendo alla tentazione di scriverle entrambe con una mano sola: poiché sarebbe comunque la mano sbagliata”[19]. Questa difficile, ma necessaria, coniugazione di universalismo e differenza presuppone – scrive Marramao, forse con un pizzico di provocazione – che noi europei impariamo a “provincializzarci”, vale a dire “a considerare i nostri universali meno centrali e egemonici di quanto la nostra ‘narrativa’ ci ha indotti a credere”[20].

Wallerstein teorizza, dal canto suo, la necessità di passare da un “universalismo europeo” – espressione con la quale si riferisce all’universalismo nella sua accezione negativa di pseudo-universalismo – a un “universalismo universale” che sarebbe un universalismo vero, frutto, secondo una bella formula di Léopold-Sédar Senghor, di un rendez-vous du donner et du recevoir, di un autentico scambio in cui tutti danno e ricevono e dove quindi non c’è un maestro che impartisce lezioni e allievi che le apprendono passivamente. “Ciò che ci viene richiesto”, conclude Wallerstein, “è, allo stesso tempo, di universalizzare i nostri particolari e di particolarizzare i nostri universali, nella forma di un costante scambio dialettico che ci permetta di pervenire a nuove sintesi che siano a loro volta, ovviamente, subito messe in discussione. Ma non si tratta di un gioco semplice”[21]. È vero. Eppure, vale la pena giocarlo. Con decisione e lucidità.

NOTE

[1] A. de Benoist, Ultimo anno, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme 2006, pagg. 84-85.
[2] S. Latouche, Le pari de la décroissance, Fayard, Paris 2006, pagg. 161-162 [ed. it. Feltrinelli, Milano 2007].
[3] W. Sachs, “Un mondo”, in W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, EGA, Torino 2004, pagg. 423-443. Da qui sono tratti anche gli altri riferimenti a questo autore.
[4] G. Marramao, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pag. 58. Su questi temi, Marramao si è soffermato anche in Passaggio a Occidente (Bollati Boringhieri, Torino 2003) e Dopo il Leviatano (Bollati Boringhieri, Torino 2000).
[5] G. Marramao, op. cit., pag. 201.
[6] Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, Laterza, Roma-Bari 2007. La visione di Habermas sembra peccare sia di superficialità, considerando che posizioni unilateralistiche sono state teorizzate e praticate anche dall’amministrazione del democratico Clinton, sia di ingenuità, dal momento che la sua concezione kantiana dei rapporti internazionali contempla “la possibilità che una superpotenza, purché abbia una costituzione democratica e sia lungimirante nelle sue azioni, non sempre strumentalizzi il diritto internazionale ai propri fini, bensì promuova un progetto che finisca col legarle le mani” [147](sic!).
[7] G. Marramao, op. cit., pagg. 204-205.
[8] Ibidem, pagg. 105-106.
[9] Cfr. M. Singleton, Critique de l’ethnocentrisme, (con la prefazione di Serge Latouche “Un parcours iconoclaste”), Parangon, Paris 2004.
[10] S. Latouche, op. cit., pagg. 148-149.
[11] I. Wallerstein, La retorica del potere, Fazi, Roma 2007, pag. 52.
[12] G. Marramao, op. cit., pag. 159.
[13] S. Bessis, op. cit., pag. 37 [ed. it. EGA, Torino 2003]. [14] J. Habermas, op. cit, pag. 8. [15] S. Bessis, op. cit., pag. 199. [16] M. Singleton, op. cit., pag. 37.
[17] Dalla vasta produzione saggistica di Alain de Benoist su questi argomenti, segnaliamo almeno: L’impero interiore (Ponte alle Grazie, Firenze 1996), Oltre i diritti dell’uomo (Settimo Sigillo, Roma 2004), Identità e comunità (Guida, Napoli 2005) e i capitoli sui diritti umani e sul federalismo nel secondo volume di Pensiero ribelle (di imminente pubblicazione per le edizioni Controcorrente).
[18] J. Habermas, op. cit., pag. 174.
[19] G. Marramao, op. cit., pag. 43.
[20] Ibidem, pag. 195.
[21] I. Wallerstein, op. cit., pag. 64.