venerdì 13 febbraio 2009

Obama alle strette, tra "stimulus bill" e pezzi persi per strada

L'Amministrazione Obama ha perso ieri un altro pezzo.
Dopo i casi di Daschle e Killefer (per vicende di evasione fiscale), e' stato il senatore repubblicano del New Hampshire Judd Gregg a rinunciare alla nomina a ministro del Commercio.
Gregg sostituiva a sua volta Bill Richardson, governatore democratico del New Mexico coinvolto in un'inchiesta su presunti appalti truccati.

Ma anche un'altra candidatura eccellente, quella del poi confermato ministro del Tesoro Timothy Geithner, aveva rischiato di saltare dopo che, in sede di audizione, aveva ammesso irregolarità fiscali per migliaia di dollari chiedendo scusa per il suo "imperdonabile errore".

Judd Gregg, che sarebbe stato il terzo esponente repubblicano nel governo Obama, ha parlato di "conflitti insanabili" con il presidente Obama sugli aiuti all’economia e in particolare sul piano di incentivi da 789,5 miliardi di dollari che dovrebbe essere approvato oggi dal Congresso.
C'erano inoltre "differenze non riconciliabili" anche sul censimento (che determina l'area delle diverse circoscrizioni elettorali).

Nelle stesse ore delle dimissioni di Gregg, Obama rinnovava l'appello ai repubblicani affinche' sostengano il piano anti-crisi.
Comunque il piano dovrebbe passare senza grossi problemi sia al Congresso sia al Senato, che aveva gia' approvato nei giorni scorsi la precedente versione da 838 miliardi di dollari.

Resta pero' la certezza che anche quest'ultimo piano anti-crisi made in USA servira' solo a guadagnare ulteriore tempo.
E basta.



Dovrei ma non posso
di Maurizio Donato - Megchip - 12 Febbraio 2009

Nel corso di una intervista realizzata per conto di ABC news, è stato chiesto al Presidente Obama che cosa ne pensasse dell’opinione di molti economisti secondo cui gettare risorse in banche praticamente fallite è un errore. Perché non nazionalizzarle? chiede Terry Moran.

La risposta di Obama: «Guardi, è interessante quest’argomento. In effetti abbiamo l’esempio di due paesi che hanno conosciuto grandi crisi finanziarie nell’ultimo decennio: uno era il Giappone, che non è nemmeno riuscito a conoscere con esattezza l’ampiezza e la scala dei problemi del suo sistema bancario, che hanno causato il cosiddetto “decennio perduto”». C’è stata una specie di ripresa quando il governo di Tokyo ha pompato moneta nel sistema, ma non è accaduto nulla dal punto di vista della crescita.
«In Svezia, al contrario, dove si è presentato un problema analogo, il governo ha nazionalizzato le banche, eliminato le attività finanziarie tossiche, rivenduto le banche, e in un paio di anni queste si sono riprese. Sicché si potrebbe pensare: hanno fatto bene, è un buon modello, ma – vede – il problema è che la Svezia ha qualcosa come cinque banche,» ride Obama, «noi [gli Usa] ne abbiamo migliaia,» la dimensione del mercato è diversa e poi c’è una tradizione differente in questo paese.

Onestà intellettuale e riconoscimento dell’impotenza. La crisi, o meglio il virtuale fallimento del sistema finanziario nordamericano, non ha equivalenti o precedenti nella storia del capitalismo. E ammissioni parimenti significative vengono dal nuovo segretario al Tesoro dell’amministrazione, Tim Geithner, che ha commentato con queste parole il ‘nuovo’ Financial Stability Plan.
«I governi e le banche centrali ovunque nel mondo hanno perseguito politiche che – col senno di poi – hanno determinato un aumento enorme del credito, fatto schizzare in alto i prezzi delle case e i mercati finanziari sfidando la gravità. Gli investitori e le banche hanno preso rischi che non conoscevano, le persone, gli uomini di affari e i governi hanno preso a prestito al di là dei propri mezzi, le ricompense che sono andate ai dirigenti degli istituti finanziari sono andate oltre ogni realistico apprezzamento del rischio. Ci sono state sistematiche mancanze nei meccanismi di controllo nel sistema da parte dei consigli di amministrazione, delle agenzie di rating e degli organismi governativi di regolamentazione. Il nostro [degli Usa] sistema finanziario ha operato senza vincoli sufficienti per limitare il rischio, e tutto questo ha prodotto la peggiore crisi economica da generazioni.»

Il discorso – tipicamente ‘Obamiano’ – di Geithner continua su questa lunghezza d’onda prima di presentare il piano di salvataggio del sistema bancario, e si conclude significativamente affermando che tale piano costerà molto, comporterà rischi e prenderà tempo; il piano potrebbe essere modificato, ed è possibile che saranno tentate cose ‘we’ve never tried before’.

Come meravigliarsi se il giorno dopo queste parole la borsa di New York ha reagito negativamente? Sostanzialmente – e rimandando a un’altra occasione un commento più approfondito su entrambi i versanti del piano anticrisi, quello fiscale e quello monetario – abbiamo un Presidente degli Usa che dichiara di stare seguendo la strada sbagliata (o quanto meno inutile, ma è lo stesso) perché non è possibile prendere in considerazione lo strumento delle nazionalizzazioni, e un Segretario al Tesoro che dichiara che tutti hanno sbagliato tutto, dai governi alle banche centrali alle istituzioni finanziarie.

In queste condizioni, in cui la politica si dichiara esplicitamente impotente nei confronti di meccanismi evidentemente sistemici, quali effetti strutturali e di lungo periodo potrà avere una politica di spesa pubblica e di tagli fiscali che si presenta come la più imponente mai realizzata da un governo come quello Usa? Durante l’anno di (dis)grazia 2008 negli Usa sono andati persi tre milioni di posti di lavoro; solo durante lo scorso mese di gennaio (2009) ne sono stati distrutti altri seicentomila. Ma che cosa sta succedendo?

Limitandoci al settore finanziario Usa, e riprendendo ancora una volta le dichiarazioni ufficiali del Segretario al Tesoro, la crisi riguarda la fiducia, il capitale, il credito, i consumi e la domanda. Ma perché l’economia non riparte? Perché – dice Geithner – le banche e le altre istituzioni finanziarie, anziché fornire credito alle imprese e ai consumatori, tengono i fondi fermi, contribuendo e probabilmente accelerando la recessione. Ma perché, occorrerebbe continuare a chiedersi – e Geithner non lo fa, almeno in questa occasione – le banche si mantengono liquide come non mai, anziché impiegare i propri depositi? La risposta che usualmente si dà è che non si fidano l’una dell’altra; detto in maniera più chiara, i bilanci delle maggiori banche sono palesemente falsi, ma bisognerebbe spingersi ancora un po’ più avanti nell’analisi e domandarsi se davvero esiste una grande richiesta non soddisfatta (parliamo delle imprese, diverso è il caso delle famiglie dei lavoratori) o se per caso il credito viene negato anche perché non si intravedono grandi opportunità di profitto e questo riporta la questione al suo cuore, la crisi come sovrapproduzione, sovrabbondanza di capitale nella sua forma di capitale monetario, di merce, di impianti, di capitale variabile in eccesso rispetto alle possibilità di profitto.

Se quest’analisi è corretta, allora non solo i piani di stimolo fiscale sono un palliativo temporaneo e insufficiente, per di più se finanziato con i soldi dei lavoratori, ma soprattutto non si capisce perché il settore pubblico dovrebbe comprare i titoli tossici, salvare e contribuire a ricapitalizzare banche fallite magari “incentivandole” a impiegare risorse in attività rivolte ad ottenere profitti incerti e insufficienti. Se per nazionalizzazione si intende l’utilizzo di risorse pubbliche per coprire le perdite, salvo poi restituire le banche risanate al settore privato, è davvero un caso di “socialismo per ricchi” che costituisce l’esatto contrario di quanto il buon senso e un’ottica anche solo vagamente redistributiva suggerisce, e cioè sostenere il lavoro, e non il capitale.

Si potrebbe cogliere l’opportunità della crisi per rimettere in discussione proprio l’obiettivo del profitto come motore dell’economia, ma forse è ancora troppo presto. Tra qualche mese, quando sarà chiaro che nessuna delle manovre si è rivelata efficace, se ne potrebbe riparlare, ma la situazione potrebbe essere diversa.



USA, gli orfani di Bush contro Obama
di Michele Paris - Altrenotizie - 12 Febbraio 2009

Dopo appena tre settimane dal suo insediamento, il neopresidente degli Stati Uniti ha parzialmente abbandonato quello spirito bipartisan che aveva caratterizzato la sua biennale campagna elettorale e le prime fasi del processo di transizione verso la Casa Bianca. Alle prese con il faticoso cammino parlamentare del suo pacchetto di stimolo ad un’economia in crisi sempre più profonda, Barack Obama ha deciso di abbandonare Washington per cercare il supporto diretto del popolo americano in difficoltà, facendovi ritorno brevemente per tenere la prima conferenza stampa da presidente ed attaccare frontalmente l’opposizione repubblicana. “Il paese non può permettersi di aspettare oltre”, ha ammonito Obama, “e il dialogo con la minoranza al Congresso non può risolversi in un ritorno alle fallimentari politiche economiche degli ultimi otto anni”.

Il chiaro rifiuto della deregulation selvaggia, espresso dagli elettori americani nelle presidenziali, sembrava essere stato quasi dimenticato nelle ultime settimane, durante le quali la scena mediatica d’oltreoceano è stata colpevolmente dominata dai repubblicani. Uscito con le ossa rotte dalla consultazione elettorale di novembre, il partito di George W. Bush attraversa infatti un’involuzione che sta portando i propri esponenti rimasti al Congresso – a parte qualche eccezione – su posizioni sempre più conservatrici. In quest’ottica, l’obiettivo più facile a portata di mano è il fallimento dello sforzo della nuova amministrazione nel produrre un intervento efficace che possa quanto meno attenuare gli effetti della recessione in atto.

Nelle sue trasferte in Indiana e in Florida, nonché di fronte ai giornalisti nella capitale, Obama ha così mostrato un’evidente inversione di rotta rispetto al contegno quasi sempre mostrato in precedenza, sottolineando una scelta molto netta da parte della Casa Bianca: la necessità di agire in tempi rapidi deve prevalere – almeno momentaneamente – sulla ricerca dell’unità e dell’accordo a tutti i costi. L’entusiasmo della folla incontrata dal nuovo presidente nelle cittadine di Elkhart (la “capitale del mondo nella costruzione di camper e caravan”) e a Fort Myers, assieme ai sondaggi che indicano tuttora il sostegno degli americani alla sua azione, non sarebbero tuttavia bastati a garantire la sicura approvazione del piano da circa 800 miliardi dollari.

Già il voto alla Camera dei Rappresentanti della scorsa settimana aveva fatto intravedere le difficoltà nel convincere i parlamentari repubblicani ad appoggiare il progetto del presidente. Una versione da 819 miliardi di dollari – in gran parte di spese federali – era infatti uscita dalla Camera bassa con i soli voti della maggioranza democratica. Le speranze di un accordo al Senato – dove erano necessari almeno un pugno di voti dell’opposizione per raggiungere i 60, soglia minima stabilita per ragioni procedurali – sono state allora affidate ad una commissione di democratici e repubblicani moderati che hanno raggiunto un punto d’accordo dopo aver eliminato alcuni capitoli di spesa dal pacchetto Obama. Anche il Senato alla fine ha perciò garantito il via libera alla manovra, diventata ora da 838 miliardi di dollari, con 61 voti favorevoli e 36 contrari. Al voto favorevole di 56 senatori democratici, si è aggiunto quello di tre repubblicani moderati – Arlen Specter, senatore della Pennsylvania, e le senatrici del Maine Susan Collins e Olympia J. Snowe – e di due indipendenti.

Le due versioni licenziate da Camera e Senato hanno alla fine trovato un punto d’incontro nel compromesso trovato al termine di frenetiche trattative tra i leader del Congresso e la Casa Bianca. L’accordo è giunto su una versione finale da 789 miliardi di dollari che dovrebbe essere approvata da entrambi i rami del Parlamento nel fine settimana per approdare sulla scrivania del presidente entro lunedì prossimo. Il pacchetto dovrebbe così contenere 507 miliardi di nuove spese federali e 282 milioni di tagli alle tasse, iniziativa quest’ultima resasi necessaria per convincere una parte dell’opposizione a sostenere l’intero piano. La spinta definitiva ad un provvedimento, che risulterà comunque alla fine molto più leggero rispetto agli intenti iniziali, era stata preannunciata nei giorni precedenti grazie ad un Obama ben deciso a riappropriarsi della scena politica americana per fissare almeno qualche paletto alle richieste provenienti da parte repubblicana.

Dopo aver presieduto al raddoppio del debito pubblico nel corso dell’amministrazione Bush, aveva puntualizzato il presidente, risultava difficile prendere lezioni da parte dei parlamentari oggi all’opposizione circa la presunta eccessiva spesa federale prevista dal piano di rilancio economico. Alcuni senatori repubblicani avevano addirittura bollato il provvedimento come un pacchetto di spesa piuttosto che un pacchetto di stimolo, non cogliendo come, per definizione, quest’ultimo coincida con il primo.

In dubbio c’erano soprattutto 79 miliardi di dollari che la Camera aveva destinato alle casse degli Stati in maggiore affanno (“stabilization fund”), così da permettere alle amministrazioni locali di continuare a garantire l’assistenza e i servizi basilari ad una popolazione americana colpita da un tasso di disoccupazione sempre più vicino alla doppia cifra. Tra le critiche sollevate da sindaci e governatori di ogni schieramento, il Senato aveva ridotto tali aiuti a 39 miliardi, minacciando di peggiorare notevolmente la situazione di molti Stati che navigano in acque molto pericolose dal punto di vista finanziario, California in primis. La versione definitiva ha alla fine fissato il fondo a 54 miliardi di dollari.

Altri capitoli di spesa sono poi svaniti nel nulla a tutto favore di nuovi tagli al carico fiscale, vero cavallo di battaglia dei repubblicani, nonostante la loro dubbia efficacia nello stimolare la spesa. Nessuna traccia così di quasi 20 miliardi di dollari assegnati inizialmente dalla Camera alla costruzione e all’ammodernamento delle scuole. Inseriti invece poco meno di 70 miliardi che esenteranno milioni di famiglie della middle-class dal pagare alcune tasse nel 2009. Ridotti drasticamente poi anche gli interventi diretti a sostenere l’assistenza sanitaria per quanti hanno perso il proprio posto di lavoro ed altri ammortizzatori sociali per un totale di svariate decine di miliardi di dollari. Dentro, al contrario, un rimborso fiscale per chi acquista una nuova casa, aiuto però che non si limita alla sola prima abitazione, così da favorire verosimilmente i redditi più elevati.

Le resistenze al piano Obama di molti parlamentari dell’opposizione si sono inserite nell’ambito di una persistente faziosità tra i due schieramenti al Campidoglio. Nonostante le aperture del neopresidente, protagonista nei giorni precedenti di svariati incontro alla Casa Bianca con membri repubblicani del Congresso e la scelta di tre repubblicani nella formazione del proprio gabinetto (Robert M. Gates alla Difesa, Ray LaHood ai Trasporti e recentemente Judd Gregg al Commercio), diffuse sono state le lamentele circa la mancanza di un effettivo coinvolgimento nel dibattito intorno al pacchetto di stimolo all’economia di deputati e senatori di minoranza, i quali infatti in grandissima parte lo hanno respinto in aula.

L’insistenza di Obama per troppo tempo sull’esigenza di costruire un largo consenso intorno al suo progetto ha finito, secondo alcuni, per generare un pacchetto che rischia di essere scarsamente efficace e troppo sbilanciato sul versante dei tagli alle tasse. Il suo atteggiamento, inizialmente mirato a conquistare non meno di 80 voti al Senato, non ha tuttavia prodotto gli effetti auspicati e il compromesso che ne è uscito – peraltro approvato in prima istanza con i soli voti democratici alla Camera e con una maggioranza risicata al Senato – contiene in maniera eccessiva la spesa pubblica che sarebbe invece necessaria per dare un impulso immediato all’economia.

La vicenda del cosiddetto “stimulus bill” sta in definitiva dimostrando fin troppo chiaramente le difficoltà che Obama incontrerà nel suo cammino verso il cambiamento – in questo caso diretto al superamento del settarismo di Washington – in un clima politico dai comportamenti consolidati da decennali divisioni tra i due schieramenti. È pur vero tuttavia che la disponibilità al confronto del nuovo presidente contrasta radicalmente con l’unilateralismo del suo predecessore e che, come lui stesso ha affermato, potrebbe dare i suoi frutti a lungo termine. Una volta superato lo scoglio del pacchetto di stimolo però, le effettive possibilità di un dialogo bipartisan tra democratici e repubblicani saranno messe nuovamente a dura prova da almeno due questioni all’orizzonte che dovrebbero rappresentare altrettanti punti qualificanti della presidenza Obama: la riforma del sistema sanitario e il passaggio a fonti di energia pulita.



Obama a rimorchio dell’Alta finanza
di Filippo Ghira - Rinascita - 12 Febbraio 2009

Il piano di stabilità finanziaria per il sistema bancario Usa preparato dal neo segretario al Tesoro Usa, Timothy Giethner, è un piano che ha molto addolcito le misure “punitive” verso il mondo bancario che Barack Obama, l’idolo dei progressisti e degli utili idioti di mezzo mondo, aveva affermato di voler varare.

Un segnale ulteriore, come se poi ce ne fosse bisogno, che l’inquilino della Casa Bianca, seppure portato alla presidenza dal malumore dell’opinione pubblica contro i repubblicani, considerati troppo vicini al mondo delle banche e della finanza, responsabili del disastro finanziario e della rovina economica di tante famiglie, è in realtà perfettamente funzionale a quel mondo e ai suoi interessi.

Del resto, se così non fosse l’ex senatore non sarebbe mai arrivato alla suprema carica. E a riportarlo alla ragione è stato lo stesso Giethner, anche lui espressione degli interessi di Wall Street ed imposto ad Obama per tenerne a freno le velleità sociali. Non sono forse la finanza e l’economia a farla da padrone negli Stati Uniti? Il famigerato “Yes, we can”, non è infatti una prerogativa di Obama ma loro.

Il piano Giethner è comunque basato su 4 punti. Attraverso lo “stress test” la Federal Reserve potrà valutare se le maggiori banche del paese sono in grado o meno di affrontare con i propri mezzi una fase economica che appare in via di peggioramento. Le banche in difficoltà potranno ricevere una riserva di capitale pubblico con la quale continuare a fare prestiti a famiglie e imprese fino a quando non saranno in grado di attrarre capitali privati sostitutivi di quelli pubblici.
Il Tesoro e la Federal Reserve potranno fornire fino a mille miliardi di dollari al mercato del credito per sostenere famiglie e imprese.

Verrà creato un fondo con capitale pubblico e privato per fornire capitali pubblici e finanziamenti al capitale privato per comprare i titoli spazzatura in modo da rendere più leggeri i bilanci delle banche e lasciare al settore privato il compito di determinare il prezzo di tali titoli ormai diventati non negoziabili e quindi impossibili da rendere liquidi.

L’ultimo punto riguarda il settore immobiliare e il boom di pignoramenti seguiti al crollo del mercato dei mutui. Il Tesoro e la Federal Reserve stanzieranno 50 miliardi di dollari per ridurre il peso delle rate per i cittadini sull’orlo dello sfratto e per rivedere le norme pubbliche e private che regolano i prestiti e ridurre i pignoramenti.

Molto critico pure il New York Times che dopo avere citato la “animata lite” che si è avuta all’interno della nuova amministrazione, ha sottolineato che “il piano riflette ampiamente l’approccio dell’amministrazione Bush di affidarsi agli stessi manager responsabili degli investimenti arrischiati che hanno provocato la crisi, e che si sono mostratii incapaci di affrontare i problemi che hanno fatto crollare i mercati”.

Geithner è riuscito anche ad opporsi a tetti più severi agli stipendi dei manager delle compagnie che ricevono gli aiuti federali tanto che l’annunciato tetto di 500 mila dollari per i dirigenti fatto da Obama verrà applicato solo in alcuni casi.
Fatto che per il NYT, che pure è un giornale dell’establishment, è un fatto inaccettabile.

Per Geithner invece un troppo ampio coinvolgimento del governo negli affari delle compagnie “rischierebbe di scoraggiare la partecipazione dei privati nel salvataggio”. Insomma i banditi devono potersi salvare da soli con i soldi dello Stato. Anche questo è Libero Mercato. Ieri il Senato Usa ha approvato il pacchetto di stimoli all’economia per oltre 800 miliardi di dollari voluto da Barack Obama con 61 voti favorevoli su 98 presenti.




La cattiva notizia e' che siamo tornati al 1931, quella buona e' che non e' ancora il 1933
di Ambrose Evans-Pitchard - www.telegraph.co.uk - 26 Gennaio 2009
Traduzione di Rachele Materassi per www.comedonchisciotte.org

Barack Obama ha ereditato un’economia che si sta già contraendo ad un tasso annuale del 6%, come accadeva nel 1931, a metà della Depressione (-6,4%), scrive Ambrose Evans-Pritchard.

Questo potrebbe battere i risultati di Germania (-7%), Giappone (-12%) e Corea (-22%) nell’ultimo trimestre. Ma ciò sottolinea unicamente i pericoli che ci aspettano mentre il collasso del commercio globale soffoca il mini-boom delle esportazioni americane, facendo esplodere un altro livello della crisi.

Gli Stati Uniti stanno perdendo 500.000 posti di lavoro al mese. Il Brasile ne ha persi 650.000 in dicembre. Pechino dice che 10 milioni di cinesi hanno perso il loro posto da quando la contrazione è cominciata. Sulla base di un confronto annuale, le esportazioni del Giappone sono cadute del 35% lo scorso mese. La banca centrale sta stampando banconote furiosamente, comprando bond per prevenire una ricaduta nella deflazione.

Dunque sì, è come nel 1931. Citigroup e Bank of America si sono più o meno sgretolate. La salute di JP Morgan sta velocemente peggiorando. General Motors e Chrysler sopravvivono solo grazie a vitalizi corrisposti dai contribuenti americani.

Ma la situazione non è ancora quella del 1933. Quella seconda caduta fu il risultato delle politiche di “liquidazione” condotte da una dirigenza dickensiana ignara dei pericoli della deflazione del debito. All’epoca il regime aureo era degenerato in uno strumento di tortura. Obbligò il governo ad aumentare i tassi dall’1,5% al 3,5% nell’ottobre 1931 per contenere la svalutazione dell’oro, con risultati prevedibili per le banche già a pezzi.

Vale la pena dare un’occhiata alla prima pagina del New York Times di lunedì 6 marzo 1933 per vedere com’era il mondo tre giorni dopo l’insediamento di Franklin Roosevelt alla Casa Bianca. Il quotidiano riportava la vicenda di Roosvelt, il quale aveva chiuso il sistema bancario americano – invocando il Trading with Enemies Act - e ordinato la confisca dell’oro privato. Da sinistra a destra, i titoli recitavano:“Il Blocco Hitleriano Si Aggiudica Una Maggioranza al Reich, Governa la Prussia"; “Il Giappone Continua I Suoi Feroci Attacchi, la Cina Chiude il Muro, Nanchino Ammette la Sconfitta”; “Certificati Monetari Al Posto dei Contanti”; “Il Presidente Adotta Misure In Linea con la Radicale Legge del Tempo di Guerra "; "Carcere Per Chi Accumula Oro".

Il presidente Obama ha di fronte un mondo più felice. L’ordine economico liberale è ancora intatto, anche se si sta logorando agli angoli. Il capitale e le navi si muovono liberamente. Il Nord America e l’Europa parlano lo stesso linguaggio politico. La Cina si è finora dimostrata un pilastro attendibile del sistema internazionale. Ma anche allora il mondo sembrava sufficientemente clemente, all’inizio del 1931. E’ la seconda fase della depressione che fa cose terribili.

Roosevelt salì al governo di una nazione i cui ingranaggi economici erano completamente in pezzi. La borsa di New York e il Chicago Board of Trade avevano chiuso. Trentadue stati avevano chiuso le loro banche, Il Texas aveva limitato i prelevamenti in banca a 10$ al giorno.

Pochi stati potevano chiedere prestiti sui mercati dei bond. L’Illinois e molti stati del sud non pagavano più gli insegnanti. Le scuole chiusero per mesi. Un esercito di 25.000 veterani affamati che sedevano davanti al Congresso furono caricati dai soldati del 3° cavalleggeri USA– guidato dal maggiore George Patton. Contadini armati minaccianti la rivoluzione avevano preso d’assedio città di pianura. Una folla aveva preso d’assalto il Campidoglio del Nebraska. Il governatore del Minnesota reclutava comunisti solo per arruolarli nelle forze armate di stato. Gli avvocati che tentavano di far valere i pignoramenti venivano uccisi. Più di 100000 cittadini di New York avevano fatto domanda per andare nell’Unione Sovietica quando Mosca annunciò l’assunzione di 6000 lavoratori con esperienza. Ci dimentichiamo di quanto vicino l’America sia stata alla rivoluzione aperta. Eleanor Roosevelt temeva che il paese non avesse possibilità di salvezza.

Suo marito mantenne la fede. Sfidò la rabbia contro Wall Street, diffondendola. “Le abitudini dei cambiamonete senza scrupoli sono sotto accusa davanti al tribunale dell’opinione pubblica”, disse all’inizio della sua presidenza. La Federal Reserve era un peso morto ideologico. Sotto la pressione del Congresso, iniziò a comprare bond a metà 1932 al fine di stimolare la fornitura di denaro, ma poi indietreggiò, prima di ritirarsi in una pietosa autogiustificazione. Un terzo dei fondi di emergenza della Hoover's Reconstruction Finance Corporation furono sottratti.

Oggi non c’è stato un simile fallimento dell’immaginazione istituzionale americana anche se, come dice George Soros, le politiche del Tesoro sono state “non ponderate e mutevoli”.

La contemporanea esplosione dello stimolo fiscale e monetario è stata enorme. In breve tempo la Federal Reserve ha ridotto drasticamente i tassi a zero. Ora sta facendo saltar fuori il denaro dal nulla su scala industriale, acquistando 600 milioni di dollari di bond ipotecari per imporre una diminuzione dei mutui per la casa e sostenere il mercato dei commercial paper al fine di evitare che le aziende sospendano in toto i pagamenti. Ben Bernanke, un drogato della Depressione, sta procedendo con un messianico senso di certezza. Il diluvio di denaro dovrebbe assicurare che i prossimi 18 mesi non saranno una ripetizione della valanga di disastri accaduti dal tardo 1931 al primo 1933.

Così facendo si prende un po’ di tempo. Ma non si risolve il problema più profondo, ovvero quello di un Occidente assuefatto al credito Ponzi che ha rimandato il giorno della resa dei conti tramite una politica monetaria ancora più estrema a ogni fase negativa, rubando prosperità al futuro.

Sarà un’operazione delicata raddrizzare di nuovo la barca. Le banche centrali dovranno tirarsi fuori dalla loro avventura nel mercato dei bond senza far esplodere il loro fallimento nel 2010 o 2011. I governi dovranno pianificare un cammino di disciplina puritana anno dopo anno.

Questo sarà il primo severo test per la politica di Barack Obama.