Dopo la disfatta elettorale sarda e le dimissioni di Veltroni si e' aperto il baratro per un partito che non e' mai stato tale, in quanto privo di qualsiasi identita' e leadership.
E si sa che il vero problema non e' il volo, ma l'atterraggio.
Sardegna espugnata e prospettive europee
di Pino Cabras - Megachip - 18 Febbraio 2009
Le elezioni sarde sono state vinte dalla coalizione raccolta intorno al simbolo che urlava “Berlusconi Presidente”. Quello sardo è un altro scudetto per lo specialista in campagne elettorali, affrontate ogni volta con risorse virtualmente illimitate in grado di saturare la sfera del dibattito pubblico con la forza soverchiante del suo apparato. Il centrosinistra ha perso, il Pd è sprofondato, e la china è quella che lo porterà giù fino alle europee, forse un capolinea.
In questo contesto Renato Soru ha intercettato molti più voti del sistema dei partiti a lui legato. Mentre la somma dei partiti di centrosinistra veniva surclassata di 14 punti percentuali, il candidato alla presidenza ha portato in dote abbastanza voti da ridurre il distacco a 9 punti dall’avversario Ugo Cappellacci, troppi comunque. Segno che per questo centrosinistra in rotta una personalità che indica temi forti riesce a migliorarne le sorti, ma certo non abbastanza da rovesciarle. Non basta, perché questo sistema di partiti rimasto a sinistra di Berlusconi ha consumato fino in fondo i suoi insediamenti sociali tradizionali, e perché il terreno della comunicazione è presidiato ferramente dal sistema di potere legato al Cavaliere insaziabile, che intanto ha sistemato un altro tassello per il passaggio alla sua Terza Repubblica. L’emergenza democratica si acuisce.
Di fronte a sconfitte così nette le riflessioni sulle cause devono andare in più direzioni. Alcune portano lontano. Hanno pesato i limiti specifici dell’esperienza di governo di Soru. L’ex presidente della Regione Sardegna stava riorganizzando il sistema di comando secondo lo schema della “verticale del potere” che ha premiato Putin in Russia, Nazarbaev in Kazakhstan e Chavez in Venezuela. È un sistema che aumenta l’efficienza delle decisioni, ma funziona se c’è un ampio consenso di dimensioni plebiscitarie. A Mosca, Astana e Caracas il lubrificante del consenso è dato dagli idrocarburi. In Sardegna non c’è petrolio. L’unzione dei meccanismi plebiscitari è invece saldamente in mano a Silvio Berlusconi, con i suoi enormi giacimenti di comunicazione. Non è nemmeno una questione di una campagna elettorale alterata dalla sua schiacciante presenza informativa. La sua presa sulle menti non si riduce certo al minutaggio dei telegiornali.
Faccio l’esempio di una cosa a cui ho assistito personalmente. Quando lo sconosciuto cantante cagliaritano Marco Carta ha vinto l’edizione 2008 del talent show Amici di Maria De Filippi - ‘casualmente’ in prospettiva delle elezioni sarde - si scatenò un’isteria collettiva. L’arrivo di Carta all’aeroporto di Elmas fu accolto da migliaia di ragazzine e dalle loro mamme sgomitanti, che bivaccavano da ore per accaparrarsi il posto migliore, con accenni di rissa per qualche prevaricazione nella fila. Pochi giorni dopo Mediaset organizzò in tutta fretta da Cagliari la trasmissione speciale in prima serata di un concerto di Carta, accompagnato da vari big della musica leggera italiana che consacravano l’iniziazione alla mediocrità di massa del ragazzo-che-emerge-in-tv. A parte i telespettatori, nella piazza del concerto c’erano oltre 70mila persone, molte delle quali piantonavano il loro cantuccio dalla notte prima. Non ho visto bivacchi altrettanto estesi per difendere la scuola sotto attacco. Per molti era il primo evento collettivo cui partecipavano. Una grande porzione delle nuove generazioni sarde veniva battezzata a un rito sociale Mediaset. In altri momenti e in altre forme accadeva lo stesso presso altre porzioni della società italiana. Bertinotti proprio in quei giorni consumava le sue ultime cartucce a Porta a Porta.
In Sardegna il centrodestra trionfante promette sviluppo e crescita. Parte di questa promessa si tradurrà in un tentativo di rilanciare in grande stile l’industria edile. Le rigide norme paesaggistiche imposte dal comando di Soru saranno sacrificate. Dato il contesto della Grande Crisi mondiale, il sacrificio non varrà la pena. Ammesso che la crescita sia ancora un obiettivo desiderabile, non c’è spazio per essa. Lo sboom immobiliare della Spagna oggi ci racconta quanto siano illusori certi exploit. E questo è ancora più evidente guardando al contesto italiano, in vista della “tempesta perfetta” che presto addenserà tutti gli effetti della depressione economica globale sulle debolezze strutturali del Bel Paese. Non c’è ormai dubbio che sarà questa destra a farsi carico del declino dell’Italia. Il paesaggio istituzionale, il sistema dei valori, il racconto che questo Paese farà di se stesso nei prossimi anni, tutto scaturirà dalle pulsioni contrastanti e contraddittorie tenute insieme dal titanismo berlusconiano, proprio nel momento in cui la dimensione della tempesta minaccerà la tenuta dell’insieme. Sarà una società più cattiva, direbbe Maroni.
Chi proporrà un’alternativa a tutto questo, in un momento così difficile? Ora che si avvicinano a grandi passi le elezioni europee, la domanda è un dito nella piaga. Ho letto l’appello di Paolo Flores d’Arcais per una “lista civica nazionale” da proporre alle europee. Il fondatore di «MicroMega» coglie nel segno quando denuncia l’enorme – praticamente irreversibile - crisi di rappresentatività del Pd e quando postula l’esistenza di un elettorato che invece sta cercando qualcos’altro. Potremmo dire lo stesso dal punto di vista dell’elettorato ancora spaesato dalla disfatta delle liste dell’Arcobaleno.
Un elettorato di opposizione che percepisca la concreta possibilità di consistere in sé e per sé e difenda la Costituzione sotto scacco: questa sarebbe la sfida, sostenuta da ampie e ragionevoli basi, per chi volesse far quagliare un movimento nuovo.
Solo che questa sfida ha bisogno di tempi e gradazioni che hanno gittate non facili da prevedere. Sicuramente il tempo che ci separa dalle elezioni europee è così poco da dover spingere a non sprecare energie nell’inane tentativo di ricomporre tutto il domino, ancora a soqquadro.
A mio modesto avviso c’è appena il tempo per scegliere pochissimi temi, purché ci sia un soprassalto di apertura e lealtà fra gli spezzoni di movimenti che vogliano intraprendere un progetto di respiro nazionale da portare avanti con una certa fermezza condivisa.
Le tessere fuori posto del domino sono davvero tante, troppe: spezzoni orgogliosi d’identità incapaci d’espandersi, intransigenze non portate a conciliarsi, priorità diverse dei vari gruppi, immaturità istituzionale (che in zona Grillo dilaga), sospetti sostenuti da un pluridecennale know-how del gioco in solitario.
Flores apre una generosa linea di credito ad Antonio Di Pietro, buttandosi in uno dei terreni più accidentati che si possano immaginare nella politica italiana.
Chiunque si cimenterà con una lista di nuovo tipo dovrà tenere conto di alcune questioni di fondo. Un elemento d’identità forte e unificante dovrebbe essere una consapevolezza che oggi non ha il Pd, non hanno i rottami istituzionali dell’Arcobaleno, ma ha certamente Tremonti (scusate la mostruosa semplificazione): oggi c’è una crisi globale, un diluvio che cambia tutti i giochi e richiede alla politica di costruire ripari e mezzi di trasporto adatti. Nella rapida distruzione, i Cofferati scappano, i Veltroni urlano degli sterili “inaudito!” fino a scappare anche loro, i Fini s’inabissano; i Tremonti sono invece lì a dire: ci proviamo noi a costruire il riparo.
Chi vorrà sfidare questo stato di cose dovrà svelare la natura del riparo offerto dai timonieri della Grande Crisi, e proporre alcune novità – una diversa idea di riparo e transizione – a difesa della società. Ad esempio sul terreno dell’economia. Su questo fronte la consapevolezza, oltre al riparo, dovrebbe alludere all’àncora: ancorare la finanza alla realtà, alla materialità insopprimibile della vera economia-ecologia.
La consapevolezza dei tempi eccezionali dovrebbe essere molto netta in tema di pace e di funzione delle organizzazioni internazionali. Un no deciso all’espansione della Nato, un no a ogni copertura della guerra afghana, un no alla costruzione di nuove infrastrutture militari offensive (a Vicenza come in Polonia), un sì alla ricerca negoziata di nuovi accordi di sicurezza collettiva che aumentino la fiducia nel teatro europeo e non solo, un sì a nuovi accordi strategici su finanza, trasferimento tecnologico, energia, trasporti, ambiente (con effetti equilibranti positivi “anticiclici” per l’economia reale in caduta e per la transizione verso un sistema produttivo meno dissipativo).
È significativo, da questo punto di vista, che il Partito democratico in Italia arranchi, mentre l’omologo giapponese ha il vento in poppa, perché ha preso di petto tutte queste faccende.
La questione è talmente importante da avere implicazioni unificanti “multidisciplinari” per varie sensibilità dei movimenti che potrebbero accostarsi alla lista. Purché se ne discuta con vera apertura.
Il precipitare della crisi mette in discussione le conquiste sociali del Novecento e gli assi culturali e politici che le sostenevano. Il “sogno europeo” è ancora vivo, ma dovrà riaversi dalle sue grandi ferite e dai suoi difetti.
Le ferite, quelle ideologiche inflitte dalla schiacciante egemonia del neoliberismo ora vedono scomparire il feritore, che però nel frattempo ha cambiato/tagliato la testa e la struttura degli smarriti partiti di matrice riformista. I difetti, quelli di un modello comunque affidato a una crescita indefinita che oggi non si sostiene più, pesano sulla prospettiva delle conquiste sociali. La difesa non basta. Occorre ripensare il modello economico verso un paradigma ambientale stazionario, in cui l’impatto ambientale sia autenticamente sostenibile, ispirato a uno stile di vita che si richiama a scelte di “semplicità volontaria”, sobrietà, decrescita mirata, società dei “2000 watt a testa”. È un campo di riforme che crea molto lavoro e mette ancora al centro l’homo faber, non è una resa al pauperismo.
Oggi c’è in giro un richiamo nostalgico al Piano Delors. È molto probabile che si cercherà di lanciare qualcosa di simile in chiave keynesiana per dare una qualche risposta alla Grande Crisi, mentre incombono anche la crisi ambientale e quella energetica. I venditori di soluzioni nucleari e di alte velocità saranno della partita. Bisogna essere pronti a rivendicare un progetto europeo alternativo, altrettanto vasto e altrettanto ambizioso tecnologicamente, ma più legato al paradigma Negawatt che a quello Megawatt.
Gli elementi programmatici forti sono dunque ben rinvenibili nei movimenti che aspirano a ricostruire una politica non subalterna al sistema di potere berlusconiano. Alcune cose le ho citate. La questione ambientale legata al tema della pace è un tema essenziale per le riforme, ed è ormai uno dei punti più deboli degli pseudo riformisti del Pd, tanto che si aprono spazi enormi per chi saprà riproporla.
Altro tema forte è quello di una legalità e una giustizia da ricostruire contro l’assalto di cosche, affaristi irresponsabili e un ceto politico degradato. È un campo in cui un bacino elettorale pulito continua ad esistere. Questo bacino elettorale guarda con sgomento ai partiti d’abituale riferimento, osserva con attenzione le proposte politiche alternative (da Di Pietro a Grillo all’agitazione laica post-girotondi, così come le proposte nient’affatto sprovvedute che vengono da destra), ma non trova una vera proposta unificante con un aggancio istituzionale rappresentativo. I referendum spesso sono un vicolo cieco.
Rimane sullo sfondo il tema di una lista che dia una sponda sicura a tutto questo.
Comunque la giriamo, il peso del partito di Di Pietro risulta determinante e condizionante.
Istituzionalmente è sulla cresta dell’onda, grazie alla nullità del Pd. Mentre sui contenuti – impiegati con distacco a volte cinico - agisce usando la rapidità degli imprenditori: fa “affari politici“ velocemente, in modo sostanziale e spregiudicato. Così il partito stabilisce significative relazioni con intellettuali e gruppi. Lo sappiamo bene.
Come porsi nei confronti di quest’agile “azienda del consenso”?
Una soluzione sarebbe non allearsi. Rimarrebbe una forte capacità concorrenziale autonoma del partito di Di Pietro. Il peso elettorale alternativo al Pd risultante non sarebbe enorme, ma comunque avrebbe un qualche consolidamento intorno alla macchina politica dipietrista.
Una seconda soluzione sarebbe un’alleanza fra potenze catafratte, con i simboli elettorali affiancati, ma il timoniere dell’Italia dei Valori ha sperimentate capacità di cavillare il modo per capitalizzare la sua separatezza, come ha fatto dopo altri patti.
Flores D’Arcais propone un’alleanza meno notarile e più capace di mescolare società civile e partito, ma il tempo di cottura a disposizione per questa pietanza sembra poco.
Infine ci sarebbe la soluzione di una lista in cui si investe un po’ di più sulla prospettiva e si mescolano meglio i colori. Questo, dopo aver ben chiaritola parte degli accordi legali: in questi tempi così è, se ci pare. Niente nomi di leader nelle liste. Punti politici? Un punto politico per l’Italia (“le buone leggi ci difendono dalla Casta”, perciò offriamo un’alternativa al farsi cooptare nel sistema di potere del longevo Re Sole). Punti politici per l’Italia in Europa: “un’economia più semplice, stabile e sicura, ancorata alla realtà”, “l’Europa delle reti pulite e del lavoro nuovo”, “dopo la politica della paura, nessuna paura della politica” (un po’ legnoso, potrebbe essere anche: “è il tempo di guadagnare dalla pace”).
Di Pietro potrebbe esercitare la sua influenza sulla scala dei suoi mezzi in merito al primo punto, altri potrebbero legare i temi degli altri punti.
È una cosa possibile? Servirebbero alcuni passi in avanti e alcuni passi indietro, atti di generosità politica da pronunciare in modo trasparente. Che so.. un Di Pietro che faccia un qualche atto di riparazione rispetto alle precedenti elezioni europee. Difficile. Oppure un Grillo che proclami una tregua rispetto a certe sue insofferenze istituzionali. Molto difficile. Ovvero i movimenti locali che s’impegnano con forza in una prospettiva nazionale. Arduo.
In ogni caso ci vorrebbe un gruppo di personalità indipendenti (ma chi lo promuove, Paolo Flores, tu?) capace di farsi garante di ogni operazione di convergenza di fronte a tutti i settori di elettorato che potrebbero guardare con favore a questa ipotesi.
Di Pietro, da solo, non solo non è in grado di catalizzarli tutti, ma non può nemmeno offrire garanzie. Dovrebbe far sapere al mondo se vuole gettare il dado per diventare parte magna di una nuova opposizione, oppure se aspetta il prossimo turno, quando il PD sarà scomparso dalla scena e ci sarà un generale rimescolamento delle carte. La prima variante ha probabilità di realizzazione minime. La seconda servirebbe solo a lui,a Di Pietro, per navigare a vista prima di essere, a sua volta, speronato dal Padrone. O comprato dallo stesso.
Però varrebbe la pena esplorare subito la possibilità dell’operazione lista, per decidere a breve se serve spenderci del tempo, oppure se quel tempo vada adoperato meglio per attrezzarsi a un durevole viaggio, lungo un deserto vagamente fascista.
Che ne pensate?
L'ira dei militanti: andatevene tutti
di Curzio Maltese - La Repubblica - 18 Febbraio 2009
"Con questo gruppo dirigente non vinceremo mai". L'invettiva di Nanni Moretti a Piazza Navona era la più citata nel drappello di curiosi e militanti davanti alla sede del Partito Democratico, in attesa dell'ultimo atto dell'era Veltroni.
Sfilava un pezzo di nomenklatura. Fassino e Bersani, Letta e Bindi, Finocchiaro e Soro. Erano entrati la mattina da congiurati, gioviali nonostante tutto, pronti a infilare qualche altra banderillas nel corpo del capo. Sono usciti alle due, quando s'era ormai capito che "Walter faceva sul serio", mogi e silenziosi, scansando telecamere e taccuini, spiazzati, perplessi, scongiurati. A parti invertite, Walter Veltroni è stato il solo a uscire con passo leggero, sorridente, sollevato. L'immagine di un uomo tornato libero. E dire che li aveva avvisati. "Guardate che non rimarrò a farmi infilzare. Non v'illudete, la mia fine sarà quella dell'intero gruppo dirigente". Sembravano parole. Ma il fatto, le dimissioni, cambia il senso della profezia. Fa apparire l'estinzione vicina, quasi inevitabile.
"E' la strategia dei lemmings" commenta lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio, i roditori che per combattere i tempi di carestia si gettano in massa dai dirupi. Alle quattro le dimissioni sono irrevocabili e il pezzo di nomenclatura presente s'attacca al telefono per consultarsi con gli assenti: D'Alema, Rutelli, Fioroni, Marini. "E adesso, che facciamo?". L'evento tanto atteso, evocato, programmato, le dimissioni di Veltroni, li annienta di colpo. Era tutto scritto, la batosta elettorale di giugno, la nomina di Bersani alla successione, in attesa magari di farsi venire qualche altra idea, fidando nel logoramento della maggioranza alle prese con la crisi. Un'altra strategia fallita, rovesciata in corsa al dirupo. Per giunta, fra gli applausi.
Sui siti del partito, dei giornali, delle televisioni, piovono migliaia di messaggi di elettori che ripetono, in forme più o meno colorite, la stessa richiesta: "Ora andatevene tutti". E' lo stesso messaggio che da mesi arriva da ogni elezioni, dal Friuli alla Sardegna. Perfino dalle primarie di Firenze, l'epicentro in tutti questi anni delle lotte fra guelfi veltroniani e ghibellini dalemiani, o viceversa se volete. Dove stravince al primo turno il candidato Matteo Renzi, 34 anni, con una campagna impostata su un attacco al giorno a Veltroni e uno a D'Alema, per mesi. I lemmings democratici sono rimasti a beccarsi fino all'orlo del precipizio, e poi giù tutti insieme.
E' un gruppo dirigente segnato da tempo, dalla profezia di Piazza Navona. Sopravvissuto a lungo grazie all'odiato Romano Prodi e poi, per poco, grazie all'odiato Walter Veltroni. Specializzato nel segare il ramo sul quale si poggia. Un gruppo dirigente per il quale Silvio Berlusconi, a distanza di vent'anni, continua a essere un oggetto misterioso, impossibile da contrastare. "Per due mesi è stato lasciato libero di scorrazzare a caccia di voti in Sardegna, senza che il partito mettesse in campo una risposta adeguata", hanno acutamente osservato i critici di Veltroni anche nella riunione di ieri. Sempre dopo, però, e col tono dei commentatori esterni.
"Ora si apre l'ennesimo dibattito. Inutile come i precedenti, finché i dirigenti non capiranno che una stagione, la loro, è finita. Bisogna andare, anzi correre a un ricambio generazionale". Ha ragione Francesco Boccia, classe 1968, economista e deputato Pd. Ma con chi? Boccia è uno dei pochi scampati alla silenziosa epurazione di giovani di talento, di amministratori popolari, insomma di potenziali successori, che in questi anni ha stroncato il futuro del centrosinistra, per concludersi in bellezza con il siluramento di Riccardo Illy e Renato Soru. "Spazzati via da Berlusconi ma anche dal Pd", come ammette lui stesso.
Alla linea di Boccia, l'avvento di una nuova generazione per generosa volontà degli attuali dirigenti, si contrappone l'esempio di Renzi. La sfida aperta dei giovani ai vecchi, l'uccisione simbolica dei padri. Qualcuno che si presenti alle primarie, l'unica soluzione ormai possibile, con l'accento del papa straniero, da fuori e contro la nomenklatura. Uno in grado di parlare una nuova lingua, capace di farsi ascoltare perfino da quel gruppo di giovani studentesse che ieri per qualche minuto ha sostato davanti alla sede del dramma, attratta dalle luci delle telecamere. Finché non hanno chiesto: "Ma che c'è là dentro?". E alla risposta ("La sede del Pd, il vertice con Veltroni") hanno commentato: "Ah, credevamo uno famoso". E sono sparite in un attimo.
Sfascio a sinistra
di Lucia Annunziata - La Stampa - 18 Febbraio 2009
Walter Veltroni ieri ha fatto uno di quei gesti che possono essere definiti onorevoli ed efficaci. L’onorabilità delle dimissioni in un Paese in cui raramente vi si fa ricorso si dimostra da sola. Quanto all’efficacia, c’è poco da discuterne.
Le dimissioni date come sono state date, improvvise e irreversibili, hanno esposto in tutta la loro crudezza le condizioni in cui versa il Partito democratico. Rimosso l’esile velo di una timida leadership, ci si è accorti che sotto non c’è altro che un’area politica allo sbando. L’improvvisazione, l’impreparazione, la confusione che hanno dominato la giornata di ieri sono state i migliori testimoni di una mancanza di strategia, individuale e collettiva, ai vertici del Pd, sia da parte degli uomini finora al comando, sia di quanti erano in posizione critica.
Questo pesante giudizio si basa, intanto, sulla modalità della scelta di Veltroni. È stato raccontato che nemmeno i più stretti collaboratori del segretario fossero stati informati: è solo un dettaglio, ma fra i più inquietanti. Esiste forse migliore prova di quanto poco ci si parli o ci si consulti al vertice di questo partito? Che dire poi della sorpresa che ha colto tutta l’élite del Pd di fronte a queste dimissioni? A dispetto della tanto lodata esperienza di una classe politica che si vanta della propria finezza, non uno dei leader aveva previsto questa mossa. Il che vuol dire, banalmente, che nessuno di tutti quelli che hanno criticato Veltroni aveva davvero fatto un calcolo delle possibilità, delle mosse, e nemmeno aveva riflettuto a fondo sulle caratteristiche del segretario.
Ma se la costernazione che ha colto il gruppo dirigente ha suonato l’allarme sulla sua profonda debolezza, è l’ipocrisia che ne è seguita a indicare un pessimo futuro. Che dire di quel «no» collettivo risuonato all’annuncio di abbandono del segretario? L’hanno pronunciato leader come Letta che non ha mai nascosto la sua distanza da Veltroni, come Bersani che è già sceso in campo contro il segretario e come Rutelli che non nasconde il suo disagio a stare in compagnia di molti di loro. Non c’era D’Alema, ma pensiamo che avrebbe anche lui opposto il suo rifiuto, e cercato di non far precipitare la situazione.
Più che desiderio di ricucire, quel «no» è apparso come un desiderio di guadagnare tempo. La discussione infatti si è rapidamente orientata non sul merito, ma sul calendario. Quel calendario che è la gabbia mentale e fisica di questa politica oggi: elezioni a giugno, cda Rai da nominare forse già domani, tesseramento in ritardo, testamento biologico da approvare. Pareva di veder passare negli occhi di molti dei presenti lo scorrere di questa agenda. Il Pd da mesi non fa altro che navigare così, da un appuntamento istituzionale all’altro, vedendo in ognuno l’occasione di piccole sconfitte e vittorie: un processo che ormai da anni, fra scadenze parlamentari e urne, ha sostituito per questo partito il percorso appassionato e visionario della strategia politica.
Non ci siamo dunque meravigliati quando, invece di svenire, urlare o fare un drammatico gesto qualunque, il coordinamento del Partito democratico ha imboccato la strada di un altro calendario: ha cominciato a discutere di segretari provvisori, transizione, reggenza collettiva, e date, sempre date, su quando e come convocare il congresso per altre primarie e un altro segretario. Naturalmente calcolando già - senza mai dirselo - quale e quanto vantaggio andasse a chi, in questa nuova situazione, nella formazione delle prossime liste per le Europee. Si spiega così la via che infine è stata imboccata per il prossimo futuro: quella burocratico-formale di un’altra mezza transizione nella transizione, di un segretario part-time, di un coordinamento che tenga insieme i cocci. In maniera da poter non ammettere che il vaso è rotto.
La sinistra ha molte responsabilità nella propria continua sconfitta di questi ultimi anni. Ma nessuna è forse così rilevante quanto la rimozione con cui continua a negarsi la verità su se stessa.