Domani si vota in Afghanistan e, dopo i 18 morti di ieri, oggi a Kabul l'attacco armato alla Pashtani Bank e una bomba al mercato hanno già causato otto vittime. Alle quali vanno aggiunti altri quattro poliziotti afghani uccisi dal fuoco "amico" degli elicotteri Nato nella provincia di Ghazni e due funzionari elettorali morti in un attentato dinamitardo nella provincia di Kandahar.
In tutta risposta il governo afghano ha avuto la "geniale" idea di introdurre la censura sull'informazione riguardante attacchi o attentati fra le 6 e le 20 di domani per non "allarmare" gli elettori. I giornalisti stranieri che daranno notizia di attentati verranno espulsi dal Paese, mentre le testate locali saranno chiuse.
Complimenti, questa sì che è vera democrazia...
Ciò è quanto si registra nel democratico Afghanistan a 24 ore dal voto.
In Iraq invece le cose non stanno andando molto diversamente...
Nel Gennaio prossimo si dovrebbe votare per le elezioni politiche e forse anche per due referendum, uno sul cosidetto SOFA fra Stati Uniti e Iraq e l'altro sugli emendamenti alla Costituzione.
Ebbene, si può ben dire che la campagna elettorale è ufficialmente iniziata oggi: almeno 75 morti e oltre 300 feriti è il bilancio provvisorio di 6 attentati che hanno colpito Baghdad.
Il primo scoppio è avvenuto con un camion imbottito di esplosivo nei pressi della sede del ministero degli Esteri.
Un secondo camion bomba è poi esploso nei pressi del ministero dell'Economia, causando grandi devastazioni anche agli edifici vicini, compreso l'Hotel Rashid.
Un terzo ordigno è stato fatto detonare lungo Kifa Street, un quarto nel quartiere di Salhiya e altri due a Beirut Square nella parte orientale della città. Oltre alle bombe sono stati sparati anche due colpi di mortaio contro la superblindata Zona verde.
Finora non ci sono state rivendicazioni, ma il portavoce del comando delle operazioni di sicurezza a Baghdad, il generale Qassim Atta, ha attribuito la responsabilità "all'alleanza" tra la cosiddetta Al Qaeda e i membri del disciolto partito Baath di Saddam Hussein.
Mah, se lo dice lui...
Comunque proprio oggi ricorre il sesto anniversario dell'attentato che il 19 agosto 2003 investì la sede delle Nazioni Unite a Baghdad, causando la morte di 22 persone tra cui l'inviato speciale del segretario generale dell'Onu, Sergio Vieira de Mello.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Tigri, ma a Baghdad il tempo continua sempre a combaciare col timer delle bombe.
Afghanistan, più delusione che paura. Gli scenari del dopo voto
di Andrea Nicastro - Il Corriere della sera - 19 Agosto 2009
Che cosa accade fra due giorni in Afghanistan? Vincono i talebani obbligando la gente a non votare? Rivince (e convince) Karzai? E se invece qualcuno gridasse ai brogli? C’è la possibilità che Kabul si infiammi in un tutti contro tutti visto tante volte? E se, contro i pronostici, Karzai perdesse? Uno dei pochi ad avere la competenza per leggere nella sfera di cristallo dell'Afghanistan è Antonio Giustozzi, un «cervello» italiano fuggito all’estero. Ricercatore alla London School of Economics, 42 anni, Giustozzi è tra i più ascoltati esperti di cose afghane. I suoi saggi sono regolarmente saccheggiati dai think tank governativi per dare a politici e diplomatici le coordinate del mare afghano.
Vincono i talebani
«La leadership talebana — sostiene Giustozzi — non è direttamente entrata in gara. Le dichiarazioni, le minacce, gli attentati sono il minimo che potessero fare. Di fatto, però, hanno lasciato ampio spazio di manovra ai singoli comandanti. Questo senz’altro per un problema interno di frammentazione: ci sono i talebani vicini ad Al Qaeda ideologicamente contrari al voto e ce ne sono di più pragmatici.
Ma se il gruppo di comando centrale avesse voluto chiudere i seggi nelle vaste aree sotto il suo controllo, avrebbe potuto farlo facilmente. Invece ha permesso che alcuni leader trattassero con la famiglia Karzai una tregua ben remunerata per il giorno delle elezioni. Ad altri è stato permesso di vendere pacchetti di voti. Ci sono addirittura comandanti talebani che fanno campagna per Ashraf Ghani — il candidato più filo-americano, ndr —. Per questo la bassa affluenza non dovrà essere letta come vittoria talebana. Se pochi andranno a votare sarà soprattutto per la delusione nei confronti del governo e della ricostruzione post-talebana. Non per le minacce».
Perde Karzai
«È lo scenario meno probabile. Possibile che sia costretto al ballottaggio con il tajiko Abdullah. Ma a quel punto il presidente vincerà di sicuro. Non tanto e non solo per una questione di consensi, ma perché ha in mano le leve necessarie a compiere brogli anche clamorosi. Tutti i responsabili delle commissioni elettorali sono sotto il suo controllo. Ci sono sul mercato una grande quantità di certificati elettorali, vuol dire che c’è qualcuno che li compra. In un’elezione presidenziale non ha senso accaparrarsi un centinaio di voti, bisogna manovrarne centinaia di migliaia.
E Karzai ha i mezzi necessari. Già nelle presidenziali del 2004 gli osservatori neutrali avevano segnalato che in aree dove era stata registrata una partecipazione femminile del 40%, ai seggi non si era vista neppure l’ombra di una donna. Questa volta i voti femminili spostati dal capo tribù o dall’anziano di turno in cambio di denaro o favori saranno ancora più numerosi. Nelle campagne c’è stata una vera caccia alla registrazione di donne e giovani per poter disporre dei loro certificati elettorali. Non dovesse bastare tutto ciò, ci penseranno comunque i responsabili della macchina governativa truccando i numeri fino a garantire la rielezione del presidente».
Vince Karzai«Il voto si sta polarizzando su base etnica in modo ancora più determinante che nel 2004. Per i pashtun, che sono etnia maggioritaria, Karzai è comunque il meno peggio. Per i tajiki invece questo voto è l’ultima spiaggia e si sono schierati compatti dietro al candidato Abdullah per tentare di mantenere un certo potere. Hanno ormai sperimentato la 'strategia del salame' di Karzai che taglia a fette il loro schieramento comprando o eliminando una fetta dopo l’altra. Ora è toccato al maresciallo Fahim. Poi toccherà ad altri e alle prossime elezioni non esisteranno più come gruppo. Per questo davanti a brogli evidenti o a una vittoria risicata di Karzai potrebbero reagire.
Il presidente a quel punto potrebbe rinviare di un anno o due il rimescolamento dei quadri al ministero della Difesa o dell’Interno dove i tajiki sono dominanti. Rinviare, non rinunciare. Perché anche Karzai sa che la presenza internazionale è diventata una questione di anni, non è più eterna e ha bisogno di un esercito che sia obbediente a lui e non ai tajiki eredi del comandante Massud».
Karzai si gioca il futuro in TV
di Giuliano Battiston - Megachip - 17 Agosto 2009
Cronache dall’Afghanistan sotto ingombranti tutele. Da Kabul, Giuliano Battiston ci racconta il rovente clima pre-elettorale nel cuore della Guerra Infinita.
KABUL - «Se si guarda all’Afghanistan, e oggi anche all’Iraq, risulta chiarissimo che siamo entrati, e già da qualche tempo, in una modalità operativa di stabilizzazione. Il grosso del paese è oggi stabile e sicuro». Con queste parole, il 1 maggio 2003 l’allora segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Donald Rumsfeld, certificava l’avvenuta stabilizzazione dell’Afghanistan, poche ore dopo che il presidente George W. Bush aveva dichiarato “missione compiuta” in Iraq a bordo della portaerei Abraham Lincoln.
A distanza di sei anni, quelle dichiarazioni appaiono vuote e insignificanti.
Per alcuni, come Ajmal, tragicamente beffarde. I capelli bruciacchiati e la mano fasciata, lo sguardo ancora assente e confuso, Ajmal è uno dei sopravvissuti all’esplosione avvenuta il 15 agosto 2009 nei pressi del quartier generale dell’ISAF, in una delle zone di Kabul considerate più sicure, nei pressi dell’ambasciata americana e del palazzo presidenziale.
Lo incontro mentre esce dall’ospedale Wazir Akbar Khan della capitale afghana, dove sono stati trasferiti alcuni dei feriti dell’attacco rivendicato dal portavoce dei seguaci del mullah Omar, Zabiullah Mujahed.
Ajmal è riuscito a scamparla. A differenza delle nove persone rimaste uccise nell’esplosione, e dei tanti afghani che in questo tormentato periodo pre-elettorale si trovano stretti tra gli attacchi dei talebani, che cercano con ogni mezzo di sabotare il processo elettorale, e la cecità della comunità internazionale, incapace di individuare soluzioni che non passino soltanto per un rinvigorito militarismo.
A pochi giorni dal voto che deciderà il prossimo presidente dell’Afghanistan, le armi, dunque, continuano a contrassegnare il panorama del paese centro-asiatico. Per questo, nel primo dibattito televisivo a cui ha accettato di partecipare Hamid Karzai, trasmesso domenica sera dalla televisione di stato afghana e sponsorizzato da Radio Free Europe, la sicurezza è stato uno dei temi centrali. E gli avversari di Karzai hanno avuto gioco facile a mettere in discussione l’operato del presidente uscente.
Nelle scorse settimane Ashraf Ghani, già ministro delle Finanze dal 2002 al 2004 e preside dell’Università di Kabul, aveva insistito sulla necessità di un dibattito televisivo tra i principali candidati, sostenendo che senza un confronto aperto e leale il processo elettorale ne avrebbe risentito. E Karzai, dopo aver rinunciato al primo dibattito con Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, il più agguerrito dei suoi concorrenti e già ministro degli Esteri dal 2001 al 2006, domenica ha finalmente accettato l’invito.
Forse memore delle parole usate dall’ambasciatore statunitense a Kabul Karl W. Eikenberry, che pochi giorni dopo il rifiuto di Karzai, in un articolo pubblicato sul «Washington Post» aveva auspicato «un serio dibattito tra i candidati». Molti allora videro in quelle parole un segno non troppo celato del nuovo orientamento dell’amministrazione americana. Che sembrava voler prendere le distanze dal Karzai.
D’altronde, i segni in questa direzione erano numerosi. In un incontro al Senato, la segretaria di Stato, Hillary Clinton, senza mezzi termini aveva definito l’Afghanistan un narco-Stato, governato da politici incapaci e compromesso dalla corruzione. E lo stesso presidente Obama, pur adottando un linguaggio meno diretto, aveva avuto modo di ribadire in più occasioni che il governo afghano non era in grado di “assicurare” ai suoi cittadini “servizi fondamentali”.
Mentre il 19 gennaio, con un’intervista al «Washington Post», era stato l’allora segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer, a far sapere che non erano i talebani il principale ostacolo alla stabilizzazione del paese, ma la mancanza di una governance efficace, riferendosi implicitamente proprio a Karzai. Che, a sua volta, aveva deciso di alzare i toni. Accusando le truppe internazionali presenti nel paese, colpevoli di disinteressarsi della sorte dei civili durante le operazioni militari. E cercando di consolidare i rapporti con paesi non-Nato, in cerca di una via d’uscita dal rapporto con gli Stati Uniti, divenuto a tratti troppo asfissiante.
Da allora, però, molte cose sono cambiate. E gli Stati Uniti, forse perché privi di un altro interlocutore di peso con cui dialogare, hanno deciso di fare una mezza retromarcia. Tanto che oggi i portavoce della Casa Bianca si affrettano quasi ogni giorno a ripetere che gli Stati Uniti non sostengono nessuno dei candidati alle elezioni presidenziali, e che sono gli stessi afghani a dover decidere del proprio futuro. Mentre il nuovo segretario della Nato, l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen, a pochi giorni dal suo insediamento ha deciso di fare tappa proprio a Kabul, quasi a cementare il legame tra la sua organizzazione e il paese rappresentato da Karzai. Che ovviamente sa di non poter resistere a lungo senza l’appoggio della comunità internazionale. E in particolare degli Stati Uniti. Ma è anche consapevole che, per riuscire a conquistare un secondo mandato, deve praticare un complicato esercizio di equilibrismo. Dimostrandosi sufficientemente indipendente e autonomo da rassicurare i suoi connazionali che non svenderà il paese agli interessi stranieri, ma non tanto da compromettere del tutto i rapporti con quei paesi da cui dipende la stessa sopravvivenza dell’Afghanistan.
Così, anche nel dibattito televisivo di domenica sera Karzai ha ripetuto che presto le forze di sicurezza afghane dovranno assumere il controllo del paese, smettendo di affidarsi alle truppe internazionali. Ma non ha saputo indicare una data precisa per il passaggio di consegne. Né lo hanno fatto Ashraf Ghani e Ramazan Bashardost, il “nazionalista populista”, già ministro per alcuni mesi nel governo Karzai.
E proprio Bashardost, che secondo alcuni sondaggi raccoglierebbe il 10 per cento delle preferenze, è sembrato il più pronto ad approfittare dell’occasione: facendo ricorso a un consolidato repertorio di accuse, nel corso del dibattito ha criticato l’incompetenza di Karzai, segnalando la corruzione che domina nel paese. Un paese che «avrebbe bisogno di un presidente integro, che non sia lo schiavo degli stranieri», e che piuttosto sappia far «rispettare l’interesse nazionale dell’Afghanistan».
Alle accuse di Bashardost, Karzai ha risposto rivendicando il lavoro fatto in questi anni: «l’Afghanistan ha sofferto davvero molto, era un paese ormai perduto. Io l’ho salvato», ha dichiarato il presidente uscente, che oltre a elencare i risultati ottenuti in questi anni - soprattutto sul versante economico -, non ha potuto evitare di riferirsi ai talebani. Le cui radici andrebbero cercate non tanto in Afghanistan, quanto nei paesi vicini. E la cui violenza sarebbe cresciuta negli ultimi anni a causa delle truppe occidentali e delle loro procedure, che calpesterebbero le regole socio-culturali del paese. Karzai inoltre ha riconfermato l’intenzione, una volta eletto, di organizzare un grande incontro con i principali rappresentanti delle forze di opposizione, inclusi i talebani, per negoziare un processo di riconciliazione nazionale.
Anche il grande sfidante di Karzai, Abdullah Abdullah, che ha deciso di evitare il dibattito televisivo, nei giorni scorsi ha parlato della necessità di un percorso di riconciliazione. Mentre Ashraf Ghani, che ha presentato il suo programma con un intervento per l’Atlantic Council e poi con un editoriale sul «Wall Street Journal» del 7 agosto, ha voluto concentrarsi ancora una volta sull’importanza delle donne nella costruzione del nuovo Afghanistan. Mentre i candidati discutevano le loro posizioni, al di là del piccolo schermo alcuni afghani ascoltavano con interesse. Molti altri, invece, pensavano ad altro. Preoccupati di trovare un modo per liberarsi della furia dei talebani senza restare prigionieri a vita della “protezione” internazionale.
L'inghippo del volantino
da Peacereporter - 19 Agosto 2009
I sostenitori dell'ex ministro degli Esteri e principale sfidante del presidente in carica Hamid Karzai, sono stati accusati di aver lanciato da due elicotteri volantini del loro candidato, l'unico in grado di sconfiggere "il sindaco di Kabul".
Tra i detenuti ci sono i due piloti degli elicotteri e vari giornalisti. Secondo quanto ha dichiarato uno dei responsabili della campagna dell'ex ministro degli Esteri, Syed Fazal Hussein Sancharaki, la detenzione è stata "illegale". "Il governo sta mostrandosi intollerante e cerca di mettere un freno a questo a questo genere di iniziativa, ha assicurato Sancharaki.
Ma a far sorridere è l'accusa con la quale sono stati arrestati i 14: avrebbero messo sotto i piedi degli afgani il nome di Dio. Perché il loro candidato è Abdallah Abdallah, già ministro degli esteri, il cui nome significa "servo di Allah".
Nella foto (cliccare per ingrandire) il volantino lanciato dagli elicotteri. Vi si può leggere: "Io so meglio come far fronte alle difficolta del Paese", il suo nome, il simbolo della sua candidatura (le tre teiere, ci sono candidatrio che hanno come simbolo un cellulare, o una paperella) e il numero corrispondente, il 37.
Intervista esclusiva: parla Abdallah Abdallah, lo sfidante di Karzai
da Peacereporter
L'Iraq potrebbe accoprare tre voti in un solo giorno
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 14 Agosto 2009
Altro che Election Day. A metà gennaio, gli iracheni potrebbero andare alle urne per ben tre consultazioni elettorali nello stesso giorno: il voto per il rinnovo del Parlamento e ben due referendum: uno sull' "accordo di sicurezza" fra Stati Uniti e Iraq (il cosiddetto SOFA), l'altro sugli emendamenti alla Costituzione.
Potrebbero, perché tutto dipende dal fatto che il Parlamento – alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva, e nel suo ultimo termine - riesca a porre le premesse per i referendum. Il che non è affatto sicuro.
La data per le elezioni politiche sembrerebbe ormai fissata: il 15 gennaio, è la decisione del Parlamento. E infatti fervono trattative e consultazioni fra i partiti, e la campagna elettorale sta di fatto per iniziare.
E così governo e Commissione elettorale hanno preso la palla al balzo, rinviando il referendum popolare sul SOFA, che avrebbe dovuto tenersi entro fine luglio. E con il quale, se l'"accordo di sicurezza" fra Washington e Baghdad dovesse essere respinto, gli Stati Uniti avrebbero un anno di tempo per ritirare completamente le proprie truppe dall'Iraq – in anticipo sulla data prevista, il 31 dicembre 2011.
Risparmiare tempo e fatica
Secondo le autorità irachene, farlo coincidere con le elezioni politiche farebbe risparmiare tempo e fatica. Ancora una decisione definitiva non c'è, e tuttavia, ammesso che il referendum si tenga, sembra improbabile che possa essere prima del voto di metà gennaio.
Il referendum sugli emendamenti alla Costituzione è un altro paio di maniche. Qui una decisione del Parlamento infatti è indispensabile, dato che agli elettori deve essere sottoposto un pacchetto di modifiche approvato prima dai deputati. E il comitato appositamente costituito è al lavoro da anni, ma ancora non è riuscito a concludere.
Fra i parlamentari, in diversi esprimono la "speranza" che si possa chiudere entro fine anno, nell'ultimo termine della legislatura. I lavori dell'Assemblea dovrebbero riprendere l'8 settembre, ma c'è chi dice che i deputati non si faranno vedere fino a dopo il 20 del mese – quando finisce il Ramadan, il mese sacro per i musulmani.
Fra quelli che "sperano" c'è Salim al Juburi, uno dei leader dell' Iraqi Islamic Party, che fa parte della commissione per gli emendamenti costituzionali.
"Ci sono grandi progressi per quanto riguarda la maggior parte dei punti sui quali esistevano divergenze", dice [in arabo] al quotidiano arabo al Hayat. Il resto – aggiunge - ha ancora bisogno di revisione da parte dei diversi blocchi politici.
E una data per l'eventuale referendum popolare non è ancora stata fissata, sottolinea il deputato, proprio perché prima è necessario che a decidere sia il Parlamento. Se si chiuderà entro la prossima (e ultima) sessione, allora è probabile che il referendum coincida con le elezioni politiche. Ovvero, a metà gennaio.
Anche il referendum sul SOFA è probabile che si svolga in contemporanea con il voto per il rinnovo del Parlamento.
Dente avvelenato
Qui c'è chi – fra i deputati - ha il dente avvelenato, e accusa il governo per il rinvio.
Amar Ta'ama, ad esempio, membro della Commissione Sicurezza e Difesa del parlamento, eletto con Fadhila, partito sciita nazionalista di ispirazione "sadrista", che definisce il rinvio una "violazione palese" delle leggi in vigore. Le giustificazioni addotte dal governo su un risparmio di tempo e fatica – dice – "sono inaccettabili".
Fra quelli che invece ritengono la decisione del governo ragionevole c'è Mahmud Othman, parlamentare kurdo indipendente, che ritiene probabile che il referendum con cui gli iracheni potrebbero respingere l'accordo firmato fra Washington e Baghdad venga accorpato con le elezioni politiche di gennaio.
Anche perché - fa notare - una volta passata la scadenza originaria di fine luglio, altre date disponibili prima non ce ne sono.
Certo è che i deputati al ritorno dalle vacanze di lavoro ne avranno un bel po'.
Tanta carne al fuoco
Fra i provvedimenti importanti in sospeso ci sono infatti anche le modifiche alla legge elettorale, senza le quali a gennaio si rischia di votare con la vecchia legge (il che non è detto che dispiaccia a tutti).
I tentativi fatti nelle ultime settimane, prima che iniziasse la pausa estiva, sono tutti falliti, bloccati sulle modalità del voto nella contesissima provincia di Kirkuk, dove già si sono dovute rinviare le elezioni provinciali.
Tanta carne al fuoco, dunque. Che rischia di non cuocere se, con le elezioni che si avvicinano, partiti e forze politiche – come temono in parecchi – avranno altro da fare.
Allawi pensa ad alleanze elettorali che possano riportarlo al governo
da Osservatorio Iraq - 14 agosto 2009
Tariq al Hashimi, uno dei due vice presidenti iracheni, e l’ex Primo Ministro Iyad Allawi starebbero pensando a una alleanza per le prossime elezioni politiche che possa ottenere la maggioranza in Parlamento, essendo così in condizione di nominare il premier.
Lo riferisce [in arabo] il quotidiano arabo al Sharq al Awsat, secondo il quale il vice presidente iracheno potrebbe annunciare a breve una sua lista elettorale.
Rashid al Azzawi, un deputato dell’Iraqi Accord Front (IAF), la maggiore coalizione sunnita rappresentata in Parlamento, della quale fa parte l’Iraqi Islamic Party (IIP), il partito di Hashimi, dice che il leader politico, dopo aver lasciato la carica di Segretario Generale del partito, “vuole presentare un suo blocco alle prossime elezioni parlamentari”.
Alla domanda se questo blocco entrerà nell’IAF, Azzawi ha risposto che “esiste la possibilità che Hashimi entri in alleanze con altri blocchi”.
Ma la cosa più interessante sono le voci di una possibile alleanza fra l’ex leader dell’IIP (sunnita) e l’ex premier Allawi, con possibilità di apertura anche ai kurdi.
Di questo, stando a fonti parlamentari citate dal giornale panarabo pubblicato a Londra, Hashimi e Allawi avrebbero discusso di recente in Kurdistan. L’obiettivo sarebbe quello di conquistare la maggioranza nel nuovo Parlamento che uscirà dalle elezioni previste per gennaio – e di conseguenza poter nominare il premier.
Alia Nasif Jasim, deputata della Iraqi National List (INL), la coalizione nazionalista e interconfessionale guidata da Allawi, dice ad al Sharq al Awsat che, per quanto riguarda le alleanze elettorali, i colloqui sono ancora in corso. E tuttavia le trattative sarebbero arrivate alla fase finale. Insomma, gli accordi dovrebbero essere annunciati a breve.
La INL - spiega la parlamentare - ha formato dei comitati, dei quali fanno parte suoi esponenti e membri dell’ufficio politico dell’Iraqi National Accord, il movimento di Allawi. Ci sono già state diverse riunioni con numerose forze politiche – fra cui anche quella di Hashimi – “per entrare in nuove alleanze”.
Alla domanda se Allawi aspiri a occupare di nuovo il posto di premier, la Jasim ha risposto che al posizione della INL è di appoggiare qualunque personalità capace di guidare l’Iraq – “Allawi o altri”.
Altre informazioni sembrano indicare che l’ex premier aspiri effettivamente a tornare alla guida del governo.
Adel Barwari, un deputato della coalizione kurda, in alcune dichiarazioni riportate dalla stampa, aveva parlato di un incontro fra Hashimi, Allawi, e il presidente della regione autonoma kurda Mas’ud Barzani, che sarebbe stato incentrato sulla discussione di una alleanza per le prossime elezioni della quale facciano parte tutte le componenti del popolo iracheno.
Ovvero, una coalizione che veda il superamento degli steccati confessionali – un cavallo di battaglia dell’ex premier iracheno.
“Tutti aspirano alla formazione di una lista nazionale che superi le trincee confessionali”, aveva detto Barwari.
E Allawi? “Sì, Allawi si prepara a ottenere di nuovo il posto di Primo Ministro, e questo è un suo legittimo diritto”.
L'Iraq "liberato" uccide i gay
di Lucia Annunziata - La Stampa - 14 Agosto 2009
Pare che le milizie sciite e l’esercito regolare abbiano trovato a Baghdad un terreno di salda collaborazione: la voglia di ripulire l’Iraq dalla piaga dei tanta, gli omosessuali. Secondo il più recente rapporto di Human Rights Watch in arrivo dall’Iraq, questa è la più recente evoluzione della guerra sociale che continua a travagliare il Paese.
Le 67 pagine di ”They Want Us Exterminated: Murder, Torture, Sexual Orientation and Gender in Iraq” documentano la campagna di rapimenti, torture, ed esecuzioni contro i gay iniziata con il 2009 e con centinaia di vittime già all’attivo. Le torture includono stupri di gruppo e ferite permanenti inflitte ai presunti gay. Ecco il racconto, raccolto in aprile, di uno dei sopravvissuti: «Confessare cosa?, chiesi. “Il lavoro che fai, l’organizzazione di cui fai parte, e che sei un tanta”. Per giorni sono stato picchiato e umiliato... e poi mi hanno violentato. Per tre giorni». Nel rapporto, alcuni medici testimoniano di aver visto cadaveri o ricevuto in cura uomini con ferite grottesche.
I dettagli, violentissimi, li lasciamo a chi consulterà il rapporto, che dovrebbe essere reso pubblico il 17 di agosto, ma di cui già circolano alcune anticipazioni. Secondo l’organizzazione per i Diritti Umani, l’azione è iniziata nella zona sciita della capitale, Sadr City, quartiere famoso nella storia di Baghdad per la sua strenua resistenza al regime di Saddam. Oggi è il quartier generale del gruppo politico e militare della milizia di Muqtada al-Sadr. Da quell’area, la campagna di persecuzioni si è estesa a altre città grazie alla segreta collaborazione con le milizie sciite di membri dell’esercito regolare composto in maggioranza da sunniti.
La paura del «terzo sesso» e della «femminilizzazione» dell’Iraq è divenuta negli ultimi mesi un tema propagandistico delle milizie sciite; in realtà le campagne antigay sono ricorrenti in molti Paesi musulmani. Se l’Iran è diventato famoso per le impiccagioni, altrettanto famose sono le persecuzioni dei gay in Egitto. Nel caso dell’Iraq c’è tuttavia una notevole differenza: il ruolo che ancora oggi vi hanno gli Stati Uniti.
Dopo la decisione Usa di non occuparsi più direttamente della sicurezza nel Paese (le truppe americane sono raccolte in alcune guarnigioni cittadine), il compito è passato all’esercito regolare iracheno. Ma può Washington ignorare violazioni di tali portata?