Qui di seguito un ottimo ritratto di alcuni tipici casi di buonismo/paraculismo italiota da voltastomaco.
Fabio Fazio (e non solo): i santini del veltronismo
di Andrea Scanzi - Micromegaonline - 6 Febbraio 2009
Il veltronismo, ideologia debole per un partito liquido, è dotato di una galassia molto ricca di icone e figurine artistiche e culturali. Benigni, Celentano, Jovanotti… Ma soprattutto Fabio Fazio, il cantore del ‘volemosebenismo’, il maestro del ‘paraculismo d’essai’, il campione dell’‘arborismo iper-familiare’, il Paolo Limiti di sinistra che ‘sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia’. Un personaggio che come nessuno ha saputo tramutare ‘la pavidità in cifra stilistica’.
Fazio, Benigni, Celentanotti: i santini del veltronismo. Ognuno diverso, ognuno uguale.
Il più santino di tutti è Fabio Fazio, che andrebbe forse scritto tutto attaccato, come un’orazione, come un’omelia, come un rosario progressista: Fabiofazio, alla Daniele Luttazzi. Oppure Faziofabio, alla Antonio Albanese.
Fazio è un fantasista che ha smesso di essere prestissimo tale. Inizialmente smarrito tra l’arte dell’imitazione e quella della conduzione, Fazio ha presto abbracciato un arborismo iper-familiare. Mansueto per scelta, disinnescato per vocazione.
Negli anni ha saputo costruire un proprio codice mediatico, divenendo straordinario creatore di consenso, intercettando l’auditel e imponendo l’unanimismo fazioso: qualcosa che va (quasi) al di là delle fazioni e dello share.
Il successo definitivo è coinciso con la sua definitiva elezione a Paolo Limiti di sinistra, prima con Quelli che il calcio (che ai tempi di Odeon Tv si chiamava Forza Italia) e poi con Anima mia.
Che tempo che fa ha sancito un ulteriore passaggio. Il conduttore si è fatto demiurgo, simulacro. Il padrone di casa è divenuto sacerdote culturale, per meglio dire dispensatore primo dell’idea che un elettore medio del Partito democratico può avere della cultura in un programma su RaiTre.
Fabio Fazio ha meriti innegabili. È capace di portare in tivù coloro che la tivù non la amano, da Nanni Moretti a Umberto Eco, da Roberto Saviano al compianto Enzo Biagi. Per fare anche solo un esempio, il suo colloquio con Beppino Englaro – lo scorso 10 gennaio – è stato un toccante momento di televisione «civica».
Fazio ha un talento naturale nell’essere «amico di». Quasi tutte le migliori menti italiane si fidano di lui, o più prosaicamente sanno che oggi il convento mediatico non passa di meglio, sin dai tempi delle feste di Cuore. Se Massimo Troisi ironizzava sulla rubrica magica di Gianni Minà (uno dei primi personaggi imitati dal giovane Fazio), al conduttore di Che tempo che fa nulla è precluso. Persino edificare una riuscita serata-tributo per il decennale della scomparsa di Fabrizio De André. Persino orchestrare una puntata monografica su Adriano Celentano, dopo che il Molleggiato lo aveva definito (nel 2001) «un ipocrita dai modi gentilini e perbenini esperto in lavaggi del cervello». Opinione tranciante, ma non così isolata, se si oltrepassa il velo di intoccabilità che ammanta Fazio.
Il quale, seguendo la regola del «meno peggio», è uno dei primi da salvare. Chiaro che meglio lui (o meno peggio lui) di molti altri burattinai dell’etere. E poi Che tempo che fa non è solo Fazio: è Luciana Littizzetto, è (soprattutto) Antonio Albanese.
Dov’è, allora, il problema? Da nessuna parte, per chi si accontenta. Per i più esigenti risiede invece nel santino, nel simulacro. Nel Fabiofazio, nel Faziofabio. Nella sensazione che i suoi programmi siano belli nonostante lui. Come una macchina di Formula Uno così ben congegnata da vincere a dispetto di un pilota che pare più che altro un tassista.
Gli ospiti sono quasi sempre notevoli. Basterebbe poco, una stimolazione minima, per esaltarli. Ma Fazio non stimola: titilla. Per scelta. Tutto, in lui, è calcolato.
Quando era solo un imitatore, un quasi-fantasista, si divertiva a raffigurare Biagi (il suo mito) come un inquisitore che crivellava implacabilmente l’intervistato. Fabiofazio è esattamente l’opposto, a partire dal declassamento (che per lui è atto d’educazione) a cui sottopone gli amici che siedono alla sua sinistra, come apostoli accondiscendenti: non «intervistati», bensì «ospiti». Il perché è evidente, lo ha spiegato lui stesso: «Le domande scomode sono un mito, che bisogno c’è di essere cattivi?».
Certo, che bisogno c’è? Perché scoperchiare disgraziatamente qualche verità e rischiare – ancor più disgraziatamente – il posto di lavoro e i due milioni di euro annui che percepisce dalla Rai? «Nel talk show le persone sono ospiti, non intervistati. Le tratto in modo gentile non perché sia la strada più comoda, ma per educazione».
Il Codice di Fabiofazio è la non-intervista. Non è che lui insegua la prima domanda, men che meno la seconda: no, lui rinuncia a prescindere alla con-versazione filosoficamente intesa. È un intervistatore senza interviste, un domandante senza domande, un colloquiante senza colloquio. Ossimori tanto bizzarri (come un angelo senza ali, un tennista senza racchetta, un fantasista senza fantasia) quanto redditizi.
Una sua tecnica consolidata è quella di declinare la discussione in cazzeggio, disinnescandola a priori. In questo è maestro. Così, di fronte a Gianluca Vialli, uno dei suoi ottomila miti, Fazio si guarda bene dal toccare argomenti scabrosi come doping e processo Juventus, preferendo buttarla democraticamente in vacca, chiedendo all’acme del colloquio: «È vero che in Inghilterra non c’è il bidet?».
Domande vibranti, si converrà. Come quelle con cui ha accolto Margherita Hack. Si poteva incentrare la conversazione su temi come testamento biologico, eutanasia. Oltretutto era la stessa puntata di Beppino Englaro. Anche qui, Fazio ha indossato il sorrisetto di default – perché non solo il cosa, anche il come (gesti, sguardi, prossemica) deve rassicurare – e ha sciorinato il suo rosario di facezie: «Come stanno i suoi gatti? Perché le piace Pinocchio ma non Harry Potter?».
Chiamatelo, se volete, giornalismo d’assalto. O, forse, giornalismo assaltato.
Naturale che, di fronte a una Iper-Nemesi come Marco Travaglio, da lui verosimilmente invitato sotto gli stessi fumi che portarono John Lennon a scrivere I am the walrus, Fazio (che è sì beatlesiano, ma ovviamente mccartneiano), sia sbiancato.
Dal canto suo, Travaglio ha finto di non sapere che, se si va da Fazio, lo si fa per fini commerciali (per gli esperti una sua ospitata frutta 20 mila copie di libri venduti). Se si accetta l’invito, bisogna stare al gioco. Da Fazio non c’è contenuto, solo forma. Si parla, ma non si dice nulla. Si muove la bocca, ma quel che ne esce è solo suono. Da Fazio si è pesci con l’audio. Travaglio invece prendeva ogni pretesto per tornare sul contingente, tramutando la fumosità consapevole delle domande («Il senso di apocalisse decadente che si esprime nei tuoi libri, è qualcosa di nuovo o ha ragione Baricco che ci ha insegnato come da sempre viviamo in una perenne mutazione dei barbari?») in appiglio per parlare di mafia. E Fazio, sempre col sorriso sulle labbra (guai a corrucciarsi), ripeteva afflitto: «Mi tocca dissociarmi, non sono d’accordo su niente con te».
Poi, nei giorni successivi, l’eroica Via Crucis. Prima ha letto diligentemente le scuse Rai a firma Claudio Cappon, poi si è cosparso il cherubino crine di cenere penitenziale, asserendo – con ammiccamento a Schifani – che «rispettare la doppia libertà, quella di chi c’è e di chi non c’è, è sempre stato e rimarrà l’obiettivo di questa trasmissione». E giù, applausi dalla claque radical-chic.
Fazio sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia. È intimamente terrorizzato all’idea di essere oscurato, e il bello è che lui crede veramente di correre questo rischio. Gli è bastato un allentamento da La7 – con una buonuscita che da sola sfamerebbe il Belize – per convincersi di poter essere percepito come reale minaccia politica.
Ogni volta che viene minimamente criticato, quasi sempre da un eminente statista di centro-destra – tipo Maurizio Gasparri – lui si dissocia da se stesso e chiede scusa. Come nel dicembre scorso, quando di fronte alle lamentele di Gasparri (appunto), che sosteneva come a Che tempo che fa andassero solo ospiti di centro-sinistra, Fazio ha pugnacemente difeso la libertà. Come? Dando interamente ragione al potere (che per il «suo» De André, ontologicamente, non poteva essere buono): «Gasparri, per quanto mi riguarda, ha perfettamente ragione. Sono però certo che entro maggio rispetteremo i numeri che ci hanno sempre contraddistinto, con una sostanziale parità tra centro-sinistra e centro-destra».
Sì, ma non è un approccio un po’ troppo sussiegoso, si domanderà forse a questo punto il solito estremista? «La politica non è il mio editore», replica lui. «Non posso scendere al livello di chi parla di lacché, servi e quelle altre definizioni. Non rispondo che al pubblico e devo avere rispetto del pubblico. Se sento di riuscire in questo non mi interessa altro».
Amen.
Nessuno si era mai abbarbicato così ferocemente al quieto vivere, al volemosebenismo. Nessuno aveva mai saputo tramutare in ambito giornalistico la «pavidità» in cifra stilistica. Men che meno a sinistra, parte (se ancora esiste) d’Italia teoricamente allignante di uomini esigenti, dallo spiccato senso critico e dalla fiera aspirazione a qualcosa che non ha mai intaccato le ambizioni di Fazio: andare oltre il senso e il luogo comune.
Laddove nessuno pare più esigere dall’artista (o dal conduttore) un ulteriore batter d’ali affinché un minimo si elevi, per oltrepassare il fascio conformista e omologante, per alludere almeno a un gaberiano altrove, appare quasi fisiologico il successo di Fabiofazio. Un tempo con i comici ci si indignava, ad esempio con il Su la testa! di Paolo Rossi (che Fazio ha avuto il merito di riportare in tivù). Oggi, no: in mancanza di meglio e surplus di meno peggio, va benissimo Faziofabio.
Se un programma così lo facesse Emilio Fede (e un po’ lo fa), la critica di sinistra lo demolirebbe (e infatti lo demolisce). Con Fazio no, non si può. La sua calibratissima esegesi del paraculismo d’essai piace a grandi e piccini, guru e vestali. Di più: chi si azzarda a muovergli un minimo appunto, subisce la mitraglia della sinistra perennemente à la page: «Così fate il gioco della destra».
Fabiofazio non è un giornalista: è un sacramento. L’undicesimo comandamento del veltronismo. Se il Porta a porta di Bruno Vespa è la terza Camera dello Stato, Che tempo che fa è l’attico della sinistra snob, convinta che gli spostamenti della storia seguano unicamente il vento che ogni giorno fa oscillare l’amaca di Michele Serra (toh, uno degli autori del programma).
Faziofabio è il padrone della casa in collina dell’intellighenzia, che dall’alto della sua sempre più supposta superiorità ci spiega cosa pensiamo, come il Don Raffaè del De André da lui tanto amato – a margine: è incredibile come Fazio aneli ai suoi opposti. Se il credo di De André era procedere «in direzione ostinata e contraria», quello di Fazio è andare in autostrada in seconda corsia, mai contromano, mai a fari spenti nella notte. Un dolcemente viaggiare, rallentando senza mai accelerare.
Che tempo che fa è un programma che piace alla gente che (si) piace. Tutto è bello, nel Paese delle Meraviglie di Alice-Fazio. De Gregori è sempre bravo, Battiato è sempre bravo, perfino Vecchioni è sempre bravo. Sono tutti bravi. Anche quelli di centro-destra. Anche Christian De Sica, anche Boldi. Bravi. Tutti. E belli. E buoni. Perché noi di sinistra, lascia intendere Lui, i bambini mica li abbiamo mai mangiati. Noi siamo casti, illibati. Laici, ma anche (cit) cattolici e apostolici (e forse pure romani).
Che tempo che fa è l’Om Mani Padme Hum dei Democratici. La schiuma del centro-sinistra: soffice, morbida, bianca. Lieve lieve. Sembra panna, sembra neve. E la schiuma, si sa, è una cosa buona: «come la mamma, che ti accarezza la testa quando sei triste e stanco. Una mamma enorme, una mamma in bianco».
Ecco: Fabiofazio è lo shampoo del centro-sinistra. La mamma enorme del veltronismo. Una mamma bianca, che dispensa sacramenti e benedice mischiamenti.
S’i fosse foco, sarebbe acqua.
Ogni liturgia vive di rituali immutabili, e la trama della Messa Laica fabiofaziana non cambia mai. Di fronte a un comico, sia esso realmente dissacrante (Albanese) o sguaiatamente innocuo (Littizzetto), Fabiofazio si erge a pompiere, gesticola, si dissocia. Declina se stesso in caricatura, lascia che la sua spontaneità sia letta come sketch. Funziona perché è se stesso negando se stesso.
Se invece ha di fronte un ospite dotto, interpreta le vesti del fan perennemente abbacinato, del tifoso della Sampdoria che ad ogni gol agita il foulard (si noti: foulard, non sciarpa) come un bambino che fa «ooooh!» ogni volta che sale sulla giostra del Luna Park, anche se ormai è la settecentesima volta e conosce a menadito le impercettibili oscillazioni del volo a bassa quota. È un infante cresciuto, rimasto impigliato in un Viagra d’incanto, che non sai se reputare sincero, ingenuo o diabolicamente scaltro.
Guai a fare una domanda scomoda. Stonerebbe. Paragonato al parterre di cui dispone, Faziofabio è come un Diego Armando Maradona che colpisce solo di destro. Talento, e mezzi, sprecati. Dal Pibe de Oro al Chierichetto di Celle Ligure: poteva andarci meglio. A noi, più che a lui.
Sì, perché in un momento nel quale il centro-sinistra fa di tutto per adeguarsi al berlusconismo pur di vincere (col risultato di perdere ancora di più), Fabiofazio è perfetto come Arcivescovo della Chiesa Veltroniana. Certo, non ha votato alle primarie; certo, ha osato scrivere che «sono confuso: anzi, grazie al Partito democratico ho scoperto di essere confuso da un bel pezzo» (meglio tardi che mai). Buffetti, non critiche. Tenere carezze al Palazzo di riferimento. Del quale, ovviamente, non butta via niente. «Stimo moltissimo Veltroni, non capisco la storia del buonismo? Il contrario del cattivismo? E non capisco questa mania di voler mettere a tutti i costi uno contro l’altro D’Alema e Veltroni. Veltroni rappresenta la sinistra che abbiamo sempre sognato e mentre lo affermo dichiaro che anche D’Alema è uno statista clamoroso, importantissimo, bravissimo».
Se Fazio fosse il leader del Pd, per prima cosa farebbe una Bicamerale con Berlusconi, e subito dopo lascerebbe interamente confluire il partito nel centro-destra: così, per solidarietà nazionale. Per amor patrio. Per eccesso di zelo. Veltrusconista, direbbe Beppe Grillo. Quel Grillo che gli rinfaccia di essere stato troppo tenero con Umberto Veronesi sugli inceneritori. Quel Grillo di cui Fazio ha detto: «Sono più pessimista di lui». Quasi a dire: sembro buono, ma in realtà so cose che voi umani neanche osate immaginare. Ad esempio che non c’è speranza.
E qui si entra nell’ultimo aspetto della fenomenologia di Fabiofazio: la latente doppia personalità, Dottor Fonzie e Mister Ricky Cunningham – ovviamente, come tutti i «leader di sinistra», Fazio si è vantato di essere cresciuto guardando Happy Days, che per Nanni Moretti (in Aprile) è una di quelle cose che «non c’entra ma c’entra» con il depauperamento culturale della immarcescibile nomenklatura sinistroide (più che sinistrata) di cui Fabiofazio è parte integrante, nonché simbionte.
Il Fabio dominante è quello sussiegoso, che nelle interviste ricorda amenamente, col consueto feticcio per la nostalgia a prescindere (vanno bene tanto un Hulk che un Cugino di Campagna per commuoversi), come sua madre lo vestisse – «abito grigio cangiante, capelli lunghi, cravatta di pelle blu» – prima di andare dalla Carrà a Pronto Raffaella. È un Fazio pentecostale, che al Messaggero non ce la faceva a parlar male dei programmi che non gli piacevano, così misericordioso da beccarsi la pitiriasi quando lo accusarono (ingiustamente) di abusivismo edilizio. Un Fazio mai abbaiante, sempre gaio: Sunday, Monday, Happy Days.
Poi però c’è l’altro Fazio, il non dominante, con la sua vocazione a imitare (e qui si torna all’imprinting) Daniele Luttazzi. Una tendenza nata fin dal 1990, quando Luttazzi preparò a Banane (Tmc) uno sketck in cui Marzullo intervistava Hitler e Gesù. Il produttore Sandro Parenzo censurò la gag, che fece poi – edulcorandola – Fazio: alle sue spalle, c’era pure l’orologio di Luttazzi.
Nel 2001, Luttazzi portò in Italia il format del David Letterman Show, intervistò Travaglio a Satyricon e – a differenza di altri – non solo non si dissociò, ma solidarizzò con il giornalista. A quel punto Fazio «non si fece scrupolo», ha scritto Luttazzi, «di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l’idea in blocco». Ovvero un Letterman all’italiana. Cioè, no: un Letterman alla Fazio. Un Letterman senza Letterman, un Fazio con Fazio.
Il grado ultimo del paraculismo d’essai: dal partito liquido veltroniano alla tivù gassosa faziosa. Analcolica come una SevenUp, persistente come un Tavernello bianco.
Nel mezzo, l’ennesimo capolavoro mediatico: l’aver fatto credere a lungo, con il placet di politici (Fassino) e giornali (Repubblica), che nell’ukase bulgaro del 2002 il terzo censurato – accanto a Biagi e Santoro – fosse Fazio. Siamo al parossismo: la censura sognata. Il martirologio immaginario.
In realtà Silvio Berlusconi non ha neanche mai lontanamente pensato a Fabiofazio come a un avversario. Può detestare alcuni ospiti, non Fazio. Perfino il format di Che tempo che fa è ora in concessione a Berlusconi (Endemol). In merito, dopo le iniziali perplessità («È un’ipotesi che mi impressiona molto, per uno come me che crede che esiste il conflitto di interessi è un bel problema»), Fazio neanche sette giorni dopo ha risolto lo struggimento: la sua unica condizione è la libertà autoriale, «a queste condizioni continuerei per i prossimi dieci anni».
Già nell’Ottanta Berlusconi voleva scritturare Fazio. Il conduttore ha raccontato di avere rifiutato 150 milioni per Risatissima e Drive In, lasciando intendere che fu un atto di eroismo perché in Rai prendeva 80 mila lire a puntata. Diversa la versione di Dagospia: «A metà anni Ottanta, sotto raccomandazione del Partito del Garofano, Fabio Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del suo Gruppo (allora Fininvest). Si racconta che Fazio – forte della sua raccomandazione – pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d’Italia, l’idea venne abbandonata».
Dici Garofano e pensi a Craxi. Quindi alla «querelle militare». Nel maggio del 2007, Luttazzi ha raccontato che Fazio gli aveva rivelato di non aver fatto il militare grazie a una raccomandazione di Craxi. L’ammissione era avvenuta di fronte a più persone, nel 1992, durante T’amo tv (Tmc).
Conduceva Fazio, tra i comici c’era Luttazzi. Che, a un certo punto, fece una battuta sui militari. Fazio bloccò tutto e gli chiese di non ironizzare sul tema. «Perché l’ho raccontato?», ha spiegato Luttazzi. «Perché il tema iniziale era la sua paraculaggine infinita».
Fazio l’ha presa malissimo. Ancor più quando Antonio Ricci (che lo detesta) gli ha fatto consegnare il Tapiro. Di fronte a Valerio Staffelli si è mostrato monumentalmente stizzito, minacciando che «non vi autorizzo a mandare in onda» (ovviamente è andato tutto in onda). Di fatto non ha mai contraddetto efficacemente Luttazzi. Men che meno querelato. Ci ha solo scherzato piccatamente sopra: «Chiesi la raccomandazione a Reagan e Gorbac?ëv, poi cadde il Muro e finì lì». Variante ridanciana della smentita che non smentisce.
Questa ciclicità di intrecci Fazio-Luttazzi ha del freudiano. Quasi che, sotto le caste vesti, si celasse un rivoluzionario disatteso. Lo conferma il sogno recondito di Fazio: «Mi piacerebbe fare un colpo di testa, andare in televisione e dire una cosa pazzesca. Poi sparire per sempre».
Più facile che Sandro Bondi scriva una bella poesia.Il caso Fabiofazio è paradigmatico non solo giornalisticamente. Il veltronismo è un fenomeno antropologico che si veicola anche a livello artistico, e con Veltroni la cultura è scesa al livello delle Figurine Panini. Con il Partito democratico non c’è più differenza tra Rossellini e Muccino, Fenoglio e Baricco, De André e Pelù, Pelè e Palombo. Il veltronismo, ideologia debole, ha bisogno di «pensatori» – e veicolatori – deboli.
Da qui la creazione di un pattern dell’artista gradito da Don Walter e Fra’ Fabio: contenuti vacui, inconsistenza politica, rinuncia al coraggio, quieto vivere, buonismo sbarazzino.
Chiaro che, di fronte al paradigma Fabiofazio, tutto il resto è diminutio. Perfino un premio Oscar in odor di santità come Roberto Benigni. Se del veltrusconismo Fazio è sacerdote, Benigni ne è cantore. L’ecumenico in salsa celestial-dantesca.
Anche qui: ad averne. Artista non di rado geniale, capace – in un paese che non deborda di conoscenza – di rendere nazionalpopolare Dante e far rivivere il Pierino di Prokof’ev.
Gran parte del pubblico lo avrebbe voluto perennemente toscanaccio, e adesso ci rimane male nel constatarne ogni volta lo slittamento da «eversivo» scapigliato a «comico zuppo d’amore».
Nulla da dire, guai all’artista che si cristallizza. Benigni sa bene che non è sempre (altra) domenica e che il tempo scorre anche per i clown. Il Benigni «popolano dotto» è poi erede, nella vena dello stornello come del rimario dantesco, di una certa tradizione toscana che sa naturalmente conciliare sacro e profano.
Da un punto di vista artistico, Benigni è sempre stato un atipico. Bravissimo sulla breve distanza, meno sulla lunga. Indimenticabile come ospite televisivo, vagamente dilettantesco in veste di regista. Dopo La vita è bella (qualcuno direbbe anche prima) non ha indovinato un film. E c’è poi la questione Nicoletta Braschi, moglie e musa. La sua Beatrice, la sua Yoko Ono. Di sicuro non la nuova Giulietta Masina. Se l’unica parte ben recitata coincide con quella di una donna in coma, qualcosa forse vorrà dire.
Ma non è tanto questo il problema. Benigni si è abilmente liberato dal clichè del toscano scurrile, consapevole che perfino Peter Pan e Willy Wonka invecchiano. La trovata di Dante, in questo senso, è geniale. Molto meno quel suo presentarsi perennemente illuminato, a straparlar di bontà e amore, ogni volta ripetendo che «la vita è una cosa meravigliosa» e «il mio corpo è tutto uno straboccar di gioia». Un altro in overdose da incanto, come e più di Fazio.
Le perplessità vere sono però altrove. Da un lato legate al suo passato, dall’altro alla acquiescenza politica.
In ogni (rara) intervista concessa, Benigni si guarda bene dall’accettare il gioco dei ricordo (tranne che per i genitori, Troisi e Fellini). Come se i tempi del Cioni Mario e Carlo Monni fossero qualcosa di cui vergognarsi, se rapportati alla beata letizia odierna.
C’è, in questo imbarazzo, la stessa fretta di risciacquarsi in Arno cara a Veltroni e ai suoi, che del tempo andato hanno buttato via il bambino ma non l’acqua sporca. Perché il bambino (non l’acqua sporca) era un bagaglio scomodo. Non alla moda. Inadatto al contesto. Come il Cioni Mario.
Più ancora, dell’ultimo Benigni stupisce – come Veltroni – la totale incapacità di fare male. Il suo, più che un rifugiarsi, è un crogiolarsi nel privato.
L’ultima prova di questo deliberato auto-disinnescamento l’ha data l’ultimo numero del 2008 dell’Espresso. Benigni in prima pagina. Strillo: «Ecco chi metto all’inferno». Sottotitolo: «Berlusconi in un girone solo per lui. E poi Brunetta. Ma Tremonti e la Gelmini no. E neppure Veltroni».
Nella realtà, per tutto il colloquio, il giornalista Wlodek Goldkorn ha disperatamente tentato di trarre qualcosa di minimamente «forte». Con risultati deprimenti. L’intervista era pungente come un brano heavy metal cantato da Orietta Berti.
Incalzato (o qualcosa del genere) da un sempre più inconsolabile Goldkorn, Benigni si è guardato bene dal fare i nomi dei pochi colleghi criticati («Farli sarebbe volgare davvero»), ha detto che Brunetta «mi fa schiantare dal ridere» e poi ammesso di aver pensato a uno spettacolo tutto su Berlusconi. Perché non lo ha fatto? «Perché sarebbe cabaret. Preferisco la Commedia».
Ahi, ci risiamo: scelta artistica o paraculismo (ops)? Dubbio rilanciato da una successiva affermazione: «La satira è mirata. È ad personam. Io preferisco la comicità che parla a tutti e prende di mira tutti». E allora viene da pensare a come un artista col talento di Benigni finga di non sapere che colpir tutti, ancor più se con battute a salve, è colpir nessuno. A maggior ragione se ieri si prendeva in braccio Enrico Berlinguer e oggi Clemente Mastella, quasi che le defunte feste dell’Unità fossero oggi giganteschi Barnum-Bagaglino di (quasi) sinistra.
I conduttori si fanno santini, i comici santi, e in questo presepe del veltronismo manca il terzo re Magio: il santone. E se fosse Adriano Celentano? Chi se non lui, Joan Lui?
Se si volesse riassumere il desolante smarrimento della sinistra italiana, basterebbe notare come quello che nei Settanta era il paladino della famiglia democristiana e del «chi lavora non fa l’amore», dopo sbornie ripetute – pannelliano, verde-con-foca, quasi-berlusconiano, cristologico, populista, mogol-battista – sia quasi divenuto il guru del Partito democratico.
Solo che qui, nella sua pantagruelica incoerenza, Celentano è alla fine il più coerente, oltre che l’unico realmente capace di miracoli televisivi (anche se lui ambirebbe a epifanie più ultraterrene). È lui che nel 2001 ha portato in prima serata Gaber, Jannacci, Fo e Albanese. È lui, pur con tutta la retorica del caso, che per primo ha richiamato in Rai Sabina Guzzanti e Michele Santoro (e fosse stato per lui ci sarebbero state altre due sedie per Biagi e Luttazzi, che cortesemente declinarono).
Venti anni fa, quando c’era ancora bisogno di una enciclica micheleserriana per sdoganare tardivamente Lucio Battisti a sinistra, Celentano era un «cretino di talento» (Giorgio Bocca). Oggi Bocca è ancora di quell’avviso, ma nel frattempo Bingo Bongo ha bruciato le tappe, superando con ampie falcate (e stivale a mezza caviglia) l’uomo di Cro Magnon e il Sapiens, assurgendo a Modello para-ideologico. Anche se, politicamente, era e resta confusissimo. E un modello politico confuso di un partito a sua volta smarrito, non può che generare pressappochismo al cubo e inconsistenza al quadrato: tradotto, il nulla.
Il terzo re Magio – Gaspare, Melchiorre o Baldassarre, fate voi – è però un altro Re degli ignoranti. Più giovane ma non meno provvisorio ideologicamente: Jovanotti.
Dal gimmefivismo al pensopositivismo. La sua carriera sta tutta qua. Dotato, nel suo ambito. Solo che Jovanotti tende a travalicare, tracimare, esondare. A sermoneggiare. Come Adriano: Celentanotti, più che Jovanotti.
Se a Celentano attribuiresti la strepitosa definizione che Jannacci ha dato di sé, «sono geniale ma non intelligente», a Jovanotti appiopperesti goliardicamente un riadattamento mogoliano: «Tu non sei molto bello/e neanche intelligente/ma non ti importa niente/perché tu non lo sai».
Lorenzo Cherubini (nomen omen: qua son tutti santi mancati in odor di beatificazione) è un efficace costruttore di ballate serenamente innocue. Bravo, anche nel tributo a De André di Fazio (tra santini si somigliano e pigliano). Bravo.
Ma Lorenzo travalica, politicheggia. Non lo fermi, la sua è una mission. Da quando ha trovato la sua Chiesa, che parte da Che Guevara e fa rima con Maria Teresa, passando da Malcolm X dopo una deviazione per San Patrignano, si è convinto che per parlare di politica basti aver letto la quarta di copertina di Insciallah e il Siddharta di Hesse.
Munito di queste armi alternativo-adolescenziali, una volta andò da Bruno Vespa, vivendo il suo Golgota di fronte a un Vittorio Sgarbi smisuratamente sadico. E quando a fine 2007 ha dovuto parlare del V-Day di Grillo, che ai tempi del «No Vasco io non ci casco» lo definì «cureggina», ha sentenziato: «Se dessimo retta a Grillo, Mandela non sarebbe presidente in Sudafrica». Asserzione, questa, su cui tuttora i politologi elucubrano sgomenti.
Lasciando stare le poco celebrative vulgate cortonesi, il paese in cui vive, e dando per falso il notevole aneddoto che narra di quando salì a cavallo al contrario, generando l’ira funesta dell’addestratore, Jovanotti fa tornare alla mente Tzvetan Todorov. Addirittura? Addirittura. Nel suo paradigma spontaneista, Todorov sosteneva che «l’autore porta i panini e il lettore organizza il picnic». Ecco: i panini di Jovanotti non hanno sapore (non per nulla è vegetariano e quasi astemio). Per questo Chef Lorenzo piace a Veltroni: perché è insipido. L’ovvio di Walter, più che del popolo. Perfetto come nuovo inno del Partito.
Troppo ambiziosa, quasi onirica, La canzone popolare di Fossati. Meglio, molto meglio Mi fido di te, a partire da quella strofa involontariamente auto-cassandrica: «Mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?». Risposta: di sicuro le elezioni.