La stabilizzazione dei mercati e dell'economia è la "priorità più alta" dei Sette e nel documento finale si evidenzia anche la necessità di evitare "l'eccessiva volatilità" delle valute.
I ministri finanziari hanno inoltre incaricato i loro rispettivi numeri due di redigere entro i prossimi quattro mesi un "legal standard", cioe' un rapporto su un insieme di regole universalmente condivise su proprietà, integrità e trasparenza nell’attività economica e finanziaria internazionale.
Il governatore della Banca d'Italia e presidente del Fsf (Financial Stability Forum) Mario Draghi, ha avvertito "Tutti gli istituti devono tirare fuori tutti gli asset tossici dai loro bilanci. La cosa più importante è che si faccia luce esattamente sulla qualità dei bilanci bancari [...] La velocità di peggioramento della crisi economia sta diminuendo ma partiamo da una situazione talmente negativa che è difficile capovolgerla in corso d'anno [...] Ho riferito sul lavoro che il Financial Stability Forum ha fatto e presenterà al G20. Le regole sono riassumibili in tre punti: più capitali, più riserve e standard più rigorosi per i vigilanti".
Parole, parole, parole....
La nazionalizzazione e' l'unica risposta
Michael Knigge intervista Joseph Stiglitz
Deutsche Welle - 13 Febbraio 2009
Traduzione per www. comedonchisciotte. org a cura di Vanesa
In una intervista con Deutsche Welle, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz parla di nazionalizzare le banche, del panorama per i paesi in via di sviluppo e del bisogno di un ente regolatore finanziario internazionale.
Jospeh Stiglitz ha ottenuto il premio Nobel per l’Economia nel 2001. Sotto la presidenza di Bill Clinton è stato presidente del Consiglio degli Assessori Economici dal 1995 al 1997. E’ stato il principale economista della Banca Mondiale dal 1997 al 2000 e autore principale della redazione del Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico del 1995, che ha ricevuto, condiviso, il Premio Nobel per la Pace. Attualmente è insegnante nella Columbia University a New York.
DW-World: Molti esperti temono che sebbene la situazione sia grave ora, ancora non abbiamo visto l’aspetto peggiore della crisi. Lei condivide l’idea che siamo di fronte ad una lunga discesa che potrebbe rivaleggiare con la grande depressione?
Joseph Stiglitz: Viviamo in un mondo molto diverso a quello della Grande Depressione. All’epoca esisteva un’economia manifatturiera. Adesso abbiamo un’economia del settori dei servizi. Molte persone negli Stati Uniti già adesso lavorano part-time perché non trovano lavoro a tempo pieno. La gente comincia a parlare di più su misure coerenti per la disoccupazione e c’è un alto tasso di disoccupazione, circa il 15%. Quindi, essendo così le cose, è chiaramente una discesa molto seria. Altra grande differenza tra l’oggi e la Grande Depressione è che allora non esisteva una rete di sicurezza. Adesso esiste un’assicurazione sulla disoccupazione. [Sarebbe come la cassa d’integrazione in Italia, ndt]
DW: Gli economisti Nouriel Roubini e Nassim Taleb, che hanno predetto la caduta dell’economia mondiale, hanno fatto un appello per la nazionalizzazione delle banche in modo da trattenere la debacle economica. Lei è d’accordo?
Stiglitz: Ciò che è certo è che le banche si trovano in una cattiva situazione. Il governo degli Stati Uniti le ha incentivate con miliardi di dollari con scarsi risultati. I cittadini statunitensi sono divenuti proprietari maggioritari di un grande numero di banche importanti. Ma non ne hanno il controllo. Qualsiasi sistema che abbia una separazione tra la proprietà e il controllo è una ricetta per il disastro. L’unica risposta è la nazionalizzazione. Queste banche certamente sono in bancarotta.
DW: L’Istituto Internazionale della Finanza calcola che il flusso privato del capitale verso i paesi in via di sviluppo verrà ridotto di un terzo. Stiamo arrivando a una situazione nella quale si potrà osservare un collasso totale di molti dei paesi che si stanno sviluppando?
Stiglitz: Penso che molti governi delle nazioni emergenti, in realtà, abbiano un sistema bancario centrale molto migliore di quello degli Stati Uniti. Loro hanno compreso i rischi dell’ eccesso di influenza, l’eccessiva dipendenza dai crediti sui beni primari, ed hanno realizzato, quindi, azioni molto più prudenti. Molti paesi che sono in sviluppo hanno, anche, accumulato grandi riserve e sono in una situazione migliore per affrontare questa crisi che segna il decennio.
Ma alcuni dovranno affrontare tempi molto difficili, sospensione di pagamenti. Alcuni di questi paesi stanno soffrendo per aver dato troppa attenzione a ciò che sta accadendo negli Stati Uniti.
DW: Si devono prendere delle misure per aiutare questi paesi in via di sviluppo?
Stiglitz: Definitivamente. Penso che è assolutamente imperativo non solo nell’interesse di quei paesi, non solo da un'ottica umanitaria, ma anche da una prospettiva di stabilità mondiale. Non è possibile avere una forte economia mondiale quando esistono grandi zone economicamente instabili.
La Banca Mondiale ha richiamato i paesi industrialmente avanzati affinchè, mentre salvano le proprie industrie e danno sussidi, mettano via qualcosa per i paesi in via di sviluppo, che non possono competere su un terreno di gioco che non è alla pari.
DW: Il Presidente Obama ha attaccato le banche per aver pagato miliardi in royalties ai dirigenti mentre si era ancora sull'orlo del collasso. Lei è d’accordo con lui che questo comportamento è “vergognoso” e “irresponsabile”?
Stiglitz: Si, è vergognoso e irresponsabile. Ma non è una novità…. durante molti anni, dirigenti di aziende importanti degli Stati Uniti hanno difeso i loro vergognosi compensi, dicendo che erano importanti quanto il piano di incentivazione. Come si possono consegnare bonus di miliardi quando un’azienda ha avuto perdite record di miliardi di dollari? Non gli si devono dare bonus, li si dovrebbe punire. A meno che non stiano premiando le persone per aver fallito.
DW: Nel suo discorso al Foro Economico Mondiale, il cancelliere tedesco Merkel ha avvertito gli Stati Uniti sul protezionismo e ha criticato i sussidi ai fabbricanti di automobili statunitensi. La Merkel ha ragione? Lei crede che esista il pericolo che Stati Uniti ricorrano a misure protezionistiche?
Stiglitz: Si, molto probabile. Da sempre sappiamo che il protezionismo assuma due forme. Tariffe e sussidi. I sussidi distorcono il campo di gioco allo stesso modo che le tariffe. I sussidi sono molto più ingiusti e ancor molto più disorientanti, perché mentre i paesi sviluppati possono consegnare sussidi, i paesi poveri non possono permettersi tale lusso. I paesi ricchi stanno distorcendo il livello del campo di gioco consegnando sussidi, non necessariamente con l’intento di fare protezionismo, ma con le conseguenze del protezionismo.
DW: La Merkel , recentemente, ha fatto un appello per la creazione di un organismo internazionale di supervisione finanziario, e sta crescendo il consenso su questo tema. Quanto realista, lei pensa, può essere l'idea che i governi e le compagnie concedano sovranità a un ente internazionale?
Stiglitz: L’idea della Merkel è molto importante ed è da tanto che la condivido. Deve esistere una coordinazione della politica economica mondiale oltre il FMI, che ha fallito, e della Banca Mondiale. Non si può dire che dobbiamo avere confini aperti senza regolamentazione globale. E’ inconcepibile che mentre avanziamo permettiamo che i prodotti finanziari che sono molto rischiosi, fabbricati in paesi con una regolamentazione non idonea, vengano negli Stati Uniti senza essere regolamentati, o viceversa. Le compagnie internazionali che sono compromesse con la globalizzazione dovrebbero essere all’avanguardia in questo appello a favore della regolamentazione internazionale.
A rotta di collo…!
di Perluigi Paoletti - www.centrofondi.it - 14 Febbraio 2009
Sul fronte delle notizie economiche stiamo assistendo ad un bollettino di guerra con diminuzioni di percentuali che riportano indietro di molti anni le economie considerate più avanzate, addirittura l’Inghilterra, la cui economia è tra le più agonizzanti, paga un premio di rischio (CDS) più che doppio (127) rispetto a Giappone (58) o alla Germania (53).
E come meravigliarsi se già parecchio tempo fa avevamo avvisato che il debito privato degli inglesi aveva oltrepassato addirittura il PIL?
Le banche centrali hanno abbassato il costo del denaro, come da copione, con i tassi ai minimi storici, roba mai vista prima di oggi con gli Usa allo 0,25% , la Svizzera allo 0,5% e Inghilterra all’1%, mentre dietro segue la bce al 2% per avvantaggiare e aiutare, come sempre, i paesi anglofoni.
Addirittura possiamo intravedere anche un nuovo rischio di carry trade da parte degli speculatori, magari questa volta più sull’euro che può ammortizzare meglio essendo l’economia più vasta. Inevitabile comunque l’apprezzamento della valuta europea nei confronti dei paesi con i tassi più bassi. Secondo noi ad autunno dovrebbe finire il ciclo di medio periodo del rapporto euro/dollaro e questo potrebbe sancire la morte del dollaro che potrebbe arrivare nei mesi seguenti anche a 2 dollari per un euro con tutte le conseguenze che comporta per noi e per loro.
Nel contempo il grafico shock della crescita della massa monetaria ci dimostra come si voglia continuare con la solita vecchia medicina a dosi questa volta di una forza inusitata!
E non si smentisce nemmeno il governo italiano che non trova altri rimedi migliori che i soliti e inutili incentivi all’auto e ai frigoriferi.
Molti economisti di regime dicono addirittura che la crisi durerà pochi mesi e i media nascondono sistematicamente le notizie che provengono dall’est europa e che parlano di moti popolari http://www.bulgariaitalia.com/bg/news/news/02476.asp
Paesi, come la Lituania, Lettonia, Bulgaria, ma anche la stessa Polonia, stanno avendo il contraccolpo dell’entrata nell’euro con un’impennata del PIL dato dalla delocalizzazione delle imprese dell’area euro che trovavano lì manodopera a basso costo e sgravi fiscali, poi la solita politica delle privatizzazioni pilotate per appropriarsi dei beni pubblici e la distruzione dell’agricoltura per rendere quei paesi sempre più dipendenti dalla globalizzazione.
Nel momento in cui le imprese si sono spostate in Asia per andare a trovare migliori condizioni di sfruttamento con la crisi economica globale, ha gettato nel baratro questi paesi che adesso hanno dato vita a insurrezioni, molte delle quali represse duramente dalla polizia.
Questo silenzio non fa bene, perché non fa riflettere le persone sulla gravità della crisi in atto e rende le persone passive e impreparate. Crisi questa che noi abbiamo da sempre definito sistemica e destinata a cambiare radicalmente l’economia e l’assetto sociale attuale.
Va detto però che tra le notizie di stupri, episodi di razzismo contro immigrati, le intercettazioni, la riforma della giustizia, il negazionismo e l’eutanasia, filtrano delle dichiarazioni importanti che devono far riflettere. Ci riferiamo alla dichiarazione del Presidente Napolitano, riportata dal TG1 l’11 dicembre scorso durante il resoconto di una manifestazione pubblica: “Crisi di non breve durata della quale sarà difficile avere ragione e dalla quale potrà uscire un mondo molto diverso da quello attuale”
Oppure quella del presidente della Camera Fini riportata dal TG2 del 2 febbraio scorso:
"Stiamo vivendo tempi che richiedono risposte innovative e lungimiranti perché le scelte odierne avranno ripercussioni decisive nel futuro. Perché non stiamo vivendo una crisi congiunturale, ma una fase di trasformazione strutturale, forse irreversibile, nelle economie europea e mondiale."
Sono affermazioni importanti e gravi a cui però dovrebbe seguire fatti conseguenti e invece rimangono solo parole che passano il più delle volte inosservate perché inserite in manifestazioni pubbliche e in servizi che durano solo pochi secondi. Nessuno però potrà rimproverarli di non avercelo detto….
L’oro sta avvalorando la fuga dalla carta straccia (azioni, obbligazioni, valute ecc.) perché in euro ha toccato i massimi storici.
E una certa difficoltà a reperire oro fisico, riportataci da un operatore del settore, fa pensare che molti stiano cercando nell’oro la tranquillità che altri settori non offrono.
Molti sul web azzardano che il crollo vero e proprio inizierà a marzo, ma la cosa non ci trova concordi perché sappiamo che prima ci dovrebbe essere una (falsa) ripresa economica di pochi mesi, max un anno, dettata dall’enorme liquidità immessa e che molto probabilmente aiuterà anche i listini azionari che stanno consolidando i minimi ormai da diversi mesi.
Personalmente ci aspettiamo una ripresa dei corsi azionari, magari dopo un altro affondo al ribasso, che
anticipa la ripresina di fine anno, non in Italia però che ha problemi molto più gravi e profondi come abbiamo visto nell’ultimo report.
Secondo noi la crisi mondiale vera e propria arriverà dopo questo tentativo di ripresa più o meno nella seconda metà del 2010 e fino al 2012-2013, anni in cui si azzererà completamente la torre di babele del debito che ad oggi è ancora a livelli enormi.
That’s all folks.
Pechino all’America: siamo costretti a finanziarvi
di Federico Rampini - La Repubblica - 14 Febbraio 2009
“Vi odiamo ma non possiamo fare a meno di voi”. E’ con insolita schiettezza che uno dei massimi dirigenti della politica monetaria cinese ha riassunto lo stato d’animo che regna ai vertici di Pechino verso l’America.
La confessione è venuta da Luo Ping, direttore generale della commissione di vigilanza bancaria cinese, in occasione di un suo incontro con un gruppo di banchieri americani a Wall Street. Esprimendosi in un inglese colloquiale e molto diretto, Luo Ping ha stupito i suoi interlocutori dicendo ad alta voce quello che molti pensano: “Vi odiamo, ragazzi. Vi preparate a inondare i mercati finanziari con nuove emissioni di titoli del debito pubblico, tra i 1.000 e i 2.000 miliardi di dollari aggiuntivi. E noi sappiamo ciò che significa: il dollaro è destinato a perdere valore. Ma vi odiamo perché non possiamo fare altro che comprare i vostri titoli. In che cos’altro si può investire oggi per essere al sicuro, al di fuori dei Treasury Bonds americani? Oro? Certo non obbligazioni giapponesi o inglesi”.
Lo stesso Luo Ping ha escluso però che gli investitori istituzionali cinesi possano tornare a Wall Street in veste di “cavalieri bianchi” per iniettare capitali nelle banche americane (cosa che fecero inopinatamente fino a un anno fa). Nonostante che i prezzi dei titoli bancari siano crollati, secondo Luo non è ancora giunto il momento per fare incetta di partecipazioni azionarie nelle banche di Wall Street. “Non ci saranno acquisizioni opportunistiche, perché ancora non è chiaro quale sia la qualità dei bilanci delle banche”.
Tu chiamali se vuoi, licenziamenti
di http://bamboccioni-alla-riscossa.org/ - 13 Febbraio 2009
Il “Corriere della Sera” la chiama una svolta “verde”. “La Stampa”, idem. Mentre “La Repubblica”, invece, preferisce metterla giù in altri termini: “Pirelli ristruttura e taglia il dividendo”. Ma in un italiano, diciamo così, più spicciolo, si potrebbe banalmente dire che il gruppo Pirelli - famoso per i suoi pneumatici e per la faccia perennamente imbronciata del suo numero uno (al secolo, Marco Tronchetti Provera) - ha chiuso un pessimo 2008. Con un discreto mucchietto di debiti sulle spalle (oltre un miliardo di euro). E conti in affanno. Risultato: per il prossimo anno - come ha spiegato ieri il suo imbronciatissimo presidente - si punterà, sì, su nuove gomme ecologiche. Ma soprattutto su una valanga di licenziamenti.
Per la precisione: a perdere il posto, secondo l’agenzia di stampa americana Bloomberg, saranno ben 1.500 dipendenti (qualcosa come il 15% del totale) solo nel settore pneumatici. Più oltre 600 lavoratori (su 1.437) nella divisione “Real Estate” (nome “esotico” per qualcosa che tanto esotico non è: ossia il casereccio braccio immobiliare del gruppo). Numeri da brivido. Eppure quella funesta parola con la “elle” - licenziamenti, appunto - sulle pagine dei tre principali quotidiani italiani semplicemente non c’è. Al suo posto un florilegio di espressioni che sanno tanto di neolingua di orwelliana memoria. “Riduzione dell’organico” (Repubblica). “Razionalizzazione delle strutture produttive” (Corriere). E per finire (sulle pagine de “La Stampa) la più franca di tutte: “tagli di dipendenti” (che sa tanto di giardinaggio e di lavoratori uguale rami secchi; però almeno rende l’idea). Peccato solo che la sostanza del problema rimanga.
E il problema - in questo primo scorcio di 2009 - non sono solo i licenziamenti. Ma il fatto che giornali e tiggì, come dire?, fatichino a trovare spazio e parole per parlarne. Per capirci: a “tagliare”, non è solo Pirelli. Ma per scoprire che anche il re dei maglioni Benetton chiuderà in tronco un intero stabilimento (quello di Piobesi; 20 chilometri da Torino), bisogna avere la pazienza di arrivare fino a pagina 120 dell’ultimo numero de “L’espresso”. Mentre proprio oggi: per sapere che Brembo, quella dei freni, manderà in cassintegrazione più di mille lavoratori (tra marzo e maggio, a rotazione), bisogna arrivare fino alla sezione “Economia” del solito “Corriere” (cioè da pagina 30 in avanti). E solo dopo aver fatto lo slalom tra notizie di ogni tipo. Compresa un’autentica chicca: il nostro ministro della Difesa, Ignazio La Russa ha indeciso di inviare a tutti i nostri soldati un manuale per buttar giù la pancetta (”eroici sì, grassi no”). Come a dire: uno scoop. Ma di cui si poteva tranquillamente fare a meno.
E dire che, invece, su internet basta poco. Basta digitare la famosa parolina con la “elle” su “Google” e subito si scopre che quella dei licenziamenti ha tutta l’aria di un vera e propria ondata. Che non risparmia nessuno. Nord. E sud. Aziende piccole; aziende medie; e aziende grandi. Solo negli ultimi dieci giorni: l’italianissima De Agostini ha aperto le trattative per licenziare 237 persone. La multinazionale Hugo Boss ha avviato le procedure per mettere in mobilità 59 dipendenti nel suo stabilimento in provincia di Macerata. Mentre la “Ratti” - azienda tessile del comasco, che fa viaggiare i suoi impianti al 50% - ha chiesto e ottenuto la cassaintegrazione per 520 dipendenti di tutti i reparti (per 12 mesi e a rotazione).
E ancora. Gli operai della Emilceramica, a Modena, hanno protestato contro altri 116 licenziamenti. La Asm di Avellino, che fa parte dell’indotto Fiat, ha tagliato 33 interinali (con tanto di coda di sciopero ad oltranza). Mentre la società di call center “Conversa” di Napoli ha deciso di chiudere direttamente i battenti. Lasciando con un palmo di naso i suoi 151 dipendenti. Va da sè che non è finita qui. Che ci sono anche fatti di cronaca eclatanti: due dipendenti di una impresa di pulizia, sempre a Napoli, hanno addirittura minacciato di buttarsi da una terrazza per paura di essere licenziate. Mentre - stando a un’interrogazione presentata dalla senatrice Pd, Colomba Mongiello - anche lo stato ha fatto la sua parte. Tagliando con la mannaia i fondi per i lavoratori socialmente utili. E mettendo a rischio altri 20.000 posti di lavoro in tutto il meridione. Ma niente da fare. Di questa ondata, sulle prime pagine della stampa titolata, non c’è traccia.
Qualcuno potrebbe dire che le Cnn e i New York Times de’ noantri si siano fatti contagiare dalle lune e dal celebre ottimismo del nostro presidente del consiglio. Che ultimamente preferisce discettare di bioetica, piuttosto che promettere (come faceva un tempo) milioni di posti di lavoro. Qualcun altro - sempre pensando male - potrebbe insinuare che alcune delle aziende che licenziano sono anche ottimi inserzionisti pubblicitari. E i più maligni potrebbero perfino ricordare che dietro alcuni giornali ci sono imprenditori che hanno attività che nulla hanno a che fare con l’editoria e che magari non hanno nessuna voglia di lavare certi panni sporchi in pubblico. Come Pirelli che è azionista, per coincidenza, proprio del Corriere della Sera. O la Fiat che è proprietaria de La Stampa e azionista del Corriere. E che pochi giorni fa - lo sapevate? - ha deciso di mettere in cassa integrazione (per un paio di settimane, a marzo) anche 5mila “colletti bianchi” (dopo gli operai a Natale). Ma noi bamboccioni alla riscossa non siamo maligni. E non vogliamo pensare male.
Anzi - al coraggiosissimo direttore del Corriere, Paolo Mieli; al valorosissimo collega de La Stampa, Giulio Anselmi e all’audace numero uno di Repubblica, Ezio Mauro - vogliamo fare i complimenti. Perchè siamo convinti che fossero animati dalle migliori intenzioni: evidentemente volevano distrarre i loro lettori da quella che i giornali di mezzo mondo definiscono la peggior crisi economica dalla Grande depressione. Non volevano guastargli le giornate, insomma. E ci sono riusciti. Informare, però, è un’altra cosa.Il mio futuro come trafficante d'armi
di Terry Jones - The Nation - 22 Gennaio 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Elena Orlandi
Ho deciso di cominciare una nuova carriera come fabbricante di armi. Nulla di troppo ambizioso, solo qualche piccola arma, qualche fucile automatico e forse un paio di bombe. Insomma, quel genere di cose.
Non è che mi piaccia uccidere la gente, in realtà non ho ucciso nessuno, per ora. E’ solo una faccenda che ha a che fare con l’economia.
Vedete, non posso fare a meno di notare che l’industria degli armamenti sta andando benissimo. Infatti, in questo periodo di disastri economici, è uno dei pochi settori che sembra in espansione.
Secondo la Goverment’s Defence and Security Organization la Gran Bretagna è diventata l’esportatore maggiore di mezzi di difesa, segnando un magnifico segno più di new business per 10 miliardi di sterline e prendendosi un 33% del mercato, una percentuale enorme.
Infatti la Gran Bretagna ora è il secondo attore nel mercato globale delle armi, con fatturato di 53 miliardi, superata solo dagli Stati Uniti con 63 miliardi, a confronto con i miseri 33 della Russia, i patetici 17 della Francia, mentre seguono in coda Germania e Israele con 9 ciascuno.
E in questo momento difficile per l'economia, le cose sembrano mettersi bene anche per il futuro. Nel 2007, l’acquisto globale di armi è cresciuto del 6% per un totale di 1,3 miliardi di sterline. E secondo il Centro per il Controllo delle Armi e la Non Proliferazione, gli Stati Uniti hanno speso 696 miliardi di dollari l’anno scorso, ed è stabilito che quest’anno la spesa aumenterà fino a 706 miliardi.
Le operazioni americane in Iraq costano 14 milioni di dollari all’ora. Sono 342 milioni al giorno, oppure 3,973 dollari al secondo, fate voi. Quando avrete finito di leggere questo articolo, gli Stati Uniti, tra Iraq e Afghanistan avranno speso un altro milione!
C'è una quantità enorme di polpa in tutto ciò, e a me non dispiacerebbe affatto partecipare a questo banchetto. Quello che ammiro nell'industria delle armi è la sua abilità nel difendere i suoi interessi e a investire risorse per aiutare a sviluppare il suo fatturato. E di risorse da investire ne ha molte!
La scorsa estate, per esempio, la NRA (National Rifle Association, l'associazione dei produttori di armi degli Stati Uniti) ha annunciato che intendeva investire 40 milioni di dollari nella campagna per le elezioni presidenziali. Una bella quantità di denaro, vero? e di questi soldi, 15 milioni sono stati investiti esclusivamente per persuadere gli americani che Obama sarebbe stato una minaccia per coloro che possiedono armi.
Non avrebbero certo sparso in giro tutto quel denaro se non avessero pensato che potesse servire. E certamente serve.
Nella corsa presidenziale del 2000 l'industria delle armi diede a Bush cinque volte più denaro che a Gore. Bush, fu puntuale nel dimostrare la sua gratitudine, raddoppiando la spesa per gli armamenti che è passata dai 333 milioni di dollari del 2001 ai 696 del 2008.
E dal novembre scorso, il Presidente uscente si è premurato di chiudere una marea di accordi di esportazioni di armi, giusto per assicurarsi che i suoi amici non dovessero patire alcuna crisi economica.
Sono certo che con amici così fedeli, se divento anch'io un produttore di armi posso dormire sonni tranquilli.
C'è un altro fattore che mi ha persuaso a intraprendere questa carriera, ed è che sono dei professionisti imbattibili a creare mercato.
Una delle priorità di qualsiasi settore industriale è di creare mercato per i propri prodotti. Non ti puoi basare solo sulla domanda, devi andare in giro e stimolarla, la domanda. E qui è dove questa industria dimostra la sua grandezza, alla pari con i produttori di eroina e di crack.
Giusto per capire: pensate a cosa è successo dopo il crollo del comunismo, che ha dato da mangiare a questa gente fin dalla Seconda Guerra Mondiale. L'industria non aveva più ordini. Come la mise ai tempi Colin Powell stavano “finendo i nemici”, ma durò solo sei mesi.
Ricordo che ai tempi lessi un editoriale in una rivista chiamata Armi Oggi che descriveva come l'industria stesse vivendo tempi cupi. Ma “In alto il morale” scriveva il giornalista, perché ora che Saddam Hussein ha invaso il Kuwait le cose cominceranno ad andare meglio, l'industria può guardare con speranza all'Islam come sostituto del Comunismo per continuare a vendere armi.
Per essere onesti, quando nel 1990 lessi quest'articolo, pensai che erano fuori di testa, ma ora mi rendo conto che non si dovrebbero mai sottovalutare la professionalità e le capacità dei fabbricanti di armi nel creare mercato per i loro prodotti.
Non so come abbiano fatto, ma sono certo che i miei futuri colleghi sono abilissimi nel far diventare realtà i loro sogni.
E ora, come il DSO (date sales outstanding, calcolo del tempo di vendita ndt) nota con soddisfazione, c'è stato “una accelerazione della spesa in Medio Oriente”. E finché gli Stati Uniti continueranno a incoraggiare Israele a scatenare l'inferno su Gaza, con la conseguenza di incendiare la reazione islamica per la quale stiamo tutti pregando, noi, fabbricanti di armi possiamo sperare in un futuro certo, sicuri nella consapevolezza che “il mercato regionale mediorientale” ci porterà verso un radioso futuro.
Non vedo l'ora di entrare anch'io nel business.
Terry Jones è regista e attore e membro dei Monty Python