giovedì 27 agosto 2009

Governare col culo

Qui di seguito una serie di articoli su una delle più attuali e indecenti oscenità italiote: il Governo.


L'Abruzzo delle indulgenze
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 27 Agosto 2009

La serrata polemica tra Calderoli e i vescovi arriva a toccare il fondamento storico del rapporto tra Italia e Vaticano: il Concordato. Un’impasse difficile da sciogliere anche per un abile prestigiatore come il premier. La Lega ci ripensa subito e arriva in tempo utile la nota ufficiale: il Concordato non si tocca e rimane tutto così com’è. Nei giorni scorsi lo scambio di battute tra Calderoli e i vescovi si era inasprito sui tema dell’immigrazione e la politica dei respingimenti. Nel suo manifesto antimusulmano, il ministro della semplificazione normativa ha ribadito che se l’approccio della Chiesa deve comprensibilmente ispirarsi all’amore cristiano, il governo deve agire secondo le logiche dell’efficacia e della concretezza. Rispondono Avvenire e Famiglia Cristiana con editoriali durissimi che definiscono “grottesca” la politica del Carroccio.

Del resto, rispondere agli sbarchi con un capo d’accusa è un rimedio che sarebbe doveroso definire immorale oltre che idiota. La soluzione elementare ed ecumenica proposta da Calderoli sulle diverse aree di competenza, sbriciola in un colpo la tela che da molto tempo il Vaticano tesse nelle sedi istituzionali e che va nell’opposta direzione, quella di un pressing nemmeno troppo occulto sull’Esecutivo.

Mentre la Lega persegue la maratona dell’intolleranza, suscitando le critiche durissime di mons. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio consiglio per i Migranti, il Presidente del Consiglio parteciperà alla Perdonanza dell’Aquila, sedendo a messa e a tavola con il cardinal Bertone. La separazione dalla Chiesa non conviene a nessuno, tantomeno a una maggioranza che, mai come adesso, rischia di perdere i voti cattolici.

Così se lo scenario drammatico dell’Abruzzo aveva giovato all’immagine del premier, alla sua dottrina “del fare” e ad un G8 molto cinematografico, ora diventa un’altra volta occasione preziosa per recuperare il legame raffreddato, almeno sulla stampa, con i vertici del clero.

I costumi del premier, castigati dalle pagine di Avvenire e la xenofobia a buon mercato dai leghisti qualche terremoto nei rapporti con il governo non potevano non procurarlo, di fronte ad un paese che di cultura cattolica è infarcito fin nel midollo, Ora si tratta di vedere cosa succederà per pareggiare i conti in termini di contropartite di potere e vantaggi in favore del Vaticano. Perché il rapporto tra questa maggioranza e lo Stato Pontificio s’ingrassa così.

Avrà ragione Berlusconi quando ricorda che i rapporti con la Chiesa sono quelli di sempre? Non c’é alcuna dialettica autentica, nessuna premessa di scontro, tantomeno di convergenza. Non c’è la ricerca di dividere gli ambiti e le competenze di potere, come vorrebbero farci credere Calderoli e i suoi, tantomeno un’ispirazione ai valori cristiani, piuttosto difficile da difendere quando il capo del governo si trova al centro di scandali e promesse di favori importanti con lucciole d’alto borgo. Questo metodo e questa storia non ci riguarda più. Magari dover conquistare laicità dall’ortodossia del clero cattolico, magari fosse questo il piano del ragionamento.

I nuovi patti lateranensi stanno tutti nell’elenco delle contropartite che il Vaticano chiede al governo. Pensiamo al caso Eluana Englaro, all’improvviso e anche un po’ maldestro impeto di fede di Berlusconi e all’impegno in prima fila del Ministro Sacconi; quindi all’accelerazione che il testo di legge ha subito in Parlamento a sfregio di ogni lavoro congiunto con l’opposizione e di ogni annunciata riflessione di studio. Più recente il caso della pillola RU486 e la difesa impazzita dei divieti del sottosegretario alla salute Roccella. Difesa ridicola che è tornata a rivisitare in chiave proibizionista diritti e libertà che credevamo in buona parte riconosciuti una volta per tutte con la legge 194. Da ultima – ma non sarà l’ultima - la reazione del Ministro dell’Istruzione alla sentenza del TAR sull’ora di religione nelle scuole.

Sugli immigrati si consuma un’altra battaglia che vedremo forse liquidata con moniti sulla morale dell’accoglienza e poco di più. Tutto è stato già deciso e i clandestini, rei di essere poveri o rifugiati in fuga, continueranno a morire tra le preghiere quando non saranno utilizzati a nero nelle nostre città. Utili, sono utili a tutti. La Chiesa questa volta, aldilà del “lavoro sporco” che fanno i preti impegnati nel sociale, non muoverà un dito contro questa legge. La sanatoria di colf e badanti strappata alla legge serviva a un paese intero, nessuna crociata di valori.

Nei titoli di questi giorni si respira uno scontro forte tra la Chiesa e il governo, ma è fumo ed immagine e poco ha a che vedere con una questione di morale religiosa tantomeno con una battaglia per la laicità di questo Paese. La Chiesa lascia passare la legge sui clandestini che interessa meno i poteri forti e si prepara a chiedere il conto sulle donne di questo paese e negli ospedali. Nei luoghi della sofferenza esistenziale, la grande cassaforte del prestigio culturale del clero.

Mentre il domino del do ut des prosegue, Berlusconi va in confessionale a sciacquarsi la coscienza, in una sede di sicuro impatto mediatico, a riabilitare una vita un po’ troppo sopra le righe per poter non essere pubblicamente ammonita. L’Abruzzo aspetta il premier e la scena che vedremo sarà quella di un nuovo sodalizio con il clero, alleanza di poteri. La sensazione è che l’indulgenza del perdono di lontana memoria avrà un prezzo alto e che lo pagheremo tutti.


La vera partita dell'autunno
di Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera - 27 Agosto 2009

E così, annunciando il suo impegno per modifi­care la legge sul fine vita, Gianfranco Fini scende dal cielo della guerra culturale e promette di ingaggiare una lotta politica durissima.

Dalla nicchia minoritaria allo scontro aperto. Dalle stanze ovattate di una Fondazione alla durezza del voto. Con il discorso di Fini a Genova finisce nel centrodestra l’era della monarchia assoluta. Non è detto che Fini vinca. Ma non è detto che alla fine il Pdl resti un corpo granitico e inamovibile dietro al suo (attuale) Re. Fini dichiara a Genova che lui («non ho il dono della fede») non ce l’ha con i cattolici, ma con i «clericali».

Il bersaglio è evidente: ce l’ha con buona parte del suo partito. Se vuole tratteggiare una figura di cattolico che risponde alla sua coscienza, cita provocatoriamente Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, espressioni di un cattolicesimo democratico storicamente molto aperto alle ragioni della sinistra. Non Baget Bozzo, ma Elia e Scoppola, tanto per radicalizzare la portata del suo strappo.

È solo il caso di ricordare che Scoppola fu, al tempo del referendum sul divorzio, uno degli animatori dei «cattolici del no». Dei cattolici che dissero «no» agli imperativi della Chiesa di Paolo VI, mica di un Pontefice conservatore. Tanti anni fa. Gli anni delle contrapposizioni ideologiche che pure plasmarono il giovane Fini negli abiti della destra almirantiana, ma che oggi Fini ricorda con il distacco che si riserva alla preistoria e ai dinosauri. «Destra» e «sinistra», ha detto Fini, così come sono non dicono più niente a chi oggi ha gli anni (già venti) che ci separano dalla caduta del muro di Berlino.

Il presidente della Camera risponde così a chi lo accusa di voler «tradire» la sua storia di destra: dicendo di considerarla vecchia, superata, sorpassata, incapace di comunicare alcunché a chi, per privilegio di anagrafe, non l’ha vissuta in prima persona. Fini è stato applaudito a Genova dalla platea del Pd che lo ospitava. Ma tra i ferrivecchi della politica, se la cortesia istituzionale e il garbo dell’ospite non gliel’avessero impedito, Fini avrebbe volentieri incluso la «sinistra» che si riconosce nel Partito democratico.

Sa di piacere ai suoi avversari perché sulla laicità e sull’immigrazione parla con un linguaggio a loro più familiare. Ma sa che la partita vera si gioca all’interno del centrodestra di cui Fini si sente parte ma che considera prigioniero se non succube («una fotocopia») della Lega, soffocato dal «clericalismo», incapace di guardare al futuro, troppo soddisfatto di sé nel lucrare sulle proprie rendite di posizione.

Finora questa estraneità sempre più accentuata Fini l’ha espressa attraverso distinguo, punzecchiature, proclami a difesa del Parlamento, soprassalti d’orgoglio durante la visita di Gheddafi accolto da tutti (ma non da lui) con esuberante ospitalità. Da oggi diventa arma politica esplicita, battaglia ingaggiata contro l’attuale assetto politico-culturale della maggioranza.

Le parole più dure Fini le ha sì riservate alla questione dell’immigrazione (ha evocato l’ombra della «xenofobia», e persino quella della tentazione «razzista») nonché all’identità culturale della Lega, ma è sul testamento biologico che partirà la sua campagna d’autunno. È vero che, in tema di immigrazione, si impegnerà nella proposta di una legge che dia la cittadinanza agli immigrati regolari dopo cinque anni, già bollata da autorevoli esponenti della maggioranza (come Maurizio Gasparri) come irricevibile.

Ma intanto la legge sulla sicurezza c’è, non si può tornare indietro e inoltre Fini si attribuisce il merito di averla ripulita dalla norma sui cosiddetti «medici-spia». Il terreno ancora aperto è invece quello che ha al suo centro la legge sul «fine vita». Fini può contare su un malumore diffuso anche nel centrodestra. Può contare sulla sponda del Pdl. E anche su un clima collettivo meno arroventato di quello che infiammò l’opinione pubblica all’acme del caso Englaro.

È il terreno più propizio per marcare una differenza più spiccata con l’attuale maggioranza e per strappare una vittoria che lo sottrarrebbe al ruolo scomodo del testimone di minoranza, coraggioso ma irrilevante. Per la prima volta il Pdl dovrà misurarsi con un dissenso aperto, non con una dichiarazione estemporanea destinata a lasciarsi inghiottire dall’ordinaria amministrazione. La fine di un’abitudine monarchica, appunto. Per il centrodestra, quasi una rivoluzione.


Il totalitarismo antropologico di Berlusconi

di Massimo Fini - www.massimofini.it - 25 Agosto 2009

Ma è mai possibile che ogni santo giorno che Dio manda in terra, il nostro presidente del Consiglio ponga dei problemi al Paese, invece di risolverli? Una settimana fa, di ritorno dalla Turchia, aveva affermato che le critiche dei media italiani a lui e al suo governo «hanno fatto male all’Italia e hanno qualificato gli autori come anti-italiani».

E aveva aggiunto: «Il TG3 è l’unica televisione al mondo che, con i soldi di tutti, attacca il governo. Credo che sia una cosa che non dobbiamo e non possiamo sopportare. Io vorrei che il mandato del servizio pubblico fosse di non attaccare né governanti né opposizione». Dichiarazioni ribadite quattro giorni fa al GRI (tra l’altro: una immediata smentita dal suo stesso assunto) con l’aggiunta dell’accusa al quotidiano La Repubblica di fare un «giornalismo deviato».

Forse l’onorevole Berlusconi farebbe meglio a chiedersi se a «far male all’Italia», all’immagine del nostro Paese, non siano piuttosto i suoi comportamenti, pubblici e privati, visti gli attacchi durissimi o i sarcasmi di mezza stampa mondiale, di ogni colore.

Ricordiamola (repetita juvant): Financial Times, Daily Telegraph, The New York Times, Wall Street Journal, Herald Tribune, The Guardian, l’Express, Le Monde, El Pais, El Mundo, Tagespiel, Vremie Novosti, Youmuri Shombun, cui si è aggiunta da ultimo anche Vanity Fair americano che ha definito il premier italiano «una barzelletta». Ma sarebbe inutile chiedere a Berlusconi di farsi simili domande, risponderebbe che si tratta di un «complotto»: dei comunisti, di Murdoch o di chissà chi.

Se ogni critica al premier o al suo governo è un comportamento «anti-italiano» ciò significa semplicemente che il premier e il suo governo non possono essere criticati. Berlusconi, che si presenta come il campione del liberalismo, non si rende conto di avere un atteggiamento stalinista e di usare un linguaggio stalinista.

Nell’Urss di Stalin, di Kruscev, di Breznev chiunque criticasse l’establishement era bollato come «nemico, oggettivamente, dell’Unione Sovietica e antipatriota» e veniva fucilato o, in quanto «deviante», rinchiuso in manicomio. Nell’Italia del 2000 si usano altri mezzi. Non si sopprimono i «devianti», ma le loro voci. È capitato a Luttazzi, a Biagi, a Freccero, a Sabina Guzzanti, a tanti altri fra cui anch’io, sebbene il mio caso non abbia suscitato clamore perché, non appartenendo a nessuna delle due bande, né a quella di Berlusconiana né a quella di sinistra, nessuno ha ritenuto che valesse la pena difendermi.

Del tutto assurda è l’idea che la Rai-Tv, in quanto servizio pubblico, non debba e non possa criticare né il governo né l’opposizione. Che cosa dovrebbe fare? Limitarsi a dare le informazioni meteo e a ricopiare la Gazzetta Ufficiale? E a quei tanti che, pagando anch’essi il servizio pubblico, non si identificano né nel governo né nell’opposizione, che gli facciamo?
Il fatto è che Silvio Berlusconi è un liberista (finché gli comoda, quando non gli fa comodo diventa un oligopolista) ma non è un liberale. Non conosce nemmeno i presupposti della liberaldemocrazia, dove la libertà di espressione e di critica è sacra, come stabilisce anche la nostra Costituzione all’articolo 21, e non conosce né limiti né «devianze», se non nel codice penale (diffamazione, offese al buon costume).

Berlusconi, oltre che un prepotente e, sostanzialmente, un violento (altro che presentarsi come leader dei «moderati») un narciso, un egocentrico, uno totalmente autoriferito, è un totalitario antropologico. È totalitario nella testa. Non concepisce che si possa pensarla diversamente da lui. Non concepisce che ci possano essere degli avversari. Era da poco diventato presidente del Milan che disse: «Non capisco perché a San Siro debbano venire anche i tifosi delle altre squadre, togliendo il posto ai nostri». In quella frase c’è già tutto Berlusconi.



L'assalto finale al fortino di RaiTre
di Curzio Maltese - La Repubblica - 27 Agosto 2009

Gli attuali direttori di Tg3 e RaiTre, Antonio Di Bella e Paolo Ruffini, sono ritenuti da tutti ottimi professionisti, fra i migliori della Rai. Hanno ottenuto del resto, sia in qualità che in quantità d'ascolti, molti eccellenti risultati. Tranne l'unico che conti nell'Italia di oggi: piacere a Berlusconi. Per questo il sultano ha dato ai vertici di viale Mazzini l'ordine di farli fuori, trovando una scusa. Compito non facile, perché di ragioni davvero non ce ne sono. Ma quando non esistono spiegazioni logiche, di solito basta inventarsi un complotto e un colpevole.

I vertici Rai, che invece non brillano né per doti professionali né per fantasia, hanno infine convenuto d'indicare all'opinione pubblica il colpevole più banale: la sinistra. È ormai come dire che l'assassino è il maggiordomo, ma funziona sempre. Sarebbe il Pd a volere il caos della terza rete per poter lottizzare dopo il congresso, secondo il volere del vincitore. L'ipotesi sembra troppo cretina perfino per gli elevati standard di autolesionismo del centrosinistra. Ma Antonio Di Pietro, per esempio, ci crede e dà una mano ad addossare alla sinistra la colpa dell'epurazione voluta da Berlusconi.

Naturalmente ai tre candidati alla segreteria del Pd, Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, basterebbero dieci minuti per smontare la vicenda. Il tempo di prendersi un caffè insieme e annunciare il via libera alle nomine di RaiTre. Ma evidentemente i tre non sono in grado di prendere insieme neppure un caffè, oppure non capiscono la portata della minaccia.

Nel mirino di Berlusconi non ci sono tanto questa o quella poltrona Rai, le ha già quasi tutte. Se così fosse, non varrebbe neppure la pena di parlarne. Ma al premier interessa piuttosto eliminare un gruppo di programmi amati e, per lui, pericolosi. Si tratta anzitutto di "Che tempo che fa" di Fabio Fazio e di "Report" di Milena Gabanelli, fiori all'occhiello della rete, quindi dei salotti di Serena Dandini e di Daria Bignardi, "Parla con me" e "L'era glaciale".

Un bouquet di trasmissioni che ha molti meriti o demeriti, dipende dai punti di vista. Riescono a coniugare qualità e popolarità, danno un senso al concetto di servizio pubblico e tengono attaccato alla Rai un pezzo d'Italia moderna e intelligente, assai ambita dai pubblicitari, la quale altrimenti sarebbe già del tutto emigrata sul satellite. L'obiettivo del premier e padrone di Mediaset è di cancellarli. Stavolta con calma, senza editti, lavorando di cesello sul palinsesto e tagliando i fondi.

Il direttore Ruffini, degno erede di Angelo Guglielmi, non accetterebbe mai di sottoscrivere una simile sterilizzazione della rete. Occorre dunque uno spaventapasseri di sinistra disposto alla bisogna, in cambio della poltrona. Se ne trovano a mazzi, basta fare un fischio e si forma la coda davanti a Palazzo Grazioli. I nuovi direttori di Tg3 e RaiTre faranno tanti complimenti a Fazio e Gabanelli, Littizzetto e Dandini, ma diranno che è venuto il tempo di cambiare, innovare. In peggio, aggiungiamo pure.

Può stupire che Berlusconi, con tutto il potere di cui dispone, si concentri su questa battaglia. Ma il risultato alle elezioni europee di giugno l'ha ormai convinto che anche le riserve indiane debbano essere bonificate e gli ultimi professionisti della comunicazione vadano sostituiti con burattini pubblicitari manovrati da Palazzo Chigi.

Il piano d'assalto all'ultima roccaforte indipendente dall'egemonia berlusconiana è astuto e probabilmente andrà in porto. A meno che Franceschini, Bersani e Marino non trovino quei dieci minuti per disinnescarlo. Ma sono troppo impegnati a discutere sulla forma del partito e il suo radicamento nel territorio. L'ipotesi che l'attuale RaiTre sia ormai il principale radicamento nel territorio della cultura progressista in Italia sopraggiungerà soltanto fra qualche anno, come si dice in questi casi: a babbo morto.


L'altolà di Berlusconi al Carroccio "Non voglio fratture con la Chiesa"
di Francesco Bei - La Repubblica - 27 Agosto 2009

Al culmine di una settimane di attacchi leghisti ai vescovi e di polemiche tra il Carroccio e il Vaticano, Silvio Berlusconi, sempre più irritato per una grana che si sta ingrossando oltre il previsto, ha deciso di richiamare all'ordine l'alleato di governo. "In Italia si può andare allo scontro con tutti, tranne che con la Chiesa". Così il premier, che ha trascorso l'ultima giornata di ferie ad Arcore (oggi è previsto il rientro a Roma), ha fatto un giro di telefonate ai ministri leghisti chiedendo spiegazioni sull'ultima sparata della Padania, su cui non era davvero possibile far finta di niente: la revisione del Concordato e dei patti lateranensi, come vendetta per le presunte "ingerenze" della Chiesa in materia di immigrazione.

Davvero un bel biglietto da visita per facilitare l'incontro con il segretario di Stato vaticano, il cardinal Tarcisio Bertone, che il Cavaliere vedrà a cena domani sera a l'Aquila insieme a Gianni Letta, Mara Carfagna e Gianfranco Rotondi. Incontro a lungo cercato da palazzo Chigi, tassello fondamentale di quel riavvicinamento tra Berlusconi e le alte sfere vaticane che il sottosegretario Letta sta cercando da tempo, impegnato ogni giorno a rassicurare i suoi interlocutori Oltretevere.

Un lavoro che rischiava di andare a monte, senza contare il disagio sempre più forte che sale dall'ala cattolica del Pdl, che supplica da giorni il Cavaliere - attraverso il solito Letta - di spendersi in prima persona per dare un altolà all'alleato. Il fatto è che, almeno così raccontano nel Pdl, stavolta in casa leghista davvero nessuno voleva assumersi la paternità di quell'attacco della Padania al Vaticano e lo stesso Bossi, informato delle polemiche in arrivo, ha tranquillizzato il capo del governo: "Io non c'entro niente con quella iniziativa della Padania". E subito dopo ha dato via libera ai due capigruppo leghisti per una secca presa di distanze dal quotidiano di partito.

"I rapporti con la Lega restano eccellenti, sono solo chiacchiere di mezzo agosto che servono per riempire i giornali", minimizza il portavoce del premier Paolo Bonaiuti. Per il ciellino Maurizio Lupi l'intera vicenda "dimostra che il Pdl è un grande partito nazionale moderato, che rappresenta un punto di mediazione per tutti". Ma nel governo ormai sono in molti a dire a mezza bocca che il rapporto tra Berlusconi e Bossi abbia bisogno di un "drizzone" - a partire dal nodo delle regionali e dall'alleanza con l'Udc - e per questo si spera nel faccia a faccia che i due dovrebbero avere al ritorno del premier da Danzica la prossima settimana.

Persino la riunione del Consiglio dei ministri, che si sarebbe dovuta tenere domani, sembra sia slittata perché il Cavaliere si era impegnato a dare risposte concrete a Napolitano sulle iniziative per il 150esimo dell'unità d'Italia, ma c'era il timore di nuove sparate dei leghisti.

Un conto tuttavia è il capo dello Stato, un conto è prendere di petto il Vaticano. "Andare a uno scontro frontale con la Chiesa non è mai una buona idea - ripete preoccupato un ministro del Pdl dando voce al timore di tanti della maggioranza - , questi leghisti si dovrebbero ricordare che la crisi di Prodi è iniziata quando hanno cominciato a parlare dei Dico".

Tra i consiglieri del premier c'è la sensazione che la partita con il mondo cattolico si stia facendo più complicata, nonostante i rapporti con Bagnasco e Bertone restino cordiali. Un cattolico non integralista come il ministro Rotondi, che domani accompagnerà Berlusconi da Bertone, ricorda i tempi in cui lavorava con Rocco Buttiglione nel Cdu: "Giovanni Paolo II lo stimava e lo sosteneva in tutti i modi, ma nel '96 la Chiesa, le parrocchie intendo, stavano con l'Ulivo".

E con il Carroccio alla ripresa saranno dolori. Anche i finiani si stanno attrezzando per rispondere all'offensiva leghista. Persino su un terreno minato come quello dell'immigrazione clandestina non si fanno scrupoli e chiedono al governo un "ripensamento". "Il reato di clandestinità è sbagliato - anticipa il finiano Fabio Granata - Alfano e Maroni abbiano il coraggio di cambiare strada".


Questione di culo
da bamboccioni alla riscossa - 27 Agosto 2009

Dopo un anno di statistiche sulla popolarità del premier Berlusconi e del governo Berlusconi, qualcuno - sempre in “casa” Berlusconi - ha pensato bene di cambiare genere. Facendo un sondaggio - letteralmente, e ci si passi il termine - col culo. Anzi coi culi di alcune giovani fanciulle. Titolo: “Il lato B che fa la differenza”. Autore: il Tgcom, cioè il sito internet dei tiggì Mediaset, che ha chiesto ai suoi lettori di votare il fondoschiena “da urlo” dell’estate 2009. Vincitrice a furor, è proprio il caso di dirlo, di popolo: il ministro per la Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini. Che - grazie alla passione per la spiaggia e una abbacinante foto in bikini - ha potuto mettere in mostra il suo lato migliore. Fisicamente parlando, s’intende.

Certo: il ministro - 36 anni appena compiuti e un sedere tonico e rotondo - ha dovuto sudare sette camicie per conquistare la palma del deretano più amato dagli italiani. Ma alla fine ce l’ha fatta. Come ha scritto oggi... in tono (quasi) trionfale il quotidiano berlusconiano “Il Giornale” (quello dell’editore Berlusconi Paolo, fratello con più capelli, ma forse meno cervello del più noto Berlusconi Silvio): Gelmini ha battuto tutte le altre agguerritissime concorrenti conquistando il 30% dei voti.

Staccando di ben 7 punti la seconda classificata, la modella polacca Ania Goledzinowska (23%). E mettendo in riga anche la ex letterina, Alessia Fabiani (22%) e la soubrette Sara Tommasi (14%). Quinta classificata: la (presunta) “pupa” napoletana del padre padrone di Mediaset, Noemi Letizia. Che però - a soli diciott’anni - ha tutto il tempo per rifarsi da questa prima delusione professionale (se così si può dire).

Numeri a parte, la vittoria del ministro non stupisce più di tanto. Perchè nella vita di Mariastella Gelmini - per quel poco che è dato di sapere a lettori ed elettori - quel benedetto “lato B” ha sempre avuto una parte importante. Per lo meno in senso lato e metaforico. Fortuna e coincidenze, infatti, hanno sempre giocato a suo favore. Come nel 2001, quando da neolaureata in legge avrebbe dovuto dare l’esame da avvocato nella natia Brescia, dove l’anno prima una pattuglia di commissari feroci aveva stangato quasi il 70% dei candidati.

Avrebbe dovuto, dicevamo. Perchè - va da sè, per pura coincidenza (e come raccontò Gian Antonio Stella sulle pagine del “Corriere”) - la ministra che avrebbe fatto del merito e dello studio matto e disperatissimo le sue parole d’ordine, allora ebbe l’inusuale opportunità di prendere la residenza a Reggio Calabria. Luogo, certo, un tantino lontano da casa. Ma dove i promossi erano il 90%. Ministro - che passò l’esame - compreso. Il colpo di fortuna più grosso, per il ministro dal sedere portentoso, però arrivò solo qualche anno dopo, e precisamente nel 2005. Quando l’allora 32enne Gelmini - che all’epoca era assessore provinciale all’Agricoltura in terra bresciana - ebbe l’occassione davvero d’oro di mettere a frutto un’amicizia di quelle che contano: quella con il giardiniere di Berlusconi, al secolo Giacomo Tiraboschi. Che appunto, in una tranquilla serata di 4 anni fa, la presentò - aumma aumma - al Cavaliere. Che - come è noto - è un grande appassionato di cactus. E che - cosa meno nota - deve dare un certo peso a chi i cactus glieli cura.

Nessuno sa cosa accadde quella sera. Neppure quel maligno di un giornalista de “La Repubblica” - al secolo Sebastiano Messina - che rivelò a lettori ed elettori la potenza del giardiniere di Arcore. Ma si sa bene cosa accadde dopo. In 3 mesi la giovanissima Mariastella diventò coordinatrice regionale di Forza Italia in Lombardia. In tre anni ministro. Un’ascesa fatta con una rapidità - altro aggettivo per definirla non c’è - incredibile. Talmente incredibile che da allora - dalla nomina della bresciana neo-regina del lato “B” a ministro dell’educazione dei figli degli italiani - i maligni hanno preso a malignare. Qualcuno ha perfino accostato il suo nome a (presunte, anzi presuntissime) intercettazioni boccaccesche, con protagoniste ministre disinibite e disponibili ai voleri del capobottega. Solo fantasie - ovviamente - di chi alla fortuna “imperatrix mundi” proprio non vuole arrendersi.

La realtà, però, è che non tutti sono fortunati come Mariastella Gelmini che - a soli 36 anni - è riuscita a piazzare il suo meraviglioso popò sulla poltrona di ministro che fu prima di lei di filosofi del calibro di Giovanni Gentile e Benedetto Croce. Non lo sono stati - fortunati - per esempio i suoi attuali dipendenti. Cioè quegli insegnanti e tecnici precari che - quest’anno; causa innumerevoli tagli (raccontati per filo e per segno dal blog “Ascuoladibugie”) - rischiano di rimanere senza uno straccio di posto e stipendio. E allora? E allora, d’accordo: forse la scuola dell’ex Belpaese - che vanta più bidelli che carabinieri - sarà anche un mezzo stipendificio. Ma il compito di disboscare non lo si poteva dare a un ministro con un lato “B” un tantino meno sviluppato? Non per altro. E’ che va bene la fortuna. E vanno bene anche i concorsi per i sederini famosi. Ma il rischio è che qualcuno si possa sentire un tantino preso per i fondelli.


Le vostre tasse all'opera
di While - byteliberi - 25 Agosto 2009

Nel mese di luglio 2009 si è registrato un fabbisogno del settore statale pari, in via provvisoria, a circa 4 miliardi, rispetto a un saldo positivo di 1.67 miliardi realizzato nel mese di luglio del 2008. Lo comunica il Tesoro, aggiungendo che nei primi sette mesi del 2009 si è registrato complessivamente un fabbisogno di circa 53,6 miliardi, superiore di circa 31,3 miliardi a quello dell’analogo periodo 2008 pari a 22,3 miliardi. (Sole24Ore)

Capito bene? Lo Stato italiano durante questi mesi di Governo Berlusconi ha sperperato ben 31,3 miliardi di euro in più rispetto al precedente esecutivo.

Dove sta il Ministro tascabile Renato Brunetta? Quell’omino piccolo piccolo che per mesi e mesi ci ha fracassato le ghiandole genitali con la sua “rivoluzione totale”. Quello strano personaggio tanto amato dai berlusconiani ma che altro non è che uno spot vivente, l’assenteista contro l’assenteismo… dov’è ora che apprendiamo questi sconvolgenti dati?

Sarà nel salotto di qualche trasmissione a vantarsi del nulla, coperto dalla fitta nebbia di media asserviti. Probabilmente in questo momento gli staranno rivolgendo una domanda preparata e cucinata appuntino per la sua falsa propaganda.

Torniamo però ai dati della spesa pubblica, perché grazie ad essi si capisce come Berlusconi non sia per niente scemo. Oltre a vincere facilmente per le tante ragioni note, il pluriprescritto sa che per vincere bisogna spendere. Governa da un anno, e da un anno la spesa pubblica “corrente”, cioè quella che l’Italia mette nelle tasche dei tanti statali è cresciuta esponenzialmente.

Solo per il fatto che si tratta di spesa “corrente” dovremmo strapparci i capelli. Questo perché include solo i soldi che alleviano il presente ma non costruiscono il futuro. Sul futuro infatti la spesa pubblica diventa avara, avarissima. Non sono soldi per fare ponti, strade, laboratori, aziende. No, è cash uscito dal portafoglio pubblico e destinato ai privati portafogli. Un investimento a corto raggio per oliare bene la macchina raccogli-voti.

Estratto:

Quattro dei ventuno miliardi di spesa aggiuntiva hanno avuto la forma di stipendi: più stipendi e stipendi aumentati, quelli pubblici. Da 171 a 175 miliardi la spesa per stipendi tra il 2008 e il 2009. Scontiamone due per dinamica inflattiva, ne restano tre proprio di maggior spesa. Berlusconi e il suo governo dunque per gli stipendi pubblici hanno speso di più di prima.

Altri cinque dei ventuno sono di maggior spesa per “consumi intermedi”, cioè quello che l’Amministrazione Pubblica spende per funzionare. Sono soldi che vanno ai fornitori, alle aziende, ai professionisti. Da 128 a 133 miliardi tra il 2008 e il 2009. Nonostante i lamentati, programmati e annunciati tagli, tre miliardi al netto dell’inflazione spesi in più dalla mano pubblica per pagare aziende e imprese.

Nove miliardi in più di spesa per le pensioni: da 223 a 232. Diciamo che qui il governo non c’entra: aumentano i pensionati e aumenta la spesa. Ma il governo c’entra eccome nei quattro più quattro miliardi in più di spesa per “altre prestazioni sociali” (da 54 a 58) e per “altre spese correnti” (da 57 a 61). Rileggiamo: quattro, più cinque, più nove, più quattro, più quattro fa 26 miliardi di spesa aggiuntiva. E allora perché 21? Perché cinque miliardi il governo li ha guadagnati spendendo di meno per pagare gli interessi sul debito (effetto calo dei tassi). Somma e sottrai, fanno appunto 21 miliardi immessi nelle tasche degli italiani.

Quali italiani e soprattutto come? A Palermo quasi 230 milioni di euro per pagare i debiti e gli stipendi della municipalizzata che male pulisce la città ma molta gente impiega e remunera. A Catania 150 milioni per mantenere in piedi la rete di assunzioni e iniziative che avevano portato il Comune alla bancarotta. A Roma 500 milioni per pagare, tra l’altro, l’inefficiente sistema di trasporti urbano. E 14 milioni a Parma per l’Autorità europea della sicurezza alimentare e 12 milioni per la società di navigazione dei laghi Como, Maggiore e Garda. E 49 milioni per la Tirrenia che è l’Alitalia del mare, anzi peggio. Sono solo esempi, maglie di una rete che avvolge tutta la penisola. Una rete di spesa che tiene in piedi molte cose: aziende, stipendi, consulenze, consenso e governo.


PEC: sia fatta la volontà del ministro
di Guido Scorza - guidoscorza - 20 Agosto 2009

Negli ultimi mesi mi sono ritrovato spesso a parlare (non solo ma in buona compagnia) della malsana idea del Ministro Brunetta di regalare a tutti i cittadini a spese di tutti i cittadini un indirizzo di posta elettronica certificata producendo, peraltro, effetti dirompenti sul mercato (che non c’è data la scarsa utilità dello strumento!) delle comunicazioni elettroniche certificate per un verso saturandolo e, per altro verso, consegnandolo nelle mani di due soli operatori sostanzialmente predestinati: PosteCert ed Infocert rispettivamente per i servizi di posta elettronica certificata per i cittadini e per quelli alle imprese.

Ripercorrere l’intera storia mi sembra inutile ma chi non l’avesse seguita dall’inizio, volendo ne trova un riassunto nel video di chiusura di questo post ed alcuni approfondimenti (peraltro non esaustivi di quanto sin qui è stato scritto sulla vicenda) in questa breve weblografia:

- Cittadini Internet: un’ampia rassegna di informazioni e riflessioni sull’argomento

- Pane e Pec per tutti, Punto Informatico: un mio pezzo con alcune riflessioni-profezia

- Il blog di Marco Scialdone: molti interessanti post sull’argomento

- PEC-ché?, Punto informatico, un bel pezzo di Andrea Lisi e Luigi Foglia

- PEC gratis: tutta la verità, Tech Pro, Francesco Forestiero

- Alcuni post su questo blog: 1-2-3-4 (ne segnalo solo alcuni ma se non vi bastano ne trovate altri…ho dimenticato di taggare!).

[ANNUNCIO DI SERVIZIO: Ovviamente dimentico molto e molti ma se mi segnalate le dimenticanze - senza esitazioni né false modestie - le inserisco in tempo quasi reale].

L’epilogo della vicenda (o il quasi-epilogo) è rappresentato dalla pubblicazione - della quale mi ha dato con la consueta tempestività notizia Massimo Penco - nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del Bando di gara per la concessione del servizio avvenuta lo scorso 5 agosto (e addirittura il 12 su quella italiana!) con termine per la presentazione delle offerte al 9 settembre (c’è periodo migliore per garantirsi una bassa audience ed una scarsa partecipazione?).

Nei prossimi giorni credo sarà indispensabile farsi coraggio ed esaminare più da vicino i documenti di gara (si possono chiamare così anche quando contengono già i nomi del vincitore?), interessarne le competenti istituzioni europee (che peraltro stanno già seguendo l’evolversi degli eventi su segnalazione di Cittadini Internet) e prepararsi, eventualmente, ad agire dinanzi al Giudice amministrativo ed alla nostra Autorità Antitrust ma, frattanto, mi sembra importante iniziare a parlarne - sebbene ad agosto abbiamo tutti di meglio da fare come evidentemente noto alla regia di questa brutta storia italiana - evidenziando da subito alcuni profili che rendono il bando di gara un’autentica presa in giro.

Uno su tutti: come già anticipato - ma all’epoca si trattava di un’ipotesi - l’aggiudicatario dovrà possedere una “Rete di sportelli fisici in grado di assicurare un punto di accesso in almeno l’80% dei comuni italiani con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti, con orario di apertura al pubblico, dal lunedì al sabato, 9.00-13.00″.

Poste italiane certamente ne dispone. Conoscete altri soggetti attivi nel mercato delle comunicazioni elettroniche che possano dire altrettanto?

Come giustamente mi segnala Massimo (Penco) inoltre il bando richiede che l’aggiudicatario sia iscritto nell’elenco di cui all’art. 14 del D.P.R. 68/2005 dimenticando, tuttavia, la previsione di cui al successivo art. 15 del medesimo provvedimento che estendeva la possibilità di erogare servizi di posta elettronica certificata anche ad imprese stabilite in altri Paesi dell’Unione Europea.

A Bruxelles piacerà questa disposizione vagamente nazionalista e restrittiva?

Si tratta, tutto sommato, di un affare da 50 milioni di euro!

Il bando, inoltre, richiede espressamente ai partecipanti (saranno tanti? ;)) di evidenziare nell’offerta eventuali servizi accessori che intendessero offrire, a titolo oneroso, ai cittadini ai quali la PA “regalerà” (non sarà ingannevole parlare di regalo quando tutti i cittadini si pagheranno il servizio con la finanza pubblica ed anzi la maggior parte degli italiani lo pagherà a quei pochi che ne faranno richiesta?) la posta elettronica certificata.

Con questa previsione un’altra delle peggiori profezie dei mesi scorsi si è avverata: non solo si regala - in questo caso il verbo è certamente utilizzato a ragion veduta - ad un solo operatore un mercato da 50 milioni di euro ma gli si consegna altresì la possibilità di realizzarci sopra - utilizzando la posizione dominante “conquistata” all’esito della gara - fior fiore di quattrini in corrispettivi di servizi accessori dei quali difficilmente gli utenti dei servizi di posta elettronica certificata di base sapranno fare a meno.

Un’ultima questione - per il momento - che mi era francamente sfuggita e che ha francamente del ridicolo: la PEC che Brunetta “regalerà” - nel senso appena chiarito di “obbligare a comprare”- a tutti i cittadini italiani sarà utilizzabile per le sole comunicazioni tra PA e cittadino con la conseguenza che per tutte le altre comunicazioni i cittadini dovranno comprarsi un’altra PEC o magari pagare al concessionario di Stato un corrispettivo ulteriore a fronte della possibilità di utilizzarla anche per comunicazioni ulteriori!.

Una domanda per il Ministro Brunetta: questa secondo Lei è innovazione?

Ci vuole poca fantasia ad immaginare che la limitazione d’uso sia stata suggerita al Ministro - troppo intelligente e e pragmatico per partorire una simile idiozia - da un solerte consulente che ha inteso con ciò contenere l’impatto anticoncorrenziale dell’iniziativa ma, francamente, è meglio distruggere un mercato in nome dell’innovazione (vera) che distruggerlo comunque - sebbene nascondendosi dietro ad un dito - in nome di un’evidente non innovazione: come dire che lo Stato regala a tutti i cittadini una penna per firmare le istanze rivolte alla PA ma che poi devono comprarsene un’altra - o pagare l’inchiostro extra consumato - se vogliono usare la penna anche per firmare un assegno!

Se ci riuscite fate una pausa e, magari da sotto l’ombrellone, parlatene, scrivetene, parliamone: sono soldi nostri e, quel che è peggio, è l’innovazione del e nel nostro Paese che si stanno spartendo!