venerdì 27 febbraio 2009

Una protesta in crisi?

Qui di seguito si parla di una delle conseguenze di questa crisi economica globale: la protesta globale.


Crisi, la protesta diventa globale: 50 milioni di lavoratori rischiano di restare senza posto
di Federico Fubini - Il Corriere della Sera - 27 febbraio 2009

Sul calendario, la polizia di Londra ha già marcato in rosso le date che potrebbero incendiare la primavera dello scontento. Ed è un'ironia amara per Gordon Brown che il giorno segnato come il più infiammabile sia quello che, nei piani, doveva assicurare l'apoteosi del premier in vista delle elezioni. Il 2 aprile, vertice dei leader del G20, rischia invece di dimostrarsi l'opposto: secondo David Hartshorn, capo dell'ordine pubblico alla polizia londinese, potrebbe innescare una stagione di disordini, picchetti, regressione allo scontro sociale dei primi anni di Margaret Thatcher.

Brown sa che è possibile. Lo ha capito quando il blocco agli impianti Total nel Lincolnshire, contro l'impiego di 300 operai italiani e portoghesi, si è trascinato dietro scioperi selvaggi di solidarietà in tutto il Regno. La recessione e i licenziamenti colpiscono in Gran Bretagna più duro che altrove, ma il governo di Londra non ha certo l'esclusiva delle piazze coi nervi a fior di pelle. A fine gennaio in Francia due milioni e mezzo di lavoratori, dalle infermiere ai professori, hanno decretato una plateale paralisi del Paese e da settimane le ex colonie alle Antille vivono nella violenza di piazza.

In Grecia il mese scorso studenti e disoccupati hanno messo a ferro e fuoco le città, quindi gli agricoltori hanno bloccato le arterie di traffico del Paese fino a che il premier Costas Karamanlis è stato forzato a cambiare 9 ministri su 16. In Turchia, Bulgaria e Lituania i cortei anti- governativi sono degenerati nella violenza. In Islanda e Lettonia, entrambe colpite dal contagio finanziario, i dimostranti hanno già licenziato i governi mentre anche a Dublino ormai il malumore si è rovesciato in strada. Persino sistemi autoritari che dalla crescita traevano la loro legittimità, da Mosca e Pechino, fanno ormai i conti con l'impatto della crisi sugli equilibri fra cittadini e potere.

Di rado una recessione così è rimasta senza conseguenze politiche, e questa potrebbe non fare eccezione. Secondo l'Ituc, l'associazione internazionale dei sindacati, il 2009 produrrà nel mondo 50 milioni di nuovi disoccupati: tutti i lavoratori di Italia e Francia messi assieme. Per dirla con Rupert Murdoch, il cui impero dei media è un termometro degli umori in tre continenti, questa fase «ridefinirà le nazioni alle fondamenta». Di sicuro potrebbe farlo con certi leader, a giudicare dalla parabola curiosamente simile di Gordon Brown e Nicolas Sarkozy negli ultimi mesi. Quando in autunno la crisi è entrata nella sua fase acuta, la popolarità interna di entrambi ha avuto un soprassalto grazie al loro ruolo globale: l'attivismo di Sarkozy in Europa e quello di Brown nel proporre al G7 misure per le banche, avevano elevato il profilo di entrambi e placato le opinioni pubbliche. Non è durato molto.

In Gran Bretagna la forbice con i conservatori è tornata ad aprirsi, con il Labour ora di nuovo indietro di dodici punti; secondo un sondaggio IMC per il Guardian, il 63% degli elettori pensa ora che i laburisti dovrebbero cambiare leader. E la minaccia xenofoba resta appena sottopelle: Hartshorn, alla polizia di Londra, avverte che il gruppo neofascista «Combat 18» sta reclutando nuove forze grazie al malumore verso i lavoratori dell'Europa dell'Est assunti nei cantieri per le Olimpiadi del 2012.

Anche da questa parte della Manica i sondaggi segnalano allerta rosso. Lo sciopero generale del 29 gennaio e i disordini della Guadalupa, dove un sindacalista è morto, non sono i soli campanelli d'allarme per Sarkozy. Il leader, è vero, capta i segnali e non si risparmia: sei miliardi al settore auto purché gli impianti restino in Francia, 2,5 per sostenere i consumi, aumenti ai funzionari alle Antille. Ma quando lui stesso è andato in diretta per un'ora e mezza a reti unificate dopo lo sciopero, ha tenuto fermo il timore: «Avanti con le riforme». Peccato che, secondo Tns Sofrès, il 58% dei francesi dichiari che il presidente «parla molto ma non fa granché» e per il 57% il Paese «va nella direzione sbagliata» (solo per il 31% in quella «giusta»). Quanto alla Guadalupa, quattro francesi su cinque pensa che la rivolta sia «giustificata».

Lo spettro dell'Eliseo, spiega l'ex editorialista di Le MondePatrick Jarreau sul sito «Rue89», è il '95: allora la piazza paralizzò Jacques Chirac proprio quando l'Eliseo pareva onnipotente. Nel giro di pochi giorni, Chirac fece del suo primo ministro Alain Juppé il capro espiatorio. Ma il paradosso stavolta è che in quella posizione a Mosca potrebbe trovarsi ora Vladimir Putin, ad opera del «suo» presidente Dmitrij Medvedev. Questi biasima in pubblico la lentezza del governo nel reagire alla crisi, magari perché cerca così di anticipare il disorientamento dei russi. In mezzo milione hanno perso il posto a dicembre, in trecentomila a gennaio e in un anno l'economia è crollata dell'8,8%. A Mosca, Pskov, Volgograd e soprattutto a Vladivostok, nell'estremo oriente, la polizia è intervenuta a reprimere le proteste di piazza. Nei porti sul Pacifico il malumore si concentra contro i dazi all'import di auto giapponesi usate, a difesa della decrepita industria russa. Ma la violenza delle forze anti- sommossa, che ancora circola su You Tube, ha solo acuito la tensione. L'indice di gradimento della coppia Putin-Medvedev resta alto, eppure secondo l'istituto di sondaggi Levada metà dei russi pensa che il governo non faccia abbastanza per il potere d'acquisto.

Anche la leadership cinese annusa il pericolo, registra le sommosse davanti alle fabbriche sbarrate a Canton e altrove e cerca di tappare le falle: 460 miliardi di euro di investimenti per dare lavoro nei nuovi cantieri, aiuti all'acquisto di beni di consumo. Ma per Pechino la sfida della stabilità sociale resta delicata: solo negli ultimi mesi, in 20 milioni hanno perso il posto mentre ogni anno il sistema deve assorbire 15 milioni di migranti dalle campagne e sei di nuovi laureati.

Al confronto i 120 mila in piazza a Dublino contro il governo di Brian Cowen sabato scorso, la più vasta manifestazione di sempre sull'isola, sono ben poco. Forse però solo in apparenza: l'economia sta collassando del 10%, la finanza privata e pubblica sono vicine alla respirazione artificiale. E fra qualche mese, gli irlandesi devono gettare nell'urna del referendum la scheda decisiva per far vivere, o morire, la carta costituzionale europea.



La grande crisi: il conflitto sta per scatenarsi
di Pino Cabras - Megachip - 26 Febbraio 2009

Una cosa poco raccontata della crisi economica mondiale – almeno in Italia – è la crescita di grandi movimenti di protesta nel mondo del lavoro. Abbiamo cercato di dar conto sia di quanto si è mosso in altri paesi, sia delle iniziative organizzate in Italia dalla Cgil, che sono solo un’avvisaglia di avvenimenti più forti in vista. Segnali non trascurabili arrivano anche dal sindacalismo di base, alternativo e indipendente, con una sua distinta piattaforma di rivendicazioni rivolte ad alcuni nodi difficili del mondo del lavoro: temi che solo qualche tempo fa sarebbero stati un tabù, ma oggi diventano improvvisamente più “legittimi”.

Il contesto è quello che ha visto in poche settimane «Il Sole 24 Ore» e «The Economist» passare dalla vulgata neoliberista a fenomenali esaltazioni dell’intervento pubblico nell’economia. È una circostanza storica in cui anche il sindacalismo più eterodosso acquista una forza particolare, e le sue “visioni” appaiono un’offerta rivendicativa capace di rompere molti schemi. Accade in tutta Europa, e l’Italia non farà eccezione. Non né un caso che il governo, questo governo, sempre più sospinto a misure che intendono forzare la Costituzione, abbia puntato la prua contro il diritto di sciopero.

L’Assemblea nazionale del Patto di Consultazione Cub, Cobas e Sdl ha indetto una manifestazione nazionale (28 marzo 2009) e uno sciopero generale e generalizzato con manifestazioni regionali (23 aprile) per proporre una nuova piattaforma a ridosso dell’accelerarsi della Grande Crisi e in previsione degli imminenti sconvolgimenti nel mondo del lavoro. Il sindacalismo alternativo punta proprio al bersaglio grosso, la Grande Crisi: «essa è una crisi globale, strutturale, di sistema che investe tutto il sistema di produzione e di vita capitalistico. C’è un intreccio micidiale di crisi, che ingigantiscono quella economica, già di per sé enorme; c’è una crisi ambientale, poiché la devastazione della natura e i cambi climatici mettono in discussione addirittura la continuità della vita in tanti parti del mondo, una crisi energetica e una crisi alimentare. E a compenetrarle tutte, c’è la gigantesca crisi legata alla guerra permanente e globale che percorre il mondo: la guerra, lungi dall’attenuarsi, viene vista dai padroni del mondo come la carta a disposizione per placare le altre crisi del sistema.»Un sindacato di minoranza vuole opporsi a tutto questo? Sarebbe un “vasto programma”, avrebbe forse detto De Gaulle.

Ma la carne viva del lavoro oggi, fra nuove disuguaglianze e un precariato di massa che mette in mora già in questi mesi le residue certezze di milioni di lavoratori (milioni, si badi), trova immediatamente un terreno di scontro su chi dovrà pagare i costi della crisi. Le disuguaglianze si presentano con dura evidenza, mentre filtrano le cronache dei bonus che ancora remunerano i banchieri che hanno determinato la corsa al disastro, intanto che gli stati corrono a salvare prima di tutto proprio queste figure tragiche del nostro tempo e il loro sistema. «Ma la crisi, come dice la parola stessa che rimanda a trasformazioni e cambiamenti, può anche essere – dicono i sindacati di base - una grande occasione di mutamento dei parametri per la vita sul globo.» Ammettono che la possibilità non è affatto scontata: «in passato grandi crisi hanno anche prodotti brutali involuzioni reazionarie». Facendo riferimento a questo quadro in rapidissimo movimento, il Patto di Consultazione punta comunque a specifiche proposte legate alla vicenda italiana e alle sue relazioni industriali, riconoscendo che la Cgil si colloca in una posizione molto diversa dagli altri sindacati confederali.

Pronti dunque a giocare un ruolo nella fase di apertura del conflitto sociale nel momento in cui il governo vorrebbe stringere le viti delle forme di contrattazione indebolendo le rappresentanze sindacali.

La piattaforma rivendicativa si riassume nei seguenti punti:

1. Blocco dei licenziamenti;

2. Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;

3. Aumenti consistenti di salari e pensioni, introduzione di un reddito minimo garantito per chi non ha lavoro;

4. Aggancio dei salari e pensioni al reale costo della vita;

5. Cassa integrazione almeno all’80% del salario per tutti i lavoratori, precari compresi, continuità del reddito per i lavoratori “atipici”, con mantenimento del permesso di soggiorno per gli immigrati;

6. Nuova occupazione mediante un Piano straordinario per lo sviluppo di energie rinnovabili ed ecocompatibili, promuovendo il risparmio energetico e il riassetto idrogeologico del territorio, rifiutando il nucleare e diminuendo le emissioni di CO2;

7. Piano di massicci investimenti per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, sanzioni penali per gli omicidi sul lavoro e gli infortuni gravi;

8. Eliminazione della precarietà lavorativa attraverso l’assunzione a tempo indeterminato dei precari e la re-internalizzazione dei servizi;

9. Piano straordinario di investimenti pubblici per il reperimento di un milione di alloggi popolari, tramite utilizzo di case sfitte e mediante recupero, ristrutturazione e requisizioni del patrimonio immobiliare esistente; blocco degli sfratti, canone sociale per i bassi redditi;

10. Diritto di uscita immediata per gli iscritti/e ai fondi-pensione chiusi.

Il governo va già in direzione opposta. Le restrizioni al diritto di sciopero e il preteso ritorno agli enormi investimenti per l’energia nucleare sono cosa di queste ore, e saranno punti di frizione fortissima nei prossimi mesi. Anche dalla Cgil arrivano reazioni durissime. Il più grande sindacato sottolinea la gravità dell'attacco alla Costituzione: «lo sciopero infatti è un diritto soggettivo del lavoratore e non può essere in alcun modo impedito.»

Il provvedimento del governo sarà il tema chiave della manifestazione nazionale che si svolgerà a Roma il 4 aprile 2009 per respingere l'accordo separato fra governo da una parte e Cisl, Uil e Ugl dall’altro. In due settori vasti e cruciali come il pubblico impiego e la scuola i lavoratori hanno votato in massa al referendum sui contratti firmati solo da Cisl e Uil seppellendoli sotto una valanga di no.

Si incrociano dunque date diverse, strategie e pesi differenti nel mondo del lavoro. In mezzo alle lotte sociali si giocherà anche una battaglia egemonica fra diversi modi d’intendere il ruolo del sindacato. Nel frattempo, Berlusconi sembra avere una gran fretta di chiudere la partita costituzionale per essere lui il nocchiero della nave in gran tempesta. Per posizionarsi meglio impone un’agenda mediatica che silenzia il più possibile i temi della crisi e del lavoro, e impone inoltre un’agenda politica che parla lo stesso d’altro, anche perché il principale presunto oppositore, il PD, glielo lascia fare.

Senza sponde forti, nulla ammorbidirà le abrasioni di uno scontro sociale inevitabile, data la portata della crisi.




Piazze piene in Europa, pagine vuote in Italia
di Paolo Maccioni - Megachip - 2 febbraio 2009

L'Europa da est a ovest è in sussulto ma in Italia ne sappiamo poco o nulla. Abbiamo già visto su questo sito un riassunto di notizie sullo scossone di rivolte e proteste che sta investendo l’Europa, causate dalla Grande Crisi economica globale. Eppure in Italia si registra ben poco di tutto ciò.

Anche stavolta come a gennaio non è necessario spulciare testate indipendenti né scovare blog con le antenne ben puntate: addirittura sugli organi mainstream si dà conto dell’ondata di proteste di massa, scioperi, marce che da Mosca a Reykjavik, da Riga a Madrid sta invadendo il Vecchio Continente. Un malumore diffuso che ha invaso e che sta inondando Russia, Repubblica Ceca, Lettonia, Estonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Creta, Grecia, Francia, Spagna, Islanda, Gran Bretagna.

Ma sotto la nostra italica campana di vetro poco di tutto ciò. Nulla sulle prime pagine, ben poco su quelle interne di grandi e piccoli quotidiani italiani, nulla nei serpentoni dei tg, niente. Come se i fatti non stessero accadendo, ora, accanto a noi. Eppure le notizie ci sarebbero pure, anzi ci sono e come. Non solo, ma sono pure di quel tipo che fanno vendere copie o crescere l’audience, ormai gli unici criteri validi in grado concedere ad una notizia il diritto di cittadinanza sui media nostrani.

«Le proteste antigovernative sono rare in Russia» come notano in un articolo a firma congiunta Michael Schwirtz e Clifford J. Levy sull’«Herald Tribune» del 1 febbraio, «e queste ultime di sabato, a Mosca e in parecchie altre città in tutto il paese, arrivano fra la crescente rabbia popolare con un governo non abituato a critiche massicce e diffuse dopo anni di forte crescita economica».

Le ragioni delle proteste dovrebbero suonarci familiari: «Il governo ha stanziato miliardi di dollari per il bail out delle banche in difficoltà ma non ha ancora pianificato una chiara strategia a lungo termine per fronteggiare la crescente disoccupazione e la rapida svalutazione del rublo.

Circa 1000 persone hanno preso parte ad una marcia organizzata dal Partito Comunista Russo a Mosca, chiedendo il ritorno delle politiche economiche centralizzate dell’Unione Sovietica. In un’altra parte della città circa 200 manifestanti di gruppi di opposizione sono riusciti a marciare per parecchi isolati, eludendo la polizia in un percorso tortuoso attraverso la rete della metropolitana cittadina. Il gruppo agitava bandiere e gridava “Abbasso lo stato di polizia!” e “Russia senza Putin”.

Il colonnello Viktor Biryukov, portavoce della polizia di Mosca, informa che 41 persone sono state arrestate in varie piccole manifestazioni non autorizzate in tutta la capitale sabato. Fra loro Eduard Limonov, scrittore e leader del già messo al bando Partito Nazionale Bolscevico, gruppo che ha avuto un ruolo di primo piano nell’organizzare le manifestazioni di piazza. Frattanto parecchie migliaia di persone si raccoglievano nel centro di Mosca per una dimostrazione organizzata dal principale partito pro-Cremlino – dice il sito web del partito – a sostegno delle politiche del governo.»
Così pure a Vladivostok, all’estremità orientale della Russia.

In Francia centinaia di migliaia di persone in piazza nella più grande manifestazione popolare contro le politiche economiche di Nicolas Sarkozy da quando si è insediato nel 2007. Una notizia che ha avuto qualche rilievo da noi, ma è stata soffocata e presto spinta giù dalla cronaca nera e dalle molto più leziose e marginali tensioni diplomatiche fra Italia e Brasile e dai sofismi lefebvriani.

«In Georgia forze sparse dell’opposizione politica sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Mikhail Saakashvili e per chiedere elezioni presidenziali e parlamentari anticipate» riferisce ancora l’«Herald Tribune». «La popolarità di Saakashvili toccò il minimo nel 2007, dopo che il governo usò la forza per porre fine alle marce di protesta. La guerra in Georgia, tuttavia, spostò l’attenzione sulla minaccia russa e consolidò il sostegno intorno al presidente (vecchia ricetta buona per tutte le stagioni e a tutte le latitudini: la guerra per rafforzare il potere). La Georgia è stata scossa dalla crisi finanziaria globale e i rivali politici di Saakashvili lo hanno ferocemente criticato per avere portato il paese al confronto con la Russia. Lo stile di Saakashvili, dicono, è diventato sempre più autocratico ed intollerante nei confronti del dissenso.»

Saakashvili dunque che «usa la forza per sedare le proteste», l’uomo che il giornalismo paludato nostrano definiva il paladino della civiltà occidentale nell’autocratica periferia russa e vittima anziché promotore della guerra in Ossetia del Sud, in una delle pagine più buie del giornalismo italiano recente. Accadde appena l’estate scorsa, quando grandi testate e pasciuti soloni radiotelevisivi si prodigarono in un’invereconda opera di disinformazione. La guerra georgiana in Ossetia divenne, grazie ai mistificatori nostrani, la guerra d’Ossetia in Georgia.

La Grecia è in agitazione da mesi ormai. Ma dopo il colore iniziale di qualche mese fa, che le fece guadagnare spazio su giornali e tv, ora è rientrata nei ranghi dell’oblio e dell’anonimato. I contadini da dieci giorni bloccano il principale passo autostradale del confine con la Bulgaria. «La crisi può accendere disordini in tutta Europa», dice a Davos il ministro delle finanze francese, Christine Lagarde, a quanto riferisce la BBC.Sabato, informa l’articolo, centinaia di persone hanno manifestato a Ginevra e a Davos per protestare contro il Forum Economico Mondiale.

E bisognerà sperare che a Davos si preoccupino di fronteggiare la crisi anziché di reprimere le popolazioni manifestanti. I segnali vanno in direzione della soluzione più stupida.

In Germania «Der Spiegel» impagina un réportage fotografico delle manifestazioni di protesta in tutta Europa.Mentre addirittura il «Washington Post», che pure dista un Oceano, pubblica un lungo servizio, firmato da Philip P. Pan, sulle manifestazioni di protesta in Lettonia contro il modo di affrontare la crisi da parte del governo e per chiedere elezioni anticipate. La rabbia montante ed il diffuso malumore in parecchi paesi sopratutto dell’est Europa trovano ben più spazio nel giornale statunitense di quanto se ne rintracci nei nostri. «Dominique Strauss-Kahn, capo del Fondo Monetario Internazionale – scrive Pan sul Post – afferma che la crisi finanziaria potrà causare tumulti e agitazioni “quasi ovunque” ed elenca Lettonia, Ungheria, Bielorussia ed Ucraina fra le nazioni più vulnerabili. “Potrebbe peggiorare nei prossimi mesi” dice Strauss-Kahn alla BBC.»

Be’, quando questo accadesse, gli italiani, come il corvo calviniano, arriveranno per ultimi: ultimi a saperlo, ultimi a capirlo, avranno meno strumenti per comprendere che cosa sta succedendo tutt’intorno a noi in Europa, a partire dai vicinisimi Balcani. Saranno i cittadini meno preparati d’Europa. In compenso avranno avuto una posizione netta e ben ponderata sull’opportunità o meno di giocare l’amichevole Italia-Brasile.