Ieri il cosiddetto premier se n'è uscito con la sua ultima barzelletta, anzi due.
La prima si riassume con questa frase "Voglio passar alla storia come il premier che ha sconfitto la mafia".
Mentre la seconda è sintetizzata da queste parole "Non ho mai avuto relazioni con minorenni [...] Solo cene simpatiche, ma ineccepibili per moralità e eleganza [...] Non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie".
Che altro dire di un povero nonnetto megalomane, bugiardo e smemorato, che continua però a governare indisturbato un Paese altrettanto ipocrita e senza memoria?
P.S. Ah, dimenticavo. Un altro aggettivo è da aggiungere sia al cosiddetto premier (a giudicare dalle ultime foto sulla rivista Chi) che anche al Paese più in generale: imbalsamato.
Il megalomane e lo stratega. Progetti d'autunno
da Megachip - 19 Agosto 2009
Se la lotta alla mafia non fosse una questione “terribilmente seria”, come diceva Giovanni Falcone, e se non avessero perso la vita “i nostri figli” come ricorda senza sosta Giovanna Maggiani Chelli nei suoi accorati comunicati in cerca di giustizia, si potrebbe perfino cedere alla tentazione di farsi una bella risata.
Silvio Berlusconi, il nostro presidente del Consiglio, ahinoi, tra le tanti ragioni per cui probabilmente passerà comunque alla storia ha scelto proprio l’unica che poteva risparmiarsi: sconfiggere la mafia. E ammesso che non sia del tutto uscito di senno, c’è da scommettere che in questo suo freudiano outing si nasconda più di un motivo.
Il primo è molto semplice: riportare la consapevolezza del fenomeno mafioso all’anno zero, facendo credere agli italiani ipnotizzati dai suoi effetti speciali che la mafia sia una questione di guardie e ladri, di criminalità spicciola che si risolve solo con l’esercito e le carceri. Ci aveva già provato Mussolini e forse qualche fascista nostalgico è rimasto convinto che il duce abbia sconfitto la mafia, salvo poi richiamare in fretta e furia Cesare Mori, il prefetto di ferro, quando era andato a ficcare il naso nel cuore del potere di Cosa Nostra: la politica e gli affari.
Ecco qui il problema: Cosa Nostra, la mafia, ma anche le altre nostrane produzioni, ‘ndrangheta e Camorra, vivono da secoli per i loro legami a doppio filo con la politica, con l’imprenditoria e con alcuni pezzi delle istituzioni deviate e/o corrotte.
“Il nodo è politico”, ripeteva sempre il povero Borsellino già sbiadito a un mese esatto dall’anniversario della strage di via d’Amelio. “Ibridi connubi tra criminalità organizzata, centri di potere occulto e settori devianti dello stato hanno la responsabilità di aver tentato persino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di aver ispirato crimini efferati”, diceva Giovanni Falcone, il grande amico di tutti, ricordato per ciò che fa comodo tranne per le sue accuse specifiche e taglienti.
Il secondo possibile motivo, dicevamo, ci sarebbe probabilmente sfuggito se non fosse arrivato, sempre via stampa, un corposo indizio. Marcello Dell’Utri, braccio destro e sinistro di Berlusconi, già condannato a nove anni e mezzo di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ha dichiarato di voler proporre, non appena ricominceranno le attività parlamentari, una commissione d’inchiesta sulle stragi del ’92. Insomma – ha spiegato al Riformista - si parla di trattativa tra stato e mafia ed è il caso di vederci chiaro.
E siamo d’accordo! E’ ora di sapere chi assieme a Cosa Nostra ha assassinato Falcone, Borsellino, la dottoressa Morvillo e gli agenti delle loro scorte.
Considerato però che tra i primi ad essere indagati come possibili mandanti esterni della strategia stragista sono stati proprio loro: Berlusconi e Dell’Utri, alfa e beta, le dichiarazioni di oggi 19 agosto 2009 suonano quanto meno inquietanti. E se il premier è noto per le sparate, il suo “mediatore con Cosa Nostra” è da prendere più sul serio. Un po’ come Riina e Provenzano, uno megalomane e l’altro stratega.
Di colpo si svegliano e vogliono combattere la mafia, proprio adesso che stanno emergendo dichiarazioni e documenti che quella trattativa potrebbero dimostrarla, proprio adesso che si potrebbero scoprire le vere finalità di quel progetto di morte che ha cambiato i connotati politici e non solo alla nostra Repubblica.
Chissà quante escort, canzonette, telenovelas, ballerine, eredità, divorzi, sexy e spy story bisognerà inventarsi per coprire quello che è il vero enorme scandalo italiano: il vincolo mafia, politica e imprenditoria che tiene sotto ricatto l’emancipazione democratica dell’Italia.
A seguito alcuni stralci delle motivazioni della sentenza che condanna Marcello Dell’Utri a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa e l’archiviazione di Berlusconi e Dell’ Utri come mandanti esterni delle stragi.
Nella sentenza palermitana di primo grado (11dicembre 2004), che condanna Marcello Dell’Utri alla pena di anni nove di reclusione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, si legge letteralmente:
“Gli elementi probatori emersi dall’indagine dibattimentale espletata hanno consentito di fare luce:
sulla posizione assunta da Marcello Dell’Utri nei confronti di esponenti di “cosa nostra”, sui contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), sul ruolo ricoperto dallo stesso nell’attività di costante mediazione, con il coordinamento di Cinà Gaetano, tra quel sodalizio criminoso, il più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo, e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo FININVEST;
sulla funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l’assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (o “fattore” o “soprastante” che dir si voglia) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Teresi Girolamo, all’epoca due degli “uomini d’onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo;
sugli ulteriori rapporti dell’imputato con “cosa nostra”, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Cinà Gaetano, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell’Utri ha continuato l’amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell’importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che “cosa nostra” percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall’azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l’organizzazione mafiosa ed il gruppo FININVEST (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.
Queste condotte sono rimaste pienamente ed inconfutabilmente provate da fatti, episodi, testimonianze, intercettazioni telefoniche ed ambientali di conversazioni tra lo stesso Dell’Utri e Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà ed anche da dichiarazioni di collaboratori di giustizia; la pluralità dell’attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di “cosa nostra” alla quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici”.
In merito all’opera di intermediazione svolta da Marcello Dell’Utri tra gli interessi di Cosa Nostra e quelli imprenditoriali di Silvio Berlusconi, i giudici sottolineano ancora che l’imputato “ha non solo oggettivamente consentito a “cosa nostra” di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui”
“Conclusivamente, ad avviso del Collegio, Marcello DellUtri ha consapevolmente assunto, in relazione alle vicende specificamente analizzate in questo capitolo (quello del pizzo per le antenne ndr.), lo stesso ruolo del coimputato Cinà; è stato, come quest’ultimo, un anello, il più importante, di una catena che ha consolidato e rafforzato “cosa nostra”, consentendole di “agganciare” una delle più importanti realtà imprenditoriali italiane e di percepire dal rapporto estorsivo, posto in essere grazie alla intermediazione del Dell’Utri e del Cinà, un lauto guadagno economico.
L’ulteriore e decisivo tramite, al fianco dell’amico palermitano portatore diretto di interessi mafiosi.
Così operando, Marcello Dell’Utri (come Cinà), ha favorito “cosa nostra” reiterando le condotte, tenute in precedenza, anch’esse significative ai fini della responsabilità penale in ordine ai reati contestati in rubrica, la cui sussistenza viene rafforzata da quanto analizzato in questo capitolo.
Una condotta ripetitiva, quella di tramite tra gli interessi della mafia e quelli di Berlusconi, ancora una volta posta in essere da Dell’Utri anche in tempi successivi…”
Nel capitolo finale, dedicato alle considerazioni conclusive, i giudici condannano il coimputato Gaetano Cinà alla pena di anni sette di reclusione con l’accusa di associazione mafiosa e ad una pena più severa (nove anni) Marcello Dell’Utri. “Dovendosi negativamente apprezzare – scrivono - la circostanza che l’imputato ha voluto mantenere vivo per circa trent’anni il suo rapporto con l’organizzazione mafiosa (sopravvissuto anche alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla “vendetta” di “cosa nostra”) e ciò nonostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso e pur avendo, a motivo delle sue condizioni personali, sociali, culturali ed economiche, tutte le possibilità concrete per distaccarsene e per rifiutare ogni qualsivoglia richiesta da parte dei soggetti intranei o vicini a “cosa nostra”.
Si ricordi, sotto questo profilo, anche l’indubitabile vantaggio di essersi allontanato dalla Sicilia fin dagli anni giovanili e di avere impiantato altrove tutta la sua attività professionale.
Ancora, deve essere negativamente apprezzata la già sottolineata importanza del suo consapevole contributo a “cosa nostra”, reiteratamente prestato con diverse modalità, a seconda delle esigenze del momento ed in relazione ai singoli episodi esaminati nei precedenti capitoli.
Inoltre, il Collegio ritiene assai grave la condotta tenuta dall’imputato nel corso del processo, avuto riguardo al tentativo di inquinamento delle prove a suo carico, così come risulta dimostrato dalla disamina della vicenda “Cirfeta-Chiofalo”, come pure la circostanza che egli, contando sulla sua amicizia con Vittorio Mangano, gli abbia chiesto favori in relazione alla sua attività imprenditoriale, come emerge dall’analisi della vicenda “Garraffa”.
Infine, si connota negativamente la sua disponibilità verso l’organizzazione mafiosa attinente al campo della politica, in un periodo storico in cui “cosa nostra” aveva dimostrato la sua efferatezza criminale attraverso la commissione di stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato, e, inoltre, quando la sua figura di uomo pubblico e le responsabilità connesse agli incarichi istituzionali assunti, avrebbero dovuto imporgli ancora maggiore accortezza e rigore morale, inducendolo ad evitare ogni contaminazione con quell’ambiente mafioso le cui dinamiche egli conosceva assai bene per tutta la storia pregressa legata all’esercizio delle sue attività manageriali di alto livello.”
Motivazione sentenza di archiviazione mandanti esterni (3/05/2002)
Sebbene non sia stato possibile provare il nesso tra le stragi e i due onorevoli indagati, il gip scrive “gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori”.
Rileva inoltre che “tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione Cosa Nostra, costituiscono dati oggettivi che - in uno agli altri elementi relativi ai contatti e alle frequentazioni di Dell’Utri con esponenti della stessa cosca - rendono quanto meno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai vari collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento in base alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all’organizzazione abbiamo quantomeno legittimato agli occhi degli “uomini d’onore” l’idea che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di Cosa Nostra”.
Per approfondire potete consultare alcuni degli articoli pubblicati da ANTIMAFIADuemila in questi anni, qui ne consigliamo alcuni ma nella sezione “Trattativa” ne troverete anche altri. Buona informazione.
Tratto da: AntimafiaDuemila.com
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La falsa verità del nonno superman
di Edmondo Berselli - La Repubblica - 20 Agosto 2009
Ancora una volta Silvio Berlusconi tenta il gioco di prestigio: con un colpo di magia prova a fare scomparire la realtà. O almeno a colorarla con la vernice dei sogni. Sogni italiani, sogni casalinghi, sogni isolani. Da Villa Certosa, circondato da figli e nipotini, si mostra in una serie di foto ritoccate che gli tolgono dieci anni, e rilascia agli italiani la sua versione.
C'è una strategia ben precisa: ribattere il chiodo con sicurezza, in modo che l'Italia berlusconiana, e anche l'opinione pubblica più o meno neutrale, si rafforzi nell'idea che il premier è puro come un giglio.
Naturalmente ciò che ha detto nell'intervista rilasciata a Chi, settimanale di proprietà, è stato studiato e calcolato con attenzione certosina. Il premier sostiene di non avere mai intrecciato ""relazioni" con minorenni" e di non avere mai "organizzato "festini"". Le sue cene, "simpatiche" erano "ineccepibili sul piano della moralità e dell'eleganza". Infine, spiega Berlusconi, "non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie".
Si tratterebbe innanzitutto di capire che cosa significa quell'avverbio "consapevolmente". Vuol dire che "inconsapevolmente" persone poco serie sono state ospiti di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa? È un'ammissione involontaria? In ogni caso va messo agli atti che il premier insiste con la strategia delle verità distorte.
Indifferente a tutto, alle registrazioni con le escort e alle conversazioni telefoniche con il procacciatore Giampaolo Tarantini, Berlusconi modella il proprio racconto accusando i suoi nemici di avere montato un castello di "calunnie". Questa sottrazione di realtà gli viene facile perché da quando è emerso lo scandalo della prostituzione di regime i media televisivi controllati politicamente hanno fatto il possibile per imboscarlo. Il Cavaliere può raccontare a cuor leggero che anche la Cei e il suo organo di stampa, Avvenire, sono caduti nella trappola allestita dai suoi avversari, e che l'intero mondo cattolico è stato ingannato da un cumulo di bugie e di notizie false ai suoi danni.
Fin qui non c'è da stupirsi. Sono settimane che il premier si aggrappa ostinatamente alla sua versione, sicuro che la gente si convincerà che tutte le chiacchiere su di lui sono semplicemente gossip, pettegolezzo, calunnia, un caso di malevolenza politica organizzata. Ma forse per capire meglio la tattica berlusconiana è opportuno mettere a fuoco anche gli strumenti mediatici a cui è ricorso.
Le foto famigliari pubblicate da Chi sono di impressionante chiarezza nelle intenzioni: si rilascia un'intervista a un settimanale popolare, per comunicare all'Italia del popolo e al Popolo della libertà che Berlusconi è un'immagine sacrale, un politico senza macchia. Le immagini con il nipotino di 22 mesi, o quella pensosa nello studio privato di Villa Certosa, intendono rappresentare il profilo di una figura esemplare e incorrotta, legatissimo alla famiglia nonostante le pratiche del divorzio da Veronica Lario, dopo "una vera storia d'amore" durata trent'anni.
Il "Nonno Superman", come lo chiamano in modo impegnativo i nipoti, non esita a proporsi come una figura insieme ricchissima e popolare, una guest star del suo giornale, del suo impero economico, di un'estate da favola. Non ci sono tabù estetici nello stile di un protagonista che impone la sua presenza dichiarandola insostituibile.
Lo si riscontra osservandolo accanto a una fontana dal curioso stile assiro-nuragico, ma ciò che colpisce è il contesto di contenuto e di immagini del giornale domestico. Basta girare qualche pagina, infatti, e la figura del premier cede il passo alle specialità di un settimanale di pettegolezzi: gli spettacolari tatuaggi del macho Fabrizio Corona, le confessioni dell'ex tronista Costantino Vitagliano, le carezze hot tra Federica Pellegrini e il suo fidanzato Luca Marin.
Tutto questo potrebbe apparire una caduta nel trash, ma il giudizio sarebbe impreciso. Come sempre quando si trova in difficoltà, Berlusconi inventa la sua realtà virtuale, e cerca di uscire dalla trappola con un volteggio da acrobata. Inventa un mondo a colori che sorprende il pubblico, genera ammirazione, suscita solidarietà nei fan.
Il berlusconismo non è semplicemente una patina di glamour su una modalità di vita. È una filosofia: una visione che mescola bugie, propaganda politica, interessi privati, fascino della ricchezza, costruzione dell'immagine, manipolazione delle opinioni. Con l'idea che in fondo, e in genere, Berlusconi siamo noi. O che dovremmo essere con lui. Che la società italiana deve accettare la mitologia creata da un capo benevolo e ferito dalla perfidia dei nemici. Di nuovo è "una storia italiana", come si intitolava l'epopea illustrata del berlusconismo.
E anche questa volta smontare l'inganno non è facile, in un paese dominato dal conformismo e dalla sicurezza tracotante con cui i media padronali e di Stato si sono impegnati a occultare la realtà.