sabato 28 febbraio 2009

Per Obama anche i ricchi devono piangere

Barack Obama presentando ieri il piano di bilancio del governo USA ha parlato di "Sacrifici, soprattutto per i ricchi, ma anche maggiore equità sociale, con l'assistenza sanitaria per tutti gli americani".
Dalla finanziaria per l’anno fiscale 2010 emerge che il deficit degli Stati Uniti si dovrebbe attestare nel 2009 a 1.750 miliardi di dollari, il più alto dai tempi della Seconda guerra mondiale. E Obama ha annunciato che intende dimezzarlo entro la fine del suo primo mandato, nel gennaio 2013, e che sono stati già identificati risparmi per circa duemila miliardi di dollari.

Sulla sanità Obama ha chiarito che il suo bilancio si prefigge di rendere l'assistenza più accessibile ai milioni di americani che hanno perso il posto. Obama ha parlato di un sussidio, in vigore dal 26 febbraio, che aiuterà sette milioni di americani che hanno perso il lavoro a conservare la mutua che avevano prima del licenziamento. La misura è compresa nel pacchetto di stimolo.

Obama ha poi rivolto all'America un invito alle "rinunce" per uscire dalla crisi "Dovremo rinunciare a cose che ci piacciono ma che non ci possiamo permettere [...] Anche a livello di governo sarà necessario tagliare cose che non ci servono per pagare quelle che servono, ovvero una grande riforma della sanità, per estendere a tutti l'assistenza pubblica, anche tassando i più ricchi".

Più in particolare per finanziare la nuova manovra che riguarda la sanità (la spesa prevista è di 634 miliardi di dollari) il presidente ha proposto il primo aumento delle tasse da 16 anni per le famiglie ad alto reddito (quanti guadagnano più di un quarto di milione di dollari all'anno) e una drastica revisione dei pagamenti alle assicurazioni private collegate a Medicare, la mutua per gli anziani.

Il piano di bilancio prevede di risparmiare svariati miliardi di dollari non rinnovando gli sgravi fiscali concessi all'amministrazione Bush ai già ricchi. Saranno interessati da questo provvedimento tutti gli americani che guadagnano oltre 250.000 dollari o 250.000 per le coppie sposate. Per i contribuenti oltre questa soglia, l'incidenza fiscale passerà rispettivamente dal 33% e dal 35% al 36% e al 39,6%.

Un capitolo a parte nella legge di bilancio è dedicato alle guerre. Obama ribadisce quanto annunciato già in altre occasioni sull'Iraq: le truppe americane andranno via dall'agosto 2010. Tuttavia Obama ha precisato che lascerà da 35 a 50mila soldati come consiglieri delle forze irachene e per proteggere gli interessi statunitensi.

Obama ha previsto per le guerre in Iraq e in Afghanistan, dove invece intende rafforzare la presenza militare americana, spese pari a 130 miliardi di dollari nel 2010. Quest'anno le spese militari per le due guerre prevedono stanziamenti eccezionali per 75,5 miliardi, con richieste complessive del Pentagono pari a 141 miliardi. Complessivamente, le spese militari previste per l'esercizio 2010, che scatta il primo ottobre, sono pari a quasi 664 miliardi di dollari, in aumento dell'1,5%.

L'amministrazione Obama potrebbe chiedere inoltre al Congresso nuovi fondi per il maxi-salvataggio del sistema finanziario: altri 750 miliardi di dollari da mettere a disposizione delle istituzioni finanziarie travolte dalla crisi.
Nel frattempo si configura una "seminazionalizzazione" di Citigroup, che potrebbe presto annunciare di aver trovato un accordo con il governo americano per nuove infusioni di capitale in cambio di una partecipazione a favore del Tesoro che potrebbe raggiungere il 40%.


La Finanziaria di Obama: uno schiaffo all'America di Bush
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 28 Febbraio 2009

Sacrifici per i ricchi, una maggiore equità sociale con l’introduzione di un sussidio per i disoccupati ed una idea nuova di produzione e di consumo. Barack Obama ha presentato così il piano di bilancio del governo federale degli Stati Uniti dove, tra gli altri provvedimenti che l’amministrazione s’impegna a prendere, è contenuto anche “un impegno storico per la riforma della sanità”. Una cosa è certa: a Washington la musica è cambiata. Pur non nascondendo la drammaticità del momento, il nuovo presidente americano, nel presentare la sua manovra per l’anno fiscale 2010, promette di "offrire chiarezza su come viene speso ogni singolo dollaro dei contribuenti americani". Sembra passato un secolo da quando G.W. Bush precipitava il mondo intero nel disastro da cui oggi questo è chiamato a risollevarsi.

Non è un quadro felice - e non potrebbe esserlo - quello che emerge dal testo della legge presentata ieri al Congresso americano: il deficit degli Stati Uniti si dovrebbe infatti attestare nel 2009 a 1.750 miliardi di dollari, il più alto dai tempi della seconda guerra mondiale. Una legge dai numeri difficilmente comprensibili per paesi, come il nostro, abituati a gridare al saccheggio per manovre di risanamento dalle poche decine di miliardi di euro. Un progetto di bilancio decisamente ciclopico: 3.500 miliardi di dollari di spesa totale, 1.350 di solo disavanzo commerciale (praticamente l'intero Prodotto Interno italiano) e ben 318 miliardi di nuove entrate fiscali imposte al reddito di chi guadagna oltre 250 mila dollari l'anno, per creare un fondo di riserva per la futura copertura sanitaria universale, che ammonta complessivamente 634 miliardi. Numeri che, se compresi, mettono paura.

Lo stesso Obama ha tuttavia puntualmente precisato l’impegno di dimezzare l’ormai elefantiaco debito entro la fine del suo primo mandato, nel gennaio 2013, dichiarando, già oggi, l’identificazione da parte del governo di risparmi per circa 2.000 miliardi di dollari. Il presidente ha infatti citato, in particolare, risparmi per quasi 50 miliardi raggiungibili con la sola riduzione dei sussidi eccessivi e degli sgravi fiscali decisi dalla precedente amministrazione. Più che un cambio di rotta, quella a cui stiamo assistendo sembra essere, a tutti gli effetti, una vera e propria inversione ad U sulle principali tendenze circa le voci macroeconomiche del bilancio USA.

L'inquilino della Casa Bianca ha infatti parlato di “rinunce” per uscire dalla crisi, in vista di “scelte difficili”: “Dovremo rinunciare a cose che ci piacciono ma che non ci possiamo permettere”, ha detto il presidente, spiegando inoltre che, anche a livello di governo, “sarà necessario tagliare cose che non ci servono per pagare quelle che servono”, ovvero una grande riforma della sanità, per estendere a tutti l'assistenza pubblica, “anche tassando i più ricchi”. Saranno interessati da questo provvedimento tutti gli americani e tutte le coppie sposate che guadagnano oltre 250.000 dollari. Per i contribuenti oltre questa soglia, l'incidenza fiscale passerà rispettivamente dal 35% e dal 33% al 39,6% e al 36%.

Tradotto significa ripristinare lo status quo ante rispetto le politiche fiscali volute dal presidente Bush per rendere la nazione capace di sostenere un serio impegno sociale attraverso l’erogazione di un sussidio, in vigore dal 26 febbraio, che aiuterà sette milioni di americani, che hanno perso il lavoro, a conservare la mutua che avevano prima del licenziamento. Ben altre parole rispetto alle farneticazioni dei think-tank repubblicani che descrivevano l’America post-bushista come un paradiso popolato da soli cittadini proprietari.

Quello che infatti si vuol far passare sotto banco, minimizzandola come fosse una mera sfumatura, è la critica dell’attuale Presidente all’operato del suo predecessore, primo artefice del disastro economico, sociale e morale che sta massacrando l’America e, con lei, tutte le aree del pianeta che, loro malgrado, hanno un’economia strettamente legata al dollaro. Nella difesa del piano da lui stesso fortissimamente sostenuto, Obama ha infatti parlato di un bilancio corposo ma anche “onesto”, sottolineando che “in passato altri bilanci per anni non hanno detto la verità”.

Un capitolo a parte nella legge di bilancio è dedicato alle guerre. L’attuale Comandante in Capo delle forze militari USA non ha risparmiato sferzanti commenti sull’operato dell'amministrazione Bush sulle spese di guerra. “Questo budget rivela i veri costi della guerra in Iraq” ha detto il presidente Usa, ricordando la confusione intenzionale creata dal precedente inquilino della Casa Bianca sui reali oneri sopportati dal paese per finanziare le operazioni belliche nel paese. Obama ha previsto per le guerre in Iraq e in Afghanistan, dove intende rafforzare la presenza militare americana, spese pari a 130 miliardi di dollari nel 2010. Soldi che servono come l’acqua nel deserto e che invece di dissetare il moribondo sono stati bruciati e continuano ad essere bruciati in una guerra abominevole che - è bene continuare a ricordarlo - è stata imposta in spregio alle più elementari leggi del diritto internazionale.

Se a questo disastro si aggiungono gli altri 750 miliardi di dollari da mettere a disposizione delle istituzioni finanziarie travolte dalla crisi, ben si comprende l’eredità lasciata dal presidente Bush e dal suo manipolo di fanatici monetaristi all’America e al mondo intero. Già, perché l’aspetto più infame dell’attuale crisi mondiale è proprio l’interdipendenza degli stati a livello economico. I danni prodotti dall’amministrazione repubblicana hanno messo in ginocchio le economie di tutto il mondo, ma se il disastro è globalizzato altrettanto non potrà accadere per la sua soluzione.

Bene faranno l’Europa, l’America Latina, la Federazione Russa, la Cina, l’India, il Giappone e le rimanenti potenze regionali a ritornare saggiamente ad un’idea di una comunità internazionale composta da tanti stati aventi uguali diritti, ma differenti doveri. Una comunità internazionale di stati sovrani indipendenti dove non vi sono né schiavi né padroni. In definitiva tocca cestinare questi ultimi 8 anni, riconoscere i colpevoli, ma rimboccarsi le maniche e guardare avanti.



Anche Obama dice Rifiuti Zero
di Margherita Bologna - Megachip - 27 Febbraio 2009

Non ci eravamo sbagliati. Esprimiamolo con forza ai nostri enti locali che la strategia Rifiuti Zero non è più un sogno o una meta ideale di qualche visionario (come ancora pensa la maggior parte dei politici che ci governa all’ombra dei presenti e futuri inceneritori), ma è parte integrante della politica dei rifiuti del presidente degli Stati Uniti Obama.

Dal blog di Barack Obama:

Ridurre Riusare Riciclare
«Rimango sempre molto sorpreso quando viaggio fuori dall'Oregon. Vedo bottiglie e lattine sparse ovunque lungo la strada. In Oregon consegniamo bottiglie e lattine ai negozi dei droghieri per avviarle al riciclo e per ciascuna ci sono rimborsati 5 centesimi.
Avete mai notato i negozi di lattine e bottiglie? Date uno sguardo all'elenco degli stati VT, ME, NY, OR, CT, MA, IA, HI, MI, che pagano le lattine e le bottiglie riconsegnate. Ricordo l'episodio intitolato Il Deposito di Bottiglie nella sitcom Seinfeld, quando Paul Newman impara che le bottiglie e le lattine sono rimborsate 10 centesimi in Michigan (contro i 5 cent di altri stati). Ricordate quella scena?
Riciclare bottiglie e lattine è solo l'inizio.
La gente dovrebbe prendersi cura nel miglior modo del nostro unico pianeta e produrre meno rifiuti praticando le tre R.

Ridurre la quantità e tossicità dei rifiuti che produciamo. Riusare contenitori e prodotti. Riparare ciò che si è rotto o donarlo a qualcuno che sia in grado di ripararlo. Riciclare il più possibile, includendo l'acquisto di beni prodotti con materiali riciclati.
Io penso che, come nazione, dobbiamo approvare norme federali, dandoci degli obiettivi raggiungibili, che impongano a tutti gli stati di riciclare plastica, alluminio, carta, ecc. lavorando ad un processo che ci porti sempre più vicino al traguardo Rifiuti Zero.
Suvvia! Tutti gli animali eccetto l'uomo lo fanno ogni giorno. Noi non pensiamo di essere la specie più evoluta?
Cerchiamo di non avere la vista corta, pensando solo nei tempi brevi e concentrando la nostra attenzione sul vantaggio finanziario immediato. La vita è molto di più che un margine di profitto derivante dagli affari. Prendiamo in considerazione la qualità della vita per le future generazioni. La mia impressione è che l'attuale generazione sia maggiormente interessata a un governo intelligente. Speriamo di poter governare abbastanza per svolgere questo compito. Prendendo in considerazione questo problema se la soluzione "mercato" funziona, la favoriamo. Se la soluzione a un problema richiede un intervento governativo, lo facciamo. Ma guardiamo alle conseguenze pratiche. Penso che la gente oggi voglia questo tipo di politica».

Fin qui le parole di Obama. Senza scomodarlo, possiamo trovare già qui in Italia modi intelligenti di gestire i rifiuti. Modi alternativi all’incenerimento. Ne parlo sinteticamente in una videopresentazione disponibile su Youtube: [QUI].

Ho cercato e trovato le tecnologie di selezione dei rifiuti a freddo alla fiera "Ecomondo" che si svolge a Rimini tutti gli anni. Contemporaneamente mi sono adoperata perché i nostri amministratori potessero vederle in azione, portandoli a visitare diversi impianti che operano in Italia da diversi anni. Questo lavoro di informazione sul territorio rema contro prassi politiche consolidate, tutte votate al mito dell'incenerimento. Finalmente sta ottenendo i suoi primi riconoscimenti. Questione di informazione.



Bye bye Iraq
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 28 Febbraio 2009

Fine della missione di combattimento entro il 31 agosto del prossimo anno, e ritiro completo a fine 2011. Quella in Iraq, Barack Obama aveva insistito già in campagna elettorale, è una guerra sbagliata da far finire al più presto. Per concentrarsi su altre priorità: il conflitto in Afghanistan, il sostegno al Pakistan contro gli estremisti islamici, nell'ambito di un disegno mediorientale che comprende il dialogo con l'Iran e la Siria. Qualche giorno dopo aver delineato al Congresso il suo piano per salvare un'economia in crisi, il presidente statunitense ha esposto la sua visione per le due guerre ancora combattute dagli Usa, in un discorso tenuto alla base dei Marines a Camp Lejeune, in North Carolina.

Entro 18 mesi, ha detto Obama, la presenza militare in Iraq verrà ridotta dagli attuali 142mila soldati a 35-50mila, che avranno il solo compito di addestrare e consigliare le forze armate irachene, nonché quello di "condurre azioni mirate di anti-terrorismo e proteggere le nostre missioni civili e militari nel Paese". La progressiva "irachizzazione" del conflitto diventerà completa entro il 2011, quando gli Stati Uniti ritireranno i loro ultimi uomini; ma nel caso di problemi alle operazioni, ha aggiunto Obama, il calendario potrà essere rivisto con le autorità di Baghdad. Parte dei soldati verrà, come annunciato nei giorni scorsi, dirottata verso l'Afghanistan, dove nelle prossime settimane il contingente americano crescerà di 17mila unità.

Ridurre fino al ritiro completo la presenza militare in Iraq contribuirà sicuramente all'obiettivo di Obama di dimezzare il deficit entro la fine del suo mandato (per quanto quest'anno, con a causa del massiccio piano contro la crisi, costituirà il 12 percento del Pil, il livello più alto dalla seconda guerra mondiale).

Ma le spese militari statunitensi non diminuiranno con la nuova amministrazione, anzi. Obama intende comunque ingrandire le forze armate e dedicare nuove risorse alle cure mediche e psicologiche dei veterani, senza tagliare le spese per gli armamenti. Il nuovo budget del dipartimento della Difesa comporterà così una crescita del 4 percento, fino a 533,7 miliardi di dollari. In aggiunta, per gli sforzi bellici sono già stati richiesti al Congresso altri 200 miliardi per il prossimo anno e mezzo. Se fosse un Paese, il Pentagono sarebbe la 17esima economia mondiale: spende 21mila dollari al secondo.

Confermando una rivoluzione rispetto all'amministrazione Bush nell'approccio a Paesi alleati e nemici, Obama ha affermato che il futuro del Medio Oriente passa anche attraverso un dialogo "che includa l'Iran e la Siria", due Paesi inclusi nell' "asse del male" dal suo predecessore, prima dell'invasione dell'Iraq. "Ecco perchè - ha aggiunto Obama - stiamo puntando di nuovo ad al Qaida in Afghanistan e in Pakistan; sviluppando una strategia con tutti gli elementi del potere americano per prevenire l'Iran dallo sviluppare l'arma nucleare; e attivamente cercando di raggiungere una pace duratura tra Israele ed il mondo arabo".

Non è detto che il Congresso accetti senza fiatare la richiesta di 200 miliardi per l'Iraq e l'Afghanistan. Sebbene i politici statunitensi stiano ben attenti a non essere bollati come "ostili alle truppe", il ritiro graduale dall'Iraq voluto da Obama non soddisfa tutti. Mentre i repubblicani - a partire da John McCain, secondo cui il piano è ben preparato - sono in generale favorevoli, è dal partito del presidente che arrivano le maggiori critiche: per molti deputati e senatori, lasciare fino a 50mila militari per un altro anno e mezzo è troppo. La pensa così per esempio Nancy Pelosi, la speaker della Camera dei rappresentanti, e sicuramente è d'accordo parte dell'elettorato di Obama più ostile alla guerra in Iraq, contro cui l'attuale presidente si è opposto fin dall'invasione.

Sui piani bellici come su quelli di stimolo economia, Obama può comunque giocare un enorme capitale politico accumulato, che si traduce in un consenso al suo operato superiore al 60 percento. Anche per questo, ha appena rivisto la politica del Pentagono - risalente alla prima guerra del Golfo - di vietare la pubblicazione di foto delle bare dei caduti in guerra, quando rientrano in patria avvolte nella bandiera a stelle e strisce: diventerà possibile, con il consenso della famiglia. A oggi, i morti statunitensi in Iraq sono 4.250, quelli in Afghanistan 660 ma in forte aumento (gà 30 nel 2009).

Sotto Bush, la censura di tali fotografie veniva interpretata come un tentativo di vendere agli americani una versione edulcorata della guerra; Obama intende invece seguire i principi di trasparenza di governo promessi in campagna elettorale. C'è chi fa notare il rischio che il fiume di immagini, se il ritorno di bare dall'Afghanistan dovesse crescere ulteriormente, possa far diventare quel conflitto il "Vietnam di Obama", mettendogli contro l'opinione pubblica. Ma è anche vero che, da quando le violenze in Iraq hanno iniziato a placarsi, le due guerre sono in sostanza sparite dalla scaletta dei media statunitensi. Difficile che altre centinaia di bandiere su una bara cambino la stanchezza degli Usa verso una guerra che la maggior parte della popolazione considera in sostanza finita con la caduta dei talebani. Ma in realtà, se per la guerra in Iraq si intravede la conclusione, per l'Afghanistan l'epilogo sembra ancora lontano.

venerdì 27 febbraio 2009

Una protesta in crisi?

Qui di seguito si parla di una delle conseguenze di questa crisi economica globale: la protesta globale.


Crisi, la protesta diventa globale: 50 milioni di lavoratori rischiano di restare senza posto
di Federico Fubini - Il Corriere della Sera - 27 febbraio 2009

Sul calendario, la polizia di Londra ha già marcato in rosso le date che potrebbero incendiare la primavera dello scontento. Ed è un'ironia amara per Gordon Brown che il giorno segnato come il più infiammabile sia quello che, nei piani, doveva assicurare l'apoteosi del premier in vista delle elezioni. Il 2 aprile, vertice dei leader del G20, rischia invece di dimostrarsi l'opposto: secondo David Hartshorn, capo dell'ordine pubblico alla polizia londinese, potrebbe innescare una stagione di disordini, picchetti, regressione allo scontro sociale dei primi anni di Margaret Thatcher.

Brown sa che è possibile. Lo ha capito quando il blocco agli impianti Total nel Lincolnshire, contro l'impiego di 300 operai italiani e portoghesi, si è trascinato dietro scioperi selvaggi di solidarietà in tutto il Regno. La recessione e i licenziamenti colpiscono in Gran Bretagna più duro che altrove, ma il governo di Londra non ha certo l'esclusiva delle piazze coi nervi a fior di pelle. A fine gennaio in Francia due milioni e mezzo di lavoratori, dalle infermiere ai professori, hanno decretato una plateale paralisi del Paese e da settimane le ex colonie alle Antille vivono nella violenza di piazza.

In Grecia il mese scorso studenti e disoccupati hanno messo a ferro e fuoco le città, quindi gli agricoltori hanno bloccato le arterie di traffico del Paese fino a che il premier Costas Karamanlis è stato forzato a cambiare 9 ministri su 16. In Turchia, Bulgaria e Lituania i cortei anti- governativi sono degenerati nella violenza. In Islanda e Lettonia, entrambe colpite dal contagio finanziario, i dimostranti hanno già licenziato i governi mentre anche a Dublino ormai il malumore si è rovesciato in strada. Persino sistemi autoritari che dalla crescita traevano la loro legittimità, da Mosca e Pechino, fanno ormai i conti con l'impatto della crisi sugli equilibri fra cittadini e potere.

Di rado una recessione così è rimasta senza conseguenze politiche, e questa potrebbe non fare eccezione. Secondo l'Ituc, l'associazione internazionale dei sindacati, il 2009 produrrà nel mondo 50 milioni di nuovi disoccupati: tutti i lavoratori di Italia e Francia messi assieme. Per dirla con Rupert Murdoch, il cui impero dei media è un termometro degli umori in tre continenti, questa fase «ridefinirà le nazioni alle fondamenta». Di sicuro potrebbe farlo con certi leader, a giudicare dalla parabola curiosamente simile di Gordon Brown e Nicolas Sarkozy negli ultimi mesi. Quando in autunno la crisi è entrata nella sua fase acuta, la popolarità interna di entrambi ha avuto un soprassalto grazie al loro ruolo globale: l'attivismo di Sarkozy in Europa e quello di Brown nel proporre al G7 misure per le banche, avevano elevato il profilo di entrambi e placato le opinioni pubbliche. Non è durato molto.

In Gran Bretagna la forbice con i conservatori è tornata ad aprirsi, con il Labour ora di nuovo indietro di dodici punti; secondo un sondaggio IMC per il Guardian, il 63% degli elettori pensa ora che i laburisti dovrebbero cambiare leader. E la minaccia xenofoba resta appena sottopelle: Hartshorn, alla polizia di Londra, avverte che il gruppo neofascista «Combat 18» sta reclutando nuove forze grazie al malumore verso i lavoratori dell'Europa dell'Est assunti nei cantieri per le Olimpiadi del 2012.

Anche da questa parte della Manica i sondaggi segnalano allerta rosso. Lo sciopero generale del 29 gennaio e i disordini della Guadalupa, dove un sindacalista è morto, non sono i soli campanelli d'allarme per Sarkozy. Il leader, è vero, capta i segnali e non si risparmia: sei miliardi al settore auto purché gli impianti restino in Francia, 2,5 per sostenere i consumi, aumenti ai funzionari alle Antille. Ma quando lui stesso è andato in diretta per un'ora e mezza a reti unificate dopo lo sciopero, ha tenuto fermo il timore: «Avanti con le riforme». Peccato che, secondo Tns Sofrès, il 58% dei francesi dichiari che il presidente «parla molto ma non fa granché» e per il 57% il Paese «va nella direzione sbagliata» (solo per il 31% in quella «giusta»). Quanto alla Guadalupa, quattro francesi su cinque pensa che la rivolta sia «giustificata».

Lo spettro dell'Eliseo, spiega l'ex editorialista di Le MondePatrick Jarreau sul sito «Rue89», è il '95: allora la piazza paralizzò Jacques Chirac proprio quando l'Eliseo pareva onnipotente. Nel giro di pochi giorni, Chirac fece del suo primo ministro Alain Juppé il capro espiatorio. Ma il paradosso stavolta è che in quella posizione a Mosca potrebbe trovarsi ora Vladimir Putin, ad opera del «suo» presidente Dmitrij Medvedev. Questi biasima in pubblico la lentezza del governo nel reagire alla crisi, magari perché cerca così di anticipare il disorientamento dei russi. In mezzo milione hanno perso il posto a dicembre, in trecentomila a gennaio e in un anno l'economia è crollata dell'8,8%. A Mosca, Pskov, Volgograd e soprattutto a Vladivostok, nell'estremo oriente, la polizia è intervenuta a reprimere le proteste di piazza. Nei porti sul Pacifico il malumore si concentra contro i dazi all'import di auto giapponesi usate, a difesa della decrepita industria russa. Ma la violenza delle forze anti- sommossa, che ancora circola su You Tube, ha solo acuito la tensione. L'indice di gradimento della coppia Putin-Medvedev resta alto, eppure secondo l'istituto di sondaggi Levada metà dei russi pensa che il governo non faccia abbastanza per il potere d'acquisto.

Anche la leadership cinese annusa il pericolo, registra le sommosse davanti alle fabbriche sbarrate a Canton e altrove e cerca di tappare le falle: 460 miliardi di euro di investimenti per dare lavoro nei nuovi cantieri, aiuti all'acquisto di beni di consumo. Ma per Pechino la sfida della stabilità sociale resta delicata: solo negli ultimi mesi, in 20 milioni hanno perso il posto mentre ogni anno il sistema deve assorbire 15 milioni di migranti dalle campagne e sei di nuovi laureati.

Al confronto i 120 mila in piazza a Dublino contro il governo di Brian Cowen sabato scorso, la più vasta manifestazione di sempre sull'isola, sono ben poco. Forse però solo in apparenza: l'economia sta collassando del 10%, la finanza privata e pubblica sono vicine alla respirazione artificiale. E fra qualche mese, gli irlandesi devono gettare nell'urna del referendum la scheda decisiva per far vivere, o morire, la carta costituzionale europea.



La grande crisi: il conflitto sta per scatenarsi
di Pino Cabras - Megachip - 26 Febbraio 2009

Una cosa poco raccontata della crisi economica mondiale – almeno in Italia – è la crescita di grandi movimenti di protesta nel mondo del lavoro. Abbiamo cercato di dar conto sia di quanto si è mosso in altri paesi, sia delle iniziative organizzate in Italia dalla Cgil, che sono solo un’avvisaglia di avvenimenti più forti in vista. Segnali non trascurabili arrivano anche dal sindacalismo di base, alternativo e indipendente, con una sua distinta piattaforma di rivendicazioni rivolte ad alcuni nodi difficili del mondo del lavoro: temi che solo qualche tempo fa sarebbero stati un tabù, ma oggi diventano improvvisamente più “legittimi”.

Il contesto è quello che ha visto in poche settimane «Il Sole 24 Ore» e «The Economist» passare dalla vulgata neoliberista a fenomenali esaltazioni dell’intervento pubblico nell’economia. È una circostanza storica in cui anche il sindacalismo più eterodosso acquista una forza particolare, e le sue “visioni” appaiono un’offerta rivendicativa capace di rompere molti schemi. Accade in tutta Europa, e l’Italia non farà eccezione. Non né un caso che il governo, questo governo, sempre più sospinto a misure che intendono forzare la Costituzione, abbia puntato la prua contro il diritto di sciopero.

L’Assemblea nazionale del Patto di Consultazione Cub, Cobas e Sdl ha indetto una manifestazione nazionale (28 marzo 2009) e uno sciopero generale e generalizzato con manifestazioni regionali (23 aprile) per proporre una nuova piattaforma a ridosso dell’accelerarsi della Grande Crisi e in previsione degli imminenti sconvolgimenti nel mondo del lavoro. Il sindacalismo alternativo punta proprio al bersaglio grosso, la Grande Crisi: «essa è una crisi globale, strutturale, di sistema che investe tutto il sistema di produzione e di vita capitalistico. C’è un intreccio micidiale di crisi, che ingigantiscono quella economica, già di per sé enorme; c’è una crisi ambientale, poiché la devastazione della natura e i cambi climatici mettono in discussione addirittura la continuità della vita in tanti parti del mondo, una crisi energetica e una crisi alimentare. E a compenetrarle tutte, c’è la gigantesca crisi legata alla guerra permanente e globale che percorre il mondo: la guerra, lungi dall’attenuarsi, viene vista dai padroni del mondo come la carta a disposizione per placare le altre crisi del sistema.»Un sindacato di minoranza vuole opporsi a tutto questo? Sarebbe un “vasto programma”, avrebbe forse detto De Gaulle.

Ma la carne viva del lavoro oggi, fra nuove disuguaglianze e un precariato di massa che mette in mora già in questi mesi le residue certezze di milioni di lavoratori (milioni, si badi), trova immediatamente un terreno di scontro su chi dovrà pagare i costi della crisi. Le disuguaglianze si presentano con dura evidenza, mentre filtrano le cronache dei bonus che ancora remunerano i banchieri che hanno determinato la corsa al disastro, intanto che gli stati corrono a salvare prima di tutto proprio queste figure tragiche del nostro tempo e il loro sistema. «Ma la crisi, come dice la parola stessa che rimanda a trasformazioni e cambiamenti, può anche essere – dicono i sindacati di base - una grande occasione di mutamento dei parametri per la vita sul globo.» Ammettono che la possibilità non è affatto scontata: «in passato grandi crisi hanno anche prodotti brutali involuzioni reazionarie». Facendo riferimento a questo quadro in rapidissimo movimento, il Patto di Consultazione punta comunque a specifiche proposte legate alla vicenda italiana e alle sue relazioni industriali, riconoscendo che la Cgil si colloca in una posizione molto diversa dagli altri sindacati confederali.

Pronti dunque a giocare un ruolo nella fase di apertura del conflitto sociale nel momento in cui il governo vorrebbe stringere le viti delle forme di contrattazione indebolendo le rappresentanze sindacali.

La piattaforma rivendicativa si riassume nei seguenti punti:

1. Blocco dei licenziamenti;

2. Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;

3. Aumenti consistenti di salari e pensioni, introduzione di un reddito minimo garantito per chi non ha lavoro;

4. Aggancio dei salari e pensioni al reale costo della vita;

5. Cassa integrazione almeno all’80% del salario per tutti i lavoratori, precari compresi, continuità del reddito per i lavoratori “atipici”, con mantenimento del permesso di soggiorno per gli immigrati;

6. Nuova occupazione mediante un Piano straordinario per lo sviluppo di energie rinnovabili ed ecocompatibili, promuovendo il risparmio energetico e il riassetto idrogeologico del territorio, rifiutando il nucleare e diminuendo le emissioni di CO2;

7. Piano di massicci investimenti per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, sanzioni penali per gli omicidi sul lavoro e gli infortuni gravi;

8. Eliminazione della precarietà lavorativa attraverso l’assunzione a tempo indeterminato dei precari e la re-internalizzazione dei servizi;

9. Piano straordinario di investimenti pubblici per il reperimento di un milione di alloggi popolari, tramite utilizzo di case sfitte e mediante recupero, ristrutturazione e requisizioni del patrimonio immobiliare esistente; blocco degli sfratti, canone sociale per i bassi redditi;

10. Diritto di uscita immediata per gli iscritti/e ai fondi-pensione chiusi.

Il governo va già in direzione opposta. Le restrizioni al diritto di sciopero e il preteso ritorno agli enormi investimenti per l’energia nucleare sono cosa di queste ore, e saranno punti di frizione fortissima nei prossimi mesi. Anche dalla Cgil arrivano reazioni durissime. Il più grande sindacato sottolinea la gravità dell'attacco alla Costituzione: «lo sciopero infatti è un diritto soggettivo del lavoratore e non può essere in alcun modo impedito.»

Il provvedimento del governo sarà il tema chiave della manifestazione nazionale che si svolgerà a Roma il 4 aprile 2009 per respingere l'accordo separato fra governo da una parte e Cisl, Uil e Ugl dall’altro. In due settori vasti e cruciali come il pubblico impiego e la scuola i lavoratori hanno votato in massa al referendum sui contratti firmati solo da Cisl e Uil seppellendoli sotto una valanga di no.

Si incrociano dunque date diverse, strategie e pesi differenti nel mondo del lavoro. In mezzo alle lotte sociali si giocherà anche una battaglia egemonica fra diversi modi d’intendere il ruolo del sindacato. Nel frattempo, Berlusconi sembra avere una gran fretta di chiudere la partita costituzionale per essere lui il nocchiero della nave in gran tempesta. Per posizionarsi meglio impone un’agenda mediatica che silenzia il più possibile i temi della crisi e del lavoro, e impone inoltre un’agenda politica che parla lo stesso d’altro, anche perché il principale presunto oppositore, il PD, glielo lascia fare.

Senza sponde forti, nulla ammorbidirà le abrasioni di uno scontro sociale inevitabile, data la portata della crisi.




Piazze piene in Europa, pagine vuote in Italia
di Paolo Maccioni - Megachip - 2 febbraio 2009

L'Europa da est a ovest è in sussulto ma in Italia ne sappiamo poco o nulla. Abbiamo già visto su questo sito un riassunto di notizie sullo scossone di rivolte e proteste che sta investendo l’Europa, causate dalla Grande Crisi economica globale. Eppure in Italia si registra ben poco di tutto ciò.

Anche stavolta come a gennaio non è necessario spulciare testate indipendenti né scovare blog con le antenne ben puntate: addirittura sugli organi mainstream si dà conto dell’ondata di proteste di massa, scioperi, marce che da Mosca a Reykjavik, da Riga a Madrid sta invadendo il Vecchio Continente. Un malumore diffuso che ha invaso e che sta inondando Russia, Repubblica Ceca, Lettonia, Estonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Creta, Grecia, Francia, Spagna, Islanda, Gran Bretagna.

Ma sotto la nostra italica campana di vetro poco di tutto ciò. Nulla sulle prime pagine, ben poco su quelle interne di grandi e piccoli quotidiani italiani, nulla nei serpentoni dei tg, niente. Come se i fatti non stessero accadendo, ora, accanto a noi. Eppure le notizie ci sarebbero pure, anzi ci sono e come. Non solo, ma sono pure di quel tipo che fanno vendere copie o crescere l’audience, ormai gli unici criteri validi in grado concedere ad una notizia il diritto di cittadinanza sui media nostrani.

«Le proteste antigovernative sono rare in Russia» come notano in un articolo a firma congiunta Michael Schwirtz e Clifford J. Levy sull’«Herald Tribune» del 1 febbraio, «e queste ultime di sabato, a Mosca e in parecchie altre città in tutto il paese, arrivano fra la crescente rabbia popolare con un governo non abituato a critiche massicce e diffuse dopo anni di forte crescita economica».

Le ragioni delle proteste dovrebbero suonarci familiari: «Il governo ha stanziato miliardi di dollari per il bail out delle banche in difficoltà ma non ha ancora pianificato una chiara strategia a lungo termine per fronteggiare la crescente disoccupazione e la rapida svalutazione del rublo.

Circa 1000 persone hanno preso parte ad una marcia organizzata dal Partito Comunista Russo a Mosca, chiedendo il ritorno delle politiche economiche centralizzate dell’Unione Sovietica. In un’altra parte della città circa 200 manifestanti di gruppi di opposizione sono riusciti a marciare per parecchi isolati, eludendo la polizia in un percorso tortuoso attraverso la rete della metropolitana cittadina. Il gruppo agitava bandiere e gridava “Abbasso lo stato di polizia!” e “Russia senza Putin”.

Il colonnello Viktor Biryukov, portavoce della polizia di Mosca, informa che 41 persone sono state arrestate in varie piccole manifestazioni non autorizzate in tutta la capitale sabato. Fra loro Eduard Limonov, scrittore e leader del già messo al bando Partito Nazionale Bolscevico, gruppo che ha avuto un ruolo di primo piano nell’organizzare le manifestazioni di piazza. Frattanto parecchie migliaia di persone si raccoglievano nel centro di Mosca per una dimostrazione organizzata dal principale partito pro-Cremlino – dice il sito web del partito – a sostegno delle politiche del governo.»
Così pure a Vladivostok, all’estremità orientale della Russia.

In Francia centinaia di migliaia di persone in piazza nella più grande manifestazione popolare contro le politiche economiche di Nicolas Sarkozy da quando si è insediato nel 2007. Una notizia che ha avuto qualche rilievo da noi, ma è stata soffocata e presto spinta giù dalla cronaca nera e dalle molto più leziose e marginali tensioni diplomatiche fra Italia e Brasile e dai sofismi lefebvriani.

«In Georgia forze sparse dell’opposizione politica sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Mikhail Saakashvili e per chiedere elezioni presidenziali e parlamentari anticipate» riferisce ancora l’«Herald Tribune». «La popolarità di Saakashvili toccò il minimo nel 2007, dopo che il governo usò la forza per porre fine alle marce di protesta. La guerra in Georgia, tuttavia, spostò l’attenzione sulla minaccia russa e consolidò il sostegno intorno al presidente (vecchia ricetta buona per tutte le stagioni e a tutte le latitudini: la guerra per rafforzare il potere). La Georgia è stata scossa dalla crisi finanziaria globale e i rivali politici di Saakashvili lo hanno ferocemente criticato per avere portato il paese al confronto con la Russia. Lo stile di Saakashvili, dicono, è diventato sempre più autocratico ed intollerante nei confronti del dissenso.»

Saakashvili dunque che «usa la forza per sedare le proteste», l’uomo che il giornalismo paludato nostrano definiva il paladino della civiltà occidentale nell’autocratica periferia russa e vittima anziché promotore della guerra in Ossetia del Sud, in una delle pagine più buie del giornalismo italiano recente. Accadde appena l’estate scorsa, quando grandi testate e pasciuti soloni radiotelevisivi si prodigarono in un’invereconda opera di disinformazione. La guerra georgiana in Ossetia divenne, grazie ai mistificatori nostrani, la guerra d’Ossetia in Georgia.

La Grecia è in agitazione da mesi ormai. Ma dopo il colore iniziale di qualche mese fa, che le fece guadagnare spazio su giornali e tv, ora è rientrata nei ranghi dell’oblio e dell’anonimato. I contadini da dieci giorni bloccano il principale passo autostradale del confine con la Bulgaria. «La crisi può accendere disordini in tutta Europa», dice a Davos il ministro delle finanze francese, Christine Lagarde, a quanto riferisce la BBC.Sabato, informa l’articolo, centinaia di persone hanno manifestato a Ginevra e a Davos per protestare contro il Forum Economico Mondiale.

E bisognerà sperare che a Davos si preoccupino di fronteggiare la crisi anziché di reprimere le popolazioni manifestanti. I segnali vanno in direzione della soluzione più stupida.

In Germania «Der Spiegel» impagina un réportage fotografico delle manifestazioni di protesta in tutta Europa.Mentre addirittura il «Washington Post», che pure dista un Oceano, pubblica un lungo servizio, firmato da Philip P. Pan, sulle manifestazioni di protesta in Lettonia contro il modo di affrontare la crisi da parte del governo e per chiedere elezioni anticipate. La rabbia montante ed il diffuso malumore in parecchi paesi sopratutto dell’est Europa trovano ben più spazio nel giornale statunitense di quanto se ne rintracci nei nostri. «Dominique Strauss-Kahn, capo del Fondo Monetario Internazionale – scrive Pan sul Post – afferma che la crisi finanziaria potrà causare tumulti e agitazioni “quasi ovunque” ed elenca Lettonia, Ungheria, Bielorussia ed Ucraina fra le nazioni più vulnerabili. “Potrebbe peggiorare nei prossimi mesi” dice Strauss-Kahn alla BBC.»

Be’, quando questo accadesse, gli italiani, come il corvo calviniano, arriveranno per ultimi: ultimi a saperlo, ultimi a capirlo, avranno meno strumenti per comprendere che cosa sta succedendo tutt’intorno a noi in Europa, a partire dai vicinisimi Balcani. Saranno i cittadini meno preparati d’Europa. In compenso avranno avuto una posizione netta e ben ponderata sull’opportunità o meno di giocare l’amichevole Italia-Brasile.

giovedì 26 febbraio 2009

Nazionalizzare le banche zombie?

La Royal Bank of Scotland sara' la prima banca che tentera' di dare un valore, vendendoli, ai suoi titoli tossici. La Rbs ha annunciato una perdita record per il Regno Unito di 24 miliardi di sterline (34,3 miliardi di dollari) per il 2008.

Inoltre fa sapere che mettera' in vendita sul mercato attività per 325 miliardi di sterline (462 miliardi di dollari) all'interno di un programma garantito dal governo.

Secondo questo schema di vendita, che di fatto e' un nuovo piano di salvataggio del governo, Rbs sara' responsabile per i primi 19,5 miliardi di sterline di perdite, pari al 6% del valore delle attività messe in vendita. Tutte le perdite successive saranno per il 10% a carico di Rbs e per il 90% dello stato britannico.

Inoltre lo Stato, che già detiene circa il 70% del capitale dell'istituto, apportera' 13 miliardi di sterline di capitale aggiuntivo, sotto forma di azioni speciali che non faranno crescere la partecipazione pubblica e non porteranno quindi a una nazionalizzazione totale di Rbs.

Intanto oggi Tremonti ha firmato il decreto che da' il via libera alla sottoscrizione, da parte del Tesoro, di obbligazioni emesse dalle banche italiane. Le banche pagheranno una cedola annuale compresa tra il 7,5 e l'8,5 per cento per i primi anni. Cedola che poi andra' a crescere gradualmente.

Gli impegni che il Tesoro richiede agli istituti per sottoscrivere le obbligazioni sono: il contributo finanziario per rafforzare la dotazione del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese (pmi); l'aumento delle risorse da mettere a disposizione per il credito alle pmi, per i lavoratori in cassa integrazione o percettori di sussidio di disoccupazione, la sospensione del pagamento della rata di mutuo per almeno 12 mesi; la promozione di accordi per anticipare le risorse necessarie alle imprese per il pagamento della cassa integrazione.

Oggi inoltre Tremonti ha dichiarato "Da molti anni, almeno dal 2000 in poi, i derivati non hanno piu' la funzione assicurativa ma diventano operazioni speculative fini a se stesse. In questo momento il volume nazionale dei derivati e' pari, secondo i dati del Congresso degli Stati Uniti ma anche secondo la Banca dei regolamenti, a 12,5 volte il Pil del mondo. La differenza di partite e' secondo alcuni 30, secondo altri 40 trilioni di dollari, il piano della presidenza americana e' un trilione di dollari. Questo da' un'idea della degenerazione che e' avvenuta nelle strutture del capitalismo".

E se lo dice lui...


USA, una voragine da 2 trilioni di dollari

di Nouriel Roubini - 26 Febbraio 2009

Un anno fa avevo previsto che le perdite delle istituzioni finanziarie statunitensi avrebbero raggiunto un totale di almeno un trilione di dollari, senza escludere la possibilità di arrivare anche a due trilioni di dollari. In quel periodo economisti e politici erano concordi nel ritenere sbagliate per eccesso queste stime.

Si pensava che in totale le perdite sui mutui subprime non avrebbero superato i 200 miliardi di dollari. Come avevo sottolineato, in un contesto che vede gli Stati Uniti e l'economia globale scivolare sulla china di una grave recessione, le perdite delle banche non si potevano limitare ai mutui subprime, ma tendevano ad estendersi ad altre forme di prestiti ipotecari (near-prime e prime), alle carte di credito, al settore immobiliare commerciale, a crediti di vario tipo (in favore di studenti, di imprese commerciali e industriali o per l'acquisto di automobili), ai corporate bond, ai titoli sovrani o emessi da stati ed enti locali, oltre che a tutti gli asset di copertura dei suddetti prestiti. Ma di fatto, da allora i write-down delle banche Usa hanno oltrepassato la soglia di un trilione di dollari (la cifra da me indicata come previsione minima delle perdite), e a questo punto istituzioni quali l'Fmi e la Goldman Sachs prevedono perdite per oltre due trilioni.

Se qualcuno continua a ritenere esagerata questa cifra, vorrei far notare che secondo le ultime valutazioni di Rge Monitor, il mio istituto di ricerca e consulenza, la cifra complessiva delle perdite sui prestiti concessi dagli istituti finanziari Usa, cui vanno aggiunte quelle risultanti dal calo del valore di mercato degli asset in loro possesso (ad esempio i titoli garantiti da mutui ipotecari) potrebbe arrivare addirittura a 3,6 trilioni.Le banche Usa e gli intermediari sono esposti per la metà circa di questa somma, cioè per 1,8 trilioni di dollari. Il resto è distribuito tra altre istituzioni finanziarie, sia negli Usa che altrove. L'autunno scorso il capitale a copertura degli asset bancari era di appena 1,4 trilioni, per cui il sistema bancario Usa risultava in rosso per 400 milioni di dollari; e anche dopo gli interventi di ricapitalizzazione ad opera del governo e del settore privato, la sua riserva di capitale è praticamente pari a zero.

Servirebbero altri 1,5 trilioni di dollari per riportare il capitale delle banche al livello pre-crisi: solo così si potrà superare la stretta del credito, e rilanciare i prestiti al settore privato. In altri termini, il sistema bancario Usa è di fatto insolvente nel suo complesso, al pari di gran parte del sistema bancario britannico e di molte banche dell'Europa continentale.

Per il risanamento di un sistema bancario che deve far fronte all'attuale crisi sistemica le ipotesi sono fondamentalmente quattro: la ricapitalizzazione delle banche, con il contemporaneo acquisto dei loro titoli tossici da parte di una "bad bank" governativa; la ricapitalizzazione, accompagnata da garanzie governative - dopo un'iniziale perdita delle banche - degli asset tossici; l'acquisto da parte di privati degli asset tossici con garanzia governativa (l'attuale piano del governo Usa); e infine la pura e semplice nazionalizzazione - chiamandola magari con un altro nome (come ad esempio "government receivership") in caso di rifiuto di questo termine scabroso - delle banche insolventi, da rivendere poi al settore privato una volta risanate.

Di queste quattro opzioni, le prime tre presentano gravi inconvenienti. Nel caso della "bad bank", il governo rischierebbe di pagare prezzi troppo alti per i titoli tossici, sul cui vero valore non vi sono certezze. Anche l'ipotesi della garanzia potrebbe implicare un esborso statale eccessivo ( nel senso di una garanzia troppo elevata, per la quale il governo non percepirebbe un corrispettivo adeguato.

La soluzione della "bad bank" comporterebbe un ulteriore problema: il governo si troverebbe a dover gestire tutti i titoli tossici acquistati senza disporre delle necessarie competenze tecniche. Quanto all'idea - invero molto macchinosa, avanzata dal Tesoro - che propone di stralciare i titoli tossici dai bilanci delle banche, fornendo al tempo stesso garanzie da parte del governo - è apparsa subito complicata e poco trasparente, tanto che è bastato il suo annuncio a provocare una reazione nettamente negativa dei mercati.

Paradossalmente, la nazionalizzazione potrebbe rivelarsi come la soluzione più favorevole dal punto di vista del mercato: verrebbero infatti esclusi dalle istituzioni palesemente insolventi sia gli azionisti comuni che i detentori di azioni privilegiate, e in caso di insolvenza molto estesa anche i creditori non garantiti, assicurando al tempo stesso ai contribuenti un compenso adeguato. In questo modo si risolverebbe anche il problema della gestione dei bad asset delle banche, rivendendo la maggior parte dei titoli e dei depositi - con una garanzia da parte del governo - a nuovi azionisti privati, una volta risanati i titoli tossici (come nella soluzione adottata per il fallimento della IndyMac Bank).

La nazionalizzazione risolverebbe oltre tutto anche il problema delle banche che rivestono un'importanza sistemica, "too big to fail" - cioè troppo grosse per poter fallire - e che quindi il governo deve necessariamente soccorrere, a un costo molto elevato per i contribuenti. Oggi di fatto il problema si è ulteriormente aggravato, poiché le soluzioni finora adottate hanno indotto le banche più deboli a rilevarne altre ancora più malridotte.

Le fusioni tra "banche zombie" ricordano un po' il comportamento degli ubriachi che cercano di aiutarsi l'un l'altro a rimanere in piedi: lo dimostrano le operazioni con cui JPMorgan, Wells Fargo e Bank of Americ hanno rilevato rispettivamente Bear Stearns e Wa Mu, Wachovia, Countrywide e Merril Lynch. Con la nazionalizzazione il governo toglierebbe di mezzo queste mostruosità finanziarie, per creare banche più piccole ma solide da rivendere a investitori privati.

E' questa la soluzione che all'inizio degli anni '90 ha permesso alla Svezia di risolvere la sua crisi bancaria. Al contrario, l'attuale politica degli Usa e della Gran Bretagna rischia di generare, come è avvenuto in Giappone, una serie di "banche zombie", che in mancanza di un vero risanamento perpetuerebbero il congelamento del credito. Il Giappone ha pagato la sua incapacità di risanare il proprio sistema bancario con un decennio di crisi molto vicina alla depressione. In mancanza di interventi adeguati, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e molti altri Paesi corrono un rischio analogo: quello di una recessione o di una vera e propria deflazione che potrebbe protrarsi per vari anni.

Copyright: Project Syndicate, 2008. www. project syndicate. org (traduzione di Elisabetta Horvat)


Nazionalizzare: per Washington è una strada inevitabile
di Geminello Alvi - Il Giornale - 25 Febbraio 2009

Già venerdì scorso il senatore Dodd presidente del Banking Committee aveva quasi indotto all’infarto le borse spiegando che si sarebbero potuto nazionalizzare le banche per breve tempo. Ed è pur vero che il ritardo e la vaghezza del piano Geithner avevano screditato le rassicurazioni di Obama, mi si permetta la battuta, ormai sempre più sbiancato quando deve parlare di banche. Ma, certo, il comunicato congiunto di Tesoro, Federal Reserve, e Autorità federali, per giunta così esplicito fa la sua drammatica impressione. Vi si dichiara che «agli istituti (di credito) potrebbe essere richiesto di dare al governo il diritto di acquistare azioni ordinarie, con diritto di voto». E Citigroup ne approfitta subito: arriva la notizia della trattativa per cui il governo ne rileverebbe fino al 40%.

Dunque un’altra emergenza, e tanto grave che neppure può attendere l’inizio di quegli «stress test» promessi dal Segretario al Tesoro per verificare, a partire da oggi, il grado di solvibilità delle banche. Cosicché l’unica vaghezza meno vaga del piano Geithner ne risulta non solo superata, ma ridotta a paradosso: soltanto a promettere di testarla ha accelerato l’insolvenza. Tant’è che adesso s’iniziano a statizzare le banche. E gli esami sui bilanci delle 20 maggiori banche di America più che a tagliandi di controllo, somigliano ormai a biglietti funerari, per gli azionisti e i banchieri di Wall Street.

Quanto sta avvenendo non muterà, è pur vero, gli Stati Uniti d’America nella Corea del Nord, ma delegittima, toglie ogni residuo potere all’élite bancaria. Lo stato convertendo in azioni ordinarie quelle azioni privilegiate che aveva ottenuto in cambio dei 45 miliardi iniettati in Citigroup disporrà di fatto delle deleghe dell’amministratore delegato, diluirà gli azionisti e i loro valori. Del resto era inevitabile. In autunno da prestatori di ultimi istanza le banche centrali sono evolute, per alcuni giorni, a prestatori di prima e sola istanza.

In altri termini il denaro evolveva a fondo statale, al quale attingere come era norma protratta nei vari stati sovietici. E il solo confronto tra gli attivi di bilancio della Federal Reserve prima e dopo di allora fa adesso drizzare i capelli. Negli Stati Uniti tra garanzie liquidità e ricapitalizzazioni lo Stato ha provveduto svariati trilioni di dollari al sistema finanziario. Inevitabile che l’aggravarsi della crisi implicasse qualche più diretto potere statale. Col ritmo di questi esami bancari, che via via somiglieranno più ai tagli delle ghigliottine, la politica piloterà le banche. E non solo conferendogli altri capitali, ma mutando in affare di politica estera gli afflussi di capitale, i conferimenti dei fondi sovrani. Già una Signora Clinton stavolta del tutto inattenta ai diritti civili ha iniziato verosimilmente a farlo nel suo viaggio in Cina. E poi si sceneggeranno le bad bank, che, come in un film di fantascienza, s’iniziano a chiamare zomby bank al fine di delinearne meglio la natura. A riguardo mi parrebbe che l’ipotesi tecnica di Soros sia più efficace di quella del ministro del Tesoro americano.

Ma siamo ancora troppo nel vago per parlarne. Meglio rassicurare il nostro caro lettore dicendogli anzitutto quanto lui già sa: che il valore degli attivi impegnati dalle nostre banche all’Est non è paragonabile a quello dei titoli tossici per quelle americane. Tuttavia pure in Italia di banchieri molto nomati ma certissimi di restare sulle loro poltrone non devono essercene tanti. Del resto per una volta la figura peggiore l’hanno fatta gli altri. Anzitutto gli americani: Geithner e il suo team economico di clintoniani ridicolizzato, Obama che sparla e si perde, Greenspan che vuole statizzare, Paulson jr. che sciupa miliardi … Neppure al migliore Alberto Sordi sarebbero riusciti esiti così grotteschi, purtroppo comici.


Gli analisti: una nuova era di caos ha preso piede
di
Steve Watson - Infowars.net - 24 Febbraio 2009

Il crollo delle banche è già avvenuto. La crisi è la peggiore di sempre. Il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato. Un’insurrezione sociale di massa è probabile.

Un’ondata di economisti, investitori e altri esperti finanziari durante il fine settimana ha pronunciato una serie di terribili ammonimenti riguardanti la crisi finanziaria globale, nei quali hanno dichiarato che una nuova era di caos ha preso piede in tutto il globo.
Alcuni hanno affermato che un collasso bancario totale sia già avvenuto, mentre altri hanno dichiarato che la recessione sia ormai la peggiore mai registrata, superando di gran lunga la grande depressione.

Il gestore di hedge fund e miliardario filantropo George Soros ha detto che il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato, con turbolenze più gravi che durante la grande depressione e con un declino paragonabile alla caduta dell'Unione Sovietica.

L'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker ha detto di non poter ricordare nessun momento, neppure nella grande depressione, in cui le cose siano andate giù in modo così veloce e altrettanto uniforme in tutto il mondo.

L’analista dei mercati finanziari Martin D. Weiss ha dichiarato che il crollo bancario si è già verificato e un grave tracollo di Wall Street è ormai imminente.

Un soggetto leader nelle previsioni, la National Association for Business Economics, ha messo in guardia sul fatto che la recessione è destinata a peggiorare e il tasso di disoccupazione potrebbe raggiungere il 9% quest'anno, il 10% l'anno prossimo e continuerà a crescere nel 2011. Nel 2008, il tasso di disoccupazione era in media del 5,8%, il più alto dal 2003.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, professori di finanza rispettivamente dell'Università del Maryland e dell'Università di Harvard, hanno detto che la crisi «non avrebbe potuto essere più grave», mentre avvertivano che, se mantenute le medie delle precedenti crisi, gli americani possono attendersi che la disoccupazione raggiunga l’11 o il 12 per cento, che i prezzi delle case calino a livello nazionale del 36%, le scorte perdano più della metà del loro valore, e la produzione reale pro capite precipiti del 9,3%.

L’economista Nouriel Roubini della New York University ha previsto un decennio perduto di stagnazione in stile giapponese (una micidiale combinazione di stagnazione, recessione e deflazione), ma su base mondiale.
«L'economia mondiale è ormai letteralmente in caduta libera, poiché la contrazione dei consumi, della spesa in conto capitale, degli investimenti immobiliari, della produzione, dell’occupazione, delle esportazioni e importazioni, si sta accelerando anziché rallentare», ha scritto Roubini.

Sebbene l'amministrazione Obama abbia negato che stia pianificando di nazionalizzare gruppi di banche statunitensi, gli speculatori hanno affermato che ciò sta già avvenendo e continuerà se Obama converte le azioni privilegiate del governo in Citigroup Inc. in più comuni azioni ordinarie al fine di aiutare l'impresa a sopportare le perdite. Il Tesoro ha anche annunciato che è pronto a gettare via ancora più soldi nelle banche, in aggiunta ai trilioni di dollari dei contribuenti dileguatisi finora.

Mentre alcuni economisti si sono rassegnati ad accettare questa come "l'unica via d'uscita", Jim Cramer della CNBC ha ammonito che la nazionalizzazione schiaccerebbe l’America e farebbe sprofondare il sistema finanziario in «un mondo di caos», che nel corso della storia ha portato a «gravissime rivolte e disordini sociali».

Analoghi reportage e analisi hanno recentemente previsto che il mondo sia alla vigilia di gravi disordini sociali a causa della crisi finanziaria. Il fine settimana ha visto le proteste raggiungere il punto di ebollizione in Irlanda, i governi in Islanda e Lettonia sono già stati rovesciati, mentre la polizia del Regno Unito si sta preparando per una "estate di scontento" e proteste di massa contro la cattiva gestione della crisi economica da parte del governo.

Un aumento delle esercitazioni addestrative sulla guerra urbana lungo tutti gli Stati Uniti non è di buon auspicio, alla luce di tali resoconti, dato in particolare che Northcom ha sottolineato che la partecipazione attiva di truppe all'interno degli USA sarà designata ad affrontare «disordini civili e di controllo della folla».

Naturalmente, da questo caos, come abbiamo sempre avvertito per oltre un decennio, si sta presentando un nuovo ordine. Oggi il primo ministro britannico Gordon Brown ha fatto appello a un "New Deal globale", che contemplerebbe misure restrittive" del governo su tutti i mercati finanziari, compresi gli hedge fund.

In sostanza, questo sarebbe l'ultimo chiodo nella bara del libero mercato, e inaugurerebbe un nuovo periodo di governo regolato globale del sistema finanziario.

Traduzione di Pino Cabras per Megachip

mercoledì 25 febbraio 2009

Euforia nucleare

Ieri Berlusconi e il presidente francese Sarkozy hanno firmato a Roma l'accordo che vedra' Italia e Francia collaborare insieme nella produzione di energia nucleare.

L'intesa getta le basi per un'ampia partnership in tutti i settori della filiera, ricerca, produzione e stoccaggio ed e' accompagnata da due "memorandum of understanding" tra i due gruppi elettrici Enel ed Edf.
Prevista anche la realizzazione di almeno quattro centrali di cosiddetta terza generazione nel territorio italiano.

Il documento definisce le linee direttrici per lo sviluppo in Italia della tecnologia Epr, quella appunto del reattore di terza generazione che ricalca il modello francese.
Enel dovrebbe poi entrare con una quota del 12,5% nel progetto per la costruzione di un secondo reattore nucleare in Francia a tecnologia Epr.

Oggi il ministro Scajola era naturalmente del tutto fuori di se' per l'euforia "Per costruire una centrale nucleare con tutti i permessi ci vogliono cinque anni, per avere tutte le autorizzazioni necessarie sono necessari tre-quattro anni. L’obiettivo nostro è di arrivare entro la fine della legislatura a posare la prima pietra di un gruppo di centrali nucleari . Il che vuol dire che, dal 2013 abbiamo cinque anni [...] I tempi saranno quelli dell’approvazione del disegno di legge, che ha già approvato la Camera, che è in discussione in questi giorni al Senato. Mi auguro che, entro metà aprile il provvedimento diventi legge. In quel provvedimento ci sono tutte le procedure del rientro dell’Italia nel nucleare [...] Il governo non vuole fare un’alleanza paritetica con la Francia in cui utilizzare la loro tecnologia Epr, ma insieme alla nostra realtà industriale costruiremo centrali in Italia, ma anche in paesi terzi insieme alla Francia [...] Noi intendiamo usufruire delle tecnologie più moderne, quindi dare spazio a tutte le imprese che vogliono impiantare centrali nel nostro Paese".

Un'euforia paragonabile a quella di un uomo anziano che ha appena scoperto il Viagra...

Ma Scajola evidentemente non ha letto quest' ANSA di ieri:

"Le centrali nucleari di nuova generazione - che la Gran Bretagna sta progettando di costruire e che sono già in fase di realizzazione in Francia e in Finlandia - sono più pericolose, in caso di incidente, di quelle vecchie che andrebbero a sostituire.

A rivelarlo è un'inchiesta del quotidiano britannico 'The Independent', che ha ottenuto una serie di documenti interni all'industria del nucleare dai quali emerge che, sebbene i nuovi European Pressurised Reactors (Epr) siano meno esposti al rischio di guasti, nel caso si verificasse un incidente la fuoriuscita di radiazioni sarebbe molto maggiore e potrebbe fare anche il doppio delle vittime.


Un rapporto redatto dalla società francese Edf rivela che l'emissione di isotopi radioattivi di bromo, rubidio, iodio e cesio sarebbe quattro volte maggiore rispetto alla fuoriuscita che si verificherebbe in un reattore tradizionale. Un altro studio della società di smaltimento di scorie radioattive Posiva Oy sostiene invece che l'emissione dell'isotopo iodio 129 sarebbe addirittura sette volte maggiore.

Un terzo dossier, redatto dalla Swiss National Co-operative for the Disposal of Radioactive Waste conclude invece che la fuoriuscita di cesio 135 e cesio 137 sarebbe maggiore di 11 volte. A rendere i nuovi Epr più pericolosi in caso di incidente, spiega il giornale, è il fatto che sono stati progettati per bruciare il combustibile nucleare ad una velocità doppia rispetto a quelli attuali, modificando la natura stessa del carburante".

Ma purtroppo e' assolutamente impossibile sperare che Scajola capisca qualcosa di energia nucleare.



Firme nucleari
di Andrea Bertaglio - www.terranauta.it - 25 Febbraio 2009

Oggi, a Roma, Berlusconi e Sarkozy hanno firmato un accordo che prevede la costruzione di quattro centrali nucleari in territorio italiano. La prima dovrebbe essere attiva nel 2020. Berlusconi ha affermato: "è una gioia aver firmato questi accordi sul nucleare" superando il "il fanatismo ideologico" degli ambientalisti. Tra questi il popolo italiano che si espresse attraverso un referendum...

Mentre Obama pensa di puntare sulle energie rinnovabili e, si spera, sull’efficienza energetica per rilanciare l’economia americana (grazie ai milioni di posti di lavoro che questi settori creeranno), la vecchia Europa sta rischiando di rimanere davvero tale, perdendo la storica occasione di diventare leader, come è stata finora soprattutto grazie all’impegno tedesco, di settori quali appunto l’efficienza energetica, le energie rinnovabili e le tecnologie ambientali. Per non parlare delle occasioni di leadership politico-economiche ad essi correlate.

Oggi a Roma si sta parlando ancora di un ritorno al nucleare per l’Italia, con l’intenzione da parte del nostro governo di prendere accordi che probabilmente la maggioranza degli italiani nemmeno condivide.

Al vertice italo-francese di Roma, infatti, Berlusconi e Sarkozy, con quindici ministri di entrambi i governi, firmeranno una serie di accordi che riguarderanno diversi settori, come quello militare, quello dell’istruzione e quello dei trasporti, coi quali si confermerà ad esempio un’altra dispendiosa scelta dalla dubbia utilità: quella del corridoio 5 e del TAV Torino-Lione. Ma i riflettori saranno puntati soprattutto sull’energia nucleare.

La notizia del giorno è data dall’accordo stretto tra l’italiana Enel e la francese Edf, che dovrebbe portare alla costruzione di quattro centrali nucleari in Italia.

Sarà sicuramente un tappeto rosso quello che i francesi (gli stessi che si sono voluti escludere a suo tempo per salvare l’italianità di Alitalia) stenderanno alla rinascita del nucleare italiano, perché se avverrà lo farà soprattutto all’insegna della loro tecnologia Epr.

L’Italia in cambio si impegnerà per rafforzare la cooperazione a tutto campo, in particolare nei settori ricerca, costruzione, gestione delle scorie (dato che lo smaltimento non ne è possibile) e business congiunto anche in Paesi terzi.

L’italianità non può proprio dormire sonni tranquilli, perché la tecnologia francese coprirà almeno il 50% dell'operazione, mentre il resto rimarrà contendibile, con un occhio di riguardo alla principale filiera tecnologica concorrente: l'Ap1000 dell'americana Westinghouse.

Stando agli impegni presi dal nostro Governo, la prima centrale nucleare dovrebbe entrare in funzione nel 2020. Un vero e proprio sogno ad occhi aperti, se si pensa che centrali di questo tipo richiedono dai quindici ai venti anni per essere costruite e avviate in paesi efficienti e puntuali.L’Italia dei cantieri infiniti difficilmente riuscirà a rispettare simili scadenze.

E ciò significa che per almeno altri quindici o venti anni la situazione energetica del nostro paese non cambierà. Mentre gli sforzi saranno incentrati sui nuovi impianti nucleari, infatti, si sottrarrà tempo ed ingenti somme di denaro (ovviamente pubblico) allo sviluppo ed all’implementazione di altre forme ben più sensate di fornitura di energia.

Si parla di business, di grandi affari per le “nostre” imprese (come Finmeccanica ed Ansaldo Energia), addirittura di lotta ai cambiamenti climatici facendo passare il nucleare come soluzione ecologica (!), ma si tralasciano alcuni particolari di non poca importanza.

Ad esempio, è risaputo che l’energia atomica non è conveniente da nessun punto di vista economico, in quanto i costi di gestione (e di smantellamento in seguito) sono estremamente elevati. Senza considerare il fatto che non esiste alcuna compagnia di assicurazioni disposta ad assicurare, appunto, una centrale nucleare.

Alla faccia dei più o meno buoni propositi, inoltre, è molto alto il rischio di danni all’ambiente ed alla salute, ricordando che bambini deformi nati in prossimità di siti di scorie piuttosto che di centrali in cui si sono verificati incidenti non sono un’opinione.

E ricordando che se in Italia si verificano delle “emergenze rifiuti” già adesso, è meglio non pensare a cosa succederebbe se questi rifiuti fossero radioattivi.

Col ritorno al nucleare si userebbero tecnologie ormai sorpassate in un momento in cui l’Italia sta già rimanendo talmente indietro da non potersi permettere di farlo ulteriormente.

L’energia che fornirebbe sarebbe solamente elettrica, mentre avremmo bisogno (e non solo in Italia) di un ridimensionamento della fornitura energetica su ben più vasta scala. Basti pensare ai trasporti o al riscaldamento.

È molto rischiosa se si considera la possibilità di attacchi terroristici, dei quali si è miracolosamente smesso di parlare.

Ed ancora: andrebbe contro il volere popolare; fino a nuovo referendum, almeno.

Proprio a questo proposito, il fatto di andare senza nessun pudore contro il voto espresso dagli italiani nel 1987 può sembrare meno grave del fatto di voler ricominciare a produrre scorie che rimarranno radioattive per migliaia di anni, ma ne è il presupposto. Il fatto che si stiano prendendo accordi senza consultare il popolo italiano dovrebbe far riflettere. L’imminente approvazione alla Camera del ddl del ministro dello Sviluppo Scajola in cui viene istituita l’Agenzia per la sicurezza nucleare in un Paese denuclearizzato come l’Italia, dovrebbe quanto meno farci fermare un attimo a valutare la situazione, soprattutto per le norme presenti nello stesso che limitano al minimo le capacità di intervento degli enti locali nei territori coinvolti.

E al di là di questo, dovrebbe stare ai cittadini italiani (come a quelli europei in generale), capire che ciò di cui abbiamo bisogno non è una maggiore fornitura di energia, ma un uso più moderato, efficiente e consapevole della stessa.

Si possono iniziare a costruire delle case che sprechino meno energia, come già si fa in Germania, si può in iniziare a diffondere la micro-cogenerazione diffusa (mediante la quale si potrebbe addirittura riconvertire una parte dell’industria automobilistica, essendo i cogeneratori molto simili al motore di un’auto).

Si dovrebbe aumentare il livello di partecipazione alle decisioni riguardanti appunto le politiche locali, invece di aspettarsi sempre che qualcun altro lo faccia per noi. Del resto lo diceva già Jean-Jacques Rousseau più di due secoli fa che “non abbiamo bisogno di buoni politici, ma di buoni cittadini”.

Quindi, siccome non ci si può aspettare nulla né da Berlusconi né da una sinistra che è tutto tranne un’alternativa al governo di veline che ci ritroviamo, ciò di cui abbiamo veramente bisogno in Italia è una nuova coscienza.

Dire che bisognerebbe diminuire la domanda di energia piuttosto che aumentarne l’offerta implica il bisogno di una nuova mentalità, che ci permetta di cambiare i nostri stili di vita spreconi e magari di riprendere in mano non solo il nostro Paese, ma anche le nostre vite. E questo deve principalmente partire da noi.

Può sembrare ancora più difficile che non gestire delle scorie radioattive, e forse lo è. Ma è anche più possibile, più realizzabile. Siamo il “Paese del sole”, abbiamo vento e corsi d’acqua in gran quantità. Abbiamo addirittura, a differenza di molti altri paesi europei, grandi potenzialità a livello geotermico. E siamo ancora qui a parlare di centrali nucleari da avviare fra vent’anni.

È davvero necessario? Dobbiamo davvero affidarci (ancora) alla fornitura di energia dall’estero (tecnologia prima ed uranio poi)?

E abbiamo davvero bisogno di nuove tratte di TAV quando basterebbe ristrutturare le malconce ferrovie già esistenti?

Si devono costruire davvero in zone sismiche ponti giganteschi che collegherebbero regioni che ancora non hanno autostrade decenti?

È così difficile capire che gli interessi in gioco sono di poche lobby, e non dei cittadini italiani?

Se sì, se non vediamo il grande spreco di tempo e di risorse che queste scelte comportano o potrebbero comportare (in un momento in cui oltre tutto non possiamo permettercelo, essendo l’Italia sull’orlo del collasso finanziario), ci meritiamo davvero i governi che abbiamo.


Nucleare italiano, tra miopia e fantascienza
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 10 Febbraio 2009

Berlusconi ritorna a parlare di nucleare in Italia, affermando che bisogna iniziare a lavorare per il futuro in maniera seria. Per Berlusconi, infatti, "il nucleare è il futuro, il combustibile fossile è qualcosa che va a finire". Il sottinteso politico è chiaro: accelerare verso il finanziamento di centrali nucleari, ignorare volutamente le rinnovabili. Il premier l’ha dichiarato a proposito di alcune affermazioni sulla questione Gazprom e il gas russo: dopo la recente crisi con l'Ucraina, secondo Berlusconi l'Italia deve "andare avanti nella direzione della differenziazione delle fonti" e deve "iniziare per il futuro con il nucleare in maniera seria". I reattori nucleari proposti per il piano italiano sono quelli di tipo EPR, come quelli in costruzione in Finlandia, a Olikuloto. In questi giorni, le multinazionali dell'energia E.On e Rwe hanno dichiarato l’interesse a ricostruire 4 impianti per il governo inglese, come spiega Giuseppe Onufrio di Greenpeace in una recente intervista, ma sembra che i reattori non saranno EPR.

Se così fosse, dichiara Onufrio, "questo sarebbe un colpo per la promozione francese fatta a questo tipo d’impianti. Promozione supportata anche da Enel, che partecipa col 12,5% alla costruzione dell’unico altro Epr in costruzione, quello di Flamanville in Francia, e che ha dipinto l’Epr come la tecnologia del futuro." Ma l'EPR rischia di non essere affatto la tecnologia del futuro. Rischia piuttosto di diventare obsoleta già durante l'eventuale fase di costruzione delle centrali future italiane.

Altra notizia recente è quella della difficile situazione economica di Enel, indebitatasi per acquistare la spagnola Endesa. Questo può incidere fortemente sulla possibilità di intervenire in un programma nucleare nazionale, visti gli elevati costi in gioco. E sui costi è necessaria la massima chiarezza, poiché spesso non ci si rende conto della reale dimensione delle cifre in gioco e le aziende energetiche forniscono di solito dati molto falsati. Enel, ad esempio, è sempre intervenuta sul tema nucleare mostrando cifre per la costruzione di un reattore che sono circa la metà di quelle che di cui si parla negli Stati Uniti e in Inghilterra. Come spiega con estrema chiarezza ancora Onufrio, "prima dell’estate affermava che per un reattore EPR servivano 3-3,5 miliardi di euro, a ottobre si correggeva a 4.

Secondo le dichiarazioni al Times della tedesca E.On., un reattore Epr costerebbe invece fino a 6 miliardi e anche le stime di altri operatori sono più alte. Per fare un paragone: se per Enel 1.000 MW si potrebbero installare con 2,5 miliardi di euro, secondo E.On ne occorrerebbero fino a 3,5, per l’agenzia Moody’s 4,6 e per l’utility americana Florida Light & Power almeno 5,2. Siamo di fronte a un’azienda privata (che però è per il 30% pubblica) che per ragioni politiche (assecondare qualche interesse particolare e la posizione ideologica del governo) sta proponendo investimenti che non sono supportati dalla realtà economica. Nei paesi che devono sostituire le vecchie centrali, come abbiamo visto per gli Usa, i soldi vengono cercati negli incentivi pubblici. In Italia il nucleare viene invece presentato come un’operazione completamente a carico dei privati. Guardando alla situazione finanziaria attuale di Enel resta però da capire come possano indebitarsi ulteriormente. Se fosse interamente privata, sarebbero fatti loro, ma invece per il 30% sono anche fatti di interesse pubblico." Tutto questo perchè in Italia si è deciso, a livello politico prima di tutto, di colpire duramente la strada delle rinnovabili. Dal punto di vista tecnico, si sventola al pubblico il risultato di uno studio effettuato dall'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA), secondo cui le rinnovabili in Europa sono davvero poche.

Un organismo indipendente, l'Osservatorio dell'Energia, che fa capo alla Fondazione tedesca Ludwig Bölkow, accusa l'IEA di sottostimare il quantitativo di energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Secondo un gruppo di esperti dell'Osservatorio dell'Energia, infatti, la IEA fornisce dati fuorvianti sulle rinnovabili. Secondo questo gruppo di esperti, l'IEA sottostima la quantità di energia "pulita" prodotta a causa delle "bugie" sul petrolio, gas e nucleare di un gruppo di politici e scienziati, ostacolando una svolta ecologica. Inoltre la IEA dimostra "ignoranza e disprezzo" verso le fonti rinnovabili mentre promuove le fonti fossili e il nucleare come tecnologie indispensabili. In un rapporto pubblicato di recente, l'Osservatorio dell'Energia sostiene che l'energia eolica ha avuto uno rialzo imprevedibile fin dagli anni '90 e che, insieme all'energia solare, raggiungeranno le quote dell'energia convenzionale entro il 2025.

Basti pensare che, nel 1998, per la IEA la produzione di energia eolica sarebbe stata di 47.4 GW nel 2020, quota gia' raggiunta nel 2004. Rivede, inoltre, le proprie stime al riguardo fatte nel 2002, portando la quota dell'eolico a 104 GW nel 2020, capacità che é già stata superata l'estate scorsa. In realtà il numero delle turbine eoliche installate nell'ultimo decennio è cresciuto ad una media del 30% annua e l'energia eolica attuale supera i 90 GW, equivalenti a 90 centrali a carbone e nucleari. A questo ritmo si raggiungeranno i 7.500 GW entro il 2025 tra centrali eoliche e solari. "I numeri della IEA non sono né empirici né teorici", sostengono all'Osservatorio dell'Energia, "Inoltre, nel loro Rapporto 2008, predicono un incremento delle fonti rinnovabili fino al 2015 a cui seguirebbe un decremento senza specificare le motivazioni".

Rudolf Rechsteiner, membro del parlamento svizzero e che fa parte del comitato energia e ambiente, sostiene che la IEA soffre di "cecità istituzionale" riguardo alle fonti rinnovabili. Stanno ritardando il cambiamento verso un mondo rinnovabile. Continuano, afferma Rechsteiner, a suggerire soluzioni con fonti fossili e nucleare invece di avere un approccio più neutro che favorirebbe nuove soluzioni. Il business del petrolio ha delle capacità incredibili nel far credere di essere l'unico in grado di fornire energia". "Purtroppo i governi ancora danno ascolto alla IEA", dichiara John Hemming, membro del Partito Liberale inglese e membro dell'Osservatorio dell'Energia, " e, in una terra di ciechi, un uomo con un solo occhio diventa il re; ma l'occhio della IEA ha una cataratta". Il governo italiano ha deciso di basarsi solo sui dati dell'IEA. Tra l'altro in assenza di un Piano Energetico Nazionale: l'ultimo piano energetico risale al 1987, quando il fabbisogno nazionale era molto minore.

Oggi si continua a navigare verso un nucleare, forse con molta incompetenza da parte di politica ed imprenditoria, senza fare neanche bene i conti: ad un convegno tenutosi a Capri lo scorso gennaio, la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha dichiarato durante il suo intervento che la produzione di energia elettrica per via nucleare costa 3 centesimi di dollaro per ogni chilowattora. Il prezzo è quello giusto, ma con un particolare raccapricciante: è il costo calcolato per un impianto che ha già ammortizzato il costo di costruzione, e si basa su un costo dell’uranio molto retrodatato, costo che è ancora valido per molti contratti di fornitura, ma che scadranno nel 2012.

Uno studio che ha cercato di fare una stima dei costi reali è stato compiuto dal Keystone Center che ha valutato un costo pari a centesimi di dollaro per KWh. Cioè un costo triplo rispetto a quello che viene raccontato ai cittadini italiani. Allo stesso convegno, la signora Marcegaglia ha anche dato, con bravura retorica e comunicativa tale da ingannare la platea, pieno sfoggio di altre incompetenze tecniche nel settore energetico ed in particolare di quello nucleare, come il dire che i reattori di quarta generazione non possono essere costruiti se prima non si fanno quelli di terza: le ricerche scientifiche per la quarta generazione possono continuare anche senza costruire centrali obsolete, costose, pericolose e ingestibili.

Questo pericolosa miopia industriale mostrata dai vertici di Confindustria rischia di contaminare tutto il mondo imprenditoriale ed industriale italiano, che vanta più di una eccellenza anche nel settore energetico. Ed è una miopia pericolosa perché promette, pur di far girare appalti da miliardi di euro subito, un futuro d’indebitamento per tutto il Paese. Indebitamento provocato per costruire cattedrali nel deserto pericolosissime e costantemente in perdita.

martedì 24 febbraio 2009

Una ronda non fa primavera

Qui di seguito una serie di articoli relativi a quella parte del pacchetto-sicurezza che prevede la legalizzazione delle ronde.

L'ennesimo conato di vomito e' in arrivo.


Tra ronde e squadracce, l’insicurezza aumenta
da Radio Citta' Aperta - 23 Febbraio 2009

Il governo ha approvato venerdì scorso il cosiddetto 'decreto anti-stupro', un insieme di norme che vanno dall'ergastolo per chi uccide la vittima al patrocinio gratuito di questa da parte degli enti locali. In mezzo c'è un po’ di tutto, compresa una buona dose di demagogia e di strumentalizzazione autoritaria di un fenomeno preso a pretesto non per prendere finalmente di petto la violenza maschile contro le donne, ma per rafforzare nell’opinione pubblica l’equazione, elettoralmente conveniente, ‘immigrazione = delinquenza’.

Uno degli elementi più aberranti contenuti nel decreto è la legalizzazione definitiva delle ronde, imposta dalla Lega che le ha già istituite da anni nel nord ad uso e consumo della sua campagna elettorale permanente.
La militarizzazione della società cresce, al pari della barbarie alla quale si dice di voler fare fronte.
Il governo di destra spinge l’acceleratore su una norma che non inciderà affatto sul dilagare della violenza nella società e in particolar modo di quella contro le donne: secondo tutti gli studi, almeno l’80% delle aggressioni sessuali avviene in famiglia e comunque nella cerchia ristretta dei parenti e degli amici, e quindi la militarizzazione delle città e dei territori non avrà alcun effetto, se non quello di rendere ancora più asfissiante il clima e di aumentare il controllo sociale.

I media ormai non parlano altro che degli stupri compiuti realmente o suppostamente da cittadini stranieri, mentre cala il silenzio su quelli commessi da italiani contro donne italiane o contro cittadine straniere.

Venerdì, mentre l’esecutivo annunciava tra squilli di tromba e rulli di tamburo gli ulteriori provvedimenti restrittivi e razzisti, le agenzie di stampa riportavano una notizia che però nessun giornale o tv hanno ripreso più di tanto: “Arrestato dai carabinieri Antonino Fedele, 43 anni, imprenditore di Ventimiglia: dovrà scontare la pena patteggiata di 2 anni e 8 mesi stabilita dal gup del Tribunale di San Remo per violenza sessuale, minacce e violazione di domicilio commessi a Vallecrosia nel novembre 2007 nei confronti di una ventiduenne rumena.

Stanca e spaventata, la donna si era rivolta ai carabinieri di Ventimiglia, raccontando una lunga serie di soprusi patiti. Dopo qualche giorno i militari avevano arrestato in flagranza Antonino Fedele, entrato nell’appartamento della donna dopo avere divelto la porta di ingresso. Durante la fase investigativa, riferiscono i militari, l’uomo aveva più volte cercato di inquinare le prove provando a far ritrattare la denunciante prima con minacce e poi con promesse di denaro.”

Nonostante le parole di circostanza del Presidente della Camera Fini e del sindaco di Roma Alemanno contro la cosiddetta ‘giustizia fai da te’, è evidente che l’inserimento delle ronde all’interno delle istituzioni che garantiscono l’ordine pubblico rappresenterà l’ennesima occasione per consegnare a squadracce di invasati e ignoranti boriosi le nostre strade.
Una legalizzazione di fatto di un fenomeno che già dilaga nelle nostre città: per ora a compiere le ronde punitive sono infatti gruppi di incappucciati armati di mazze e altre armi improprie a caccia di inermi immigrati da bastonare.

Ad essere colpiti, è ovvio, non sono né spacciatori né protettori, ma lavoratori immigrati che la mattina si svegliano alle cinque per andare in cantiere o a lavorare nei campi e che il pomeriggio si ritrovano nei bar per fare due chiacchiere.
In genere i pestaggi arrivano dopo le fiaccolate o i presidi organizzati nelle nostre periferie dalle organizzazioni neofasciste: ci si maschera e si cela il proprio volto durante il pestaggio, ma realizzando i raid punitivi poco dopo le manifestazioni si suggerisce l’affiliazione politica dei ‘giustizieri’ alle opinioni pubbliche assalite da continui e insistenti messaggi d’allarme.

Non passa giorno senza che in qualche città l’estrema destra non organizzi manifestazioni che chiedono la pulizia etnica del territorio e la punizione collettiva di intere etnie.
Forza Nuova chiede e subito ottiene da un governo e da una classe politica bipartisan che cavalca gli istinti peggiori di una società impaurita e lasciata sola davanti a una crisi economica e morale senza precedenti.
E’ un circolo vizioso: più i governi locali e quello nazionale inaspriranno le misure securitarie e più a fronte di un sostanziale permanere dell’insicurezza, che ha cause sociali ed economiche profonde, l’estrema destra sarà invogliata a chiedere più repressione e più esclusione, diventando a quel punto un riferimento per ampi strati della popolazione che avranno bisogno di un capro espiatorio su cui orientare la propria rabbia e la propria frustrazione.

Dopo l’esercito, nelle strade ora arriveranno anche le ronde. E intanto il governo ha ricostituito i ghetti all’interno dei quali rinchiudere decine di migliaia di cittadini di origine rom, lontani dai centri storici delle città e quindi dalle telecamere. Gli stupratori potranno continuare ad agire indisturbati, gli immigrati che si spaccano la schiena nei cantieri e nelle fabbriche per due soldi invece no…


Anche le donne s'iscrivono alle ronde?
di Rosa Ana de Santis - Altrenotizie - 23 Febbraio 2009

La notizia arriva dalla Capitale. Non saranno solo i padri e i mariti a improvvisarsi guardiani e giustizieri. Le donne non vogliono rimanere indietro, ci tengono a fare come gli uomini. L’iniziativa è nata dal quartiere Appio, dove si è consumata l’ultima violenza carnale. Si comincia oggi dall’Eur con spray al peperoncino e cappelletti di riconoscimento. Non è ancora chiaro se l’assimilazione agli uomini sarà sulla linea di una violenza spregiudicata e fuori controllo o su quella dell’inutilità permanente che non avrà legittimità di fare alcunché per difendere le potenziali vittime. Non è chiaro semplicemente perché confuso e carente è l’impegno e l’attesa politica di un provvedimento - di cui è in arrivo la direttiva di attuazione - voluto dal governo per dispensare se stesso da un impegno serio e istituzionale sulla sicurezza.

La natura di questa trovata stradaiola del governo Berlusconi è inizio e fine di un fallimento che non sarà affatto innocuo. Sembra distratto anche il Vaticano nella denuncia di questa deriva poliziesca. Non è chiaro cosa vogliano fare le donne organizzandosi in ronde di quartiere. Se sia un impeto di emancipazione o un tracollo di stile e identità. E non è chiaro nemmeno se le ronde andranno dove dovrebbero andare, cioè nelle mura domestiche che assegnano agli italiani vestiti da mariti, padri, fidanzati, fratelli, zii, cugini o conoscenti la quota straordinariamente maggioritaria in termini di violenze, abusi e soprusi.

L’Italia “gode” del maggiore numero di addetti delle forze dell’ordine in Europa: circa 260.000. Ultimamente, il governo Berlusconi ha ridotto le spese proprio per queste, che non hanno ormai nemmeno i soldi per mettere la benzina nelle volanti, per tacere dei fondi per lo straordinario. Ovvio che, in questa situazione, il pattugliamento delle strade patisce carenze enormi, non certo risolvibili dai pensionati poliziotti o da fascistelli assetati di law and order e voti a buon mercato.

Ma se il numero dei poliziotti è il più alto d’Europa, l’Italia subisce, di riflesso, del maggior numero di violenze ai danni delle donne a fronte della presenza del minor numero d’immigrati. Allora? Invece d’interrogarsi sul serio, é partita ormai la rincorsa ad alleggerire lo spot con cui Maroni ha inaugurato la nascita delle ronde. Tutti si concentrano a definirle semplici gruppi di cittadini disarmati in supervisione. Ma fa ridere questo coro di benedizione per le pattuglie di strada cui fa da controaltare il rilancio della loro natura non militare e non armata. La contraddizione tradisce un imbarazzo e un voluto non-detto.

E’ una storia antica quella che racconta di come ricercare tutele e provvedimenti specifici serva spesso solo a rincarare il prezzo amaro della discriminazione. Quella silente e insidiosa, quella eclatante e sfacciata. Ma in questo caso non arriviamo nemmeno a parlare di questo. Nelle ronde anti-stupro le donne, purtroppo, sono soltanto un comodo pretesto propagandistico per scatenare violenza ai danni degli immigrati. Clandestini o no, poco importa. Per mascherare il fallimento della politica italiana sull’immigrazione. Per far sfogare la frustrazione dei cittadini e dei gruppi di destra, tifosi per vocazione storica della persecuzione xenofoba. Basta osservare le gambe di donna insanguinate sui loro manifesti, incollati su strade e piazze di Roma, per raccogliere la provocazione alle spedizioni punitive. Altro che ronde. Altro che donne.

Immaginare questi squadroni in giro per le nostre città significherà nel tempo assecondare - nella consapevolezza generale - la normalità di un controllo paternalistico e ad hoc sulle donne. Una vigilanza permanente di cui vale la pena sottolineare, solo per comicità da contraddizione, non intende farsi carico lo Stato. Lo stesso che in veste di padre decide di entrare nelle zone più intime del privato, come ha dimostrato l’ultimo atto di tirannide sul testamente biologico e che, nello stesso momento, delega al privato dei padri e dei fratelli la sicurezza delle loro donne. Una bizzarra intermittenza di ragioni di stato.

Sappiamo per certo che le ronde non serviranno, se non a contaminare la vita collettiva di violenza generalizzata e a mettere, nel tempo, sotto vigilanza le donne. Un medioevo così grande e improvviso da non poter essere taciuto. Sappiamo che le ronde delle donne oltre ad essere piuttosto inutili come quelle blu dei maschietti, saranno nella consapevolezza generale solo meno temute. Un espediente scenografico e propagandistico che non porterà un momento serio di pensiero sulla violenza alle donne, di cui lo stupro è il fatto in assoluto più brutale, il più irrimediabile e primitivo insieme.

Quello che non avviene solo per mano dei delinquenti stranieri nelle periferie urbane, nelle stazioni scure degli autobus o in un parco metropolitano. Lo stupro come gioco sessuale sta diventando un fatto sempre più diffuso proprio tra i giovanissimi. Una categoria quasi normalizzata del sesso, ritenuta solo un po’ estrema, con cui pensare di viversi il piacere sessuale nella dinamica del gruppo alla ricerca di divertimento facile, condito di violenza e occultato spesso nella banalizzazione ludica di uno sballo serale. La giovane ragazza di 17 anni violentata a Senigallia da un coetaneo é solo l’ultima notizia di cronaca.

Ma quando il capo di un governo dice di concepire le donne solo sdraiate, quando non sa trattenersi dalla battuta nera dei soldati per le belle donne, tradendo un’ignoranza personale imperdonabile sul significato della violenza delle donne, non possiamo aspettarci altro che l’effetto - ronda.

Tutto il pensiero delle donne si è consumato nella riflessione sullo stupro. Impossibile leggerlo come violenza neutra e trasparante. Disperante riconoscerlo come un elemento non superabile del potere sessuale del corpo maschile su quello femminile. Un potere fondato sulla forza cui la donna può rispondere solo riappropriandosi di quello procreativo.

Ma non è questo il tema, nemmeno da lontano. E non è nemmeno la tutela delle donne. Nemmeno quando è fatta dalle donne. E’ un rimedio ingannevole, la cui inutilità delle forme si risolverà molto probabilmente in un’efficace violenza di contenuto. Uno Stato papà che ricorre al privato per risolvere un tema pubblico come quello della sicurezza dei cittadini e prova a codificare in una legge il divieto per ciascuno di decidere della propria vita. Uno scambio ridicolo e preoccupante che vedremo girare minaccioso per le strade delle nostre città.


Ronde? Lo Stato ha fallito
di Alessio Mannino - www.ilribelle.com - 23 Febbraio 2009

Ronde? Sì, lo Stato ha fallito

Che le ronde di partito richiamino sinistri ricordi che sarebbe ora di archiviare una volta per tutte, può essere anche vero (ma non esageriamo: le camicie verdi girano disarmate, le camicie nere manganellavano e uccidevano). Ed è verissimo che abbiano lo stesso, debolissimo valore deterrente di un nonno vigile o, come dice il ministro La Russa, di «un lattaio che se vede un reato chiama la polizia».

La politica - dalla Lega che ha lanciato l’idea agli emuli di destra, e ora anche di sinistra, che l’hanno copiata - cavalca ossessivamente la “sicurezza” per un semplice, banale motivo: destare un clima permanente di insicurezza sfruttabile per gonfiare il petto e suonare le fanfare della caccia ai delinquenti, in genere identificati con gli scarti di quell’immigrazione selvaggia che loro stessi, i politicanti parolai, hanno lasciato a sé stessa.

Eppure c’è dell’altro. La percezione d’insicurezza diffusa fra la gente è un fatto. D’accordo: dati alla mano, un fatto ingigantito e strumentalizzato finché si vuole, coi media come al solito colpevoli di allarmismo. Ma esiste. Ed esiste e nel subconscio collettivo si fa avanti la consapevolezza che lo Stato non è in grado di salvaguardare il diritto alla tranquillità. Ora, lo Stato in teoria dovremmo essere noi, noi cittadini. Ma questa è solo, appunto, teoria.

Se lo Stato lascia che piazze, parchi e interi quartieri passino sotto la legge del pugno e del coltello di pochi bravi della malavita di basso rango (spacciatori, magnaccia, bande di giovani nullafacenti, spesso italiani, dediti allo stupro e alle aggressioni per noia), i cittadini che gradirebbero solo un po’ di serenità e decenza avvertono allora un impulso sacrosanto: fare da sé. Sostituirsi allo Stato, sempre meno “nostro”, sempre più lontano e nemico.

In altre parole, se il “senatus” non sa garantire standard di decoro e ordine pubblico, il “populus” pensa bene di garantirseli da solo. Perché quando si legge che le forze di polizia non hanno nemmeno di che pagare la benzina con cui far partire le volanti, al signor Rossi, quotidianamente alle prese con un porcile di ubriaconi e prostitute sotto casa, viene l’istinto di organizzarsi coi propri vicini e riconquistare ciò che è suo: il territorio in cui abita. E qui c’è il germe sano di una giusta rivolta: se lo Stato ha fallito, noi cittadini diventiamo noi stessi, in prima persona, lo Stato. Scendiamo in strada e ci autogoverniamo. Attenzione: facendo rispettare la Legge, quella stessa Legge che le autorità, ormai delegittimate, non riescono o non vogliono tutelare perché imbelli o perché, così facendo, vi trovano uno squallido tornaconto elettorale.


Immigrazione: dalle onde alle ronde
di Rosa Ana de Santis - Altrenotizie - 21 Febbraio 2009

Pochi giorni fa, nelle Isole Canarie, di fronte alle coste di Lanzarote, è caduto a picco un barcone di migranti. Gli abitanti del posto hanno lanciato corde e salvagenti, qualche surfista più esperto si è spinto in mare alto per prestare soccorsi. Ventotto tra uomini, piccoli e donne gridavano aiuto. Ventiquattro sono morti, 14 di loro erano bambini. Tutti nordafricani. La notizia di questi morti nel mare – a guardare bene - non procura un terribile shock, solo una pietosa tristezza. Sono morti che la coscienza collettiva ha imparato a digerire. Come le pance malariche dell’Africa Nera. Non è un inciampo nel viaggio, un cataclisma lungo il percorso. Solo un banale effetto collaterale già contabilizzato da tutti. Messo in bilancio lungo il tragitto dei migranti. Chi parte dopo aver dato i suoi ultimi risparmi, chi sale sulle zattere marce di mare, chi s’incolla addosso il fagotto di un figlio sa bene che va verso l’inferno. Eppure va.

Quei corpi rimangono sepolti sul fondale. Marciscono tra salsedine e pesci. Sopra, risalendo la costa, sulla terra di casa nostra, entriamo in un parco e c’è un’altra storia da raccontare, l'altra faccia della medaglia. I corpi in questo caso, uno dei troppi ormai, sono due, paralizzati dalla paura e dal dolore. Lei un grissino di bambina, ha le gambe ferite, racconta la sua soccorritrice, ed è stata violentata. In un posto tranquillo dove si va in bicicletta o a fare jogging. Sono le 18.30 quando al parco della Caffarella viene stuprata da due bruti, romeni, e il suo giovane ragazzo viene picchiato. Sono due giovanissimi. Non è notte fonda, siamo in un quartiere tranquillo della Capitale, la gente è in giro, negozi aperti. Ma nessuno sente le voci di aiuto dei due piccoli trascinati a forza in una gabbia di lamiere e baracche. Nel puzzo della sporcizia e dell’abbandono.

La sequenzialità di stupri impedisce di parlare di casi isolati e sporadici. L’allarme esiste, il pericolo permanente anche. L’angoscia e lo sconforto é dover lasciare la soluzione politica di una ferita sociale così grave al furore e all’esaltazione degli xenofobi al governo. I fanatici della Lega - insediati al Viminale per errore o da miracolati, non sappiamo - non vedevano l’ora di utilizzare i fatti per cavalcare campagne e provvedimenti persecutori dimenticando, con sfacciata disinvoltura, l’altra faccia della clandestinità. I sopravvissuti dell’Odissea. Quelli che Itaca l’hanno perduta per un pugno di speranza e che a casa non torneranno forse più.

Quelli che restano irregolari, spesso in attesa di raggiungere altri Paesi d’Europa. Che lavorano come domestiche nelle nostre case e che preferiamo alle italiane per risparmio nelle quote a ore. O quei maschi senza casco arrampicati come ragni sui muri, candidati a morti bianche che non avranno processo, nei cantieri dei nostri palazzi. O quelle bambine messe in vetrina per i mariti italiani che disturbano la visuale della mamme sconvolte dai loro vestiti succinti. Quegli 800mila cui il Carroccio dichiara guerra, senza fare i conti con i buchi economici che conterebbero nella fertile padania.

Maroni va in tv e declama i provvedimenti con cui anticiperà parte del ddl sulla sicurezza. Niente domiciliari per gli stupratori, patrocinio gratuito per le vittime. La Carfagna propone la banca dati del DNA per i violentatori. Alemanno non sa come rimediare all’insicurezza e alla violenza che dilaga nonostante la sua vittoria elettorale. Sembrava che d’un colpo, dopo il terribile caso Reggiani, tutto dovesse cambiare. Il vento della destra sociale non permetteva di tollerare oltre "l’indolenza veltroniana che aveva consegnato Roma ai clandestini che vivono di espedienti, ebbri fin dalla mattina, violenti e raminghi in accattonaggio”.

Ma la cronaca conta altre vittime di violenza carnale e non perdona la pubblicità elettorale. Quella che investe subito i Rom, compresi per torto d’ignoranza nel vilipendio agli stranieri. Rom che, come gli anarchici, rimangono capri espiatori ideali per qualsiasi caccia alle streghe. Si dice che quello che è rimasto dell’orrore nelle nostre città è strascico dei governi di sinistra. E la propaganda che scantona ogni nodo di responsabilità, continua. Ma vince. Stravince dappertutto.

Le baraccopoli di Castelfusano ora sono state smantellate, o quasi. Era stato detto che Veltroni, in odore di ecumenismo, avesse sempre lesinato sulla linea dura nei riguardi di queste frange d’invisibili e fuori controllo, quelli che nelle carceri romene avrebbero castighi ben peggiori che non dalle nostre parti e per molto meno. E adesso allora? Dov'é la sicurezza invocata dal sindaco nostalgico che di tutto si occupa meno che della città? E' questa è la piaga storica di una certa tradizione nostrana. La rimozione dei problemi sull’immigrazione hanno portato a una disfatta della sinistra prima e a una politica di destra sbagliata poi. Meritata la prima, pericolosa e buia la seconda.

Ma se a sinistra hanno scoperto le baraccopoli tardi e per caso dopo la morte violenta di una giovane donna, a destra il governo, in beffa all’assunzione dei propri doveri, rimette ai privati cittadini la difesa delle loro donne. Le ronde piacciono a tanta parte del PDL, soprattutto al Ministro degli Interni. Lo conferma il sottosegretario Alfredo Mantovano a Radio24. Disarmati e in giro per autorizzazione del Prefetto non si capisce a fare che. Se davvero disarmati a non fare paura a nessuno, se armati di nascosto – com’é facile immaginare - a trasformare ogni angolo di civiltà in far west. Reagisce la sinistra per voce di D’Alema che ravvisa in questo orientamento la strada maestra per imbarbarire il Paese.

Così leggi e certezza della pena sono temi ribaditi che però perdono di vigore e credibilità, mentre piano piano sale in prima pagina l’urgenza e l’efficacia delle ronde. Nessuno quasi se ne accorge. Il Governo pensa bene di riempire la pancia dei cittadini che, esasperati, non leggono in questa opzione l’ennesimo abbandono istituzionale. Ben costruito, fatto ad arte, televisivo e vincente. Predisposto per rispondere con vigore al bisogno di legittima difesa, togliendo ogni disturbo alla politica e ai suoi protagonisti messi in ozio dalle iniziative private. E’ in questo modo che accanto al danno storico e culturale di una politica del terrore che perde una delle sue sfide più grandi, quella dell’integrazione, si consuma la beffa ai danni della gente.

Un governo che dispensa se stesso con tanta convinzione da un compito così delicato, è un non-governo. Che addirittura ricorre a sponsorizzare le pulsioni più sbagliate per travestire da sceriffi i cittadini, mettendoli accanto al carabiniere di quartiere, ai militari da dittatura sudamericana, e alle gazzelle parcheggiate nelle rimesse senza fondi della polizia ci consegna uno spettacoloso caricaturale e irriverente. Un governo che dice, anche quando non dice, che la cittadinanza in questo Paese è italianità di sangue. Che gli altri sono indistintamente stranieri.

Non si sa chi sia rimasto a ricordare l’urgenza di fare politica su questo fronte. Dopo il conclamato tonfo della Bossi-Fini, che non faceva altro che rendere impossibile ogni regolarizzazione, per volerli tutti clandestini, il PD è concentrato a mettere in fila i trofei dei propri insuccessi elettorali e i fuoriusciti massimalisti stanno li a dividersi i martelli e le falci. La politica sull’immigrazione con una manovra di prestigio è diventata il problema degli immigrati. Un grazioso spot elettorale – frutto di uno slittamento ad arte - che ha fatto comodo ai paladini dell’accoglienza e a quelli della cacciata violenta. Che finora ha dispensato il potere dal rispondere dei propri reiterati fallimenti e che ha permesso che il tema della sicurezza diventasse un tema di parte e di coalizioni, di destra e non di sinistra. Che ha fatto perdere tutti in cambio del feticcio finale, barbaro e ingiusto, di poter sfogare il malumore sul primo disgraziato di passaggio.

Così tra quei morti in mezzo alle onde e i violentatori presunti romeni non c’è patrocinio comune di bene o di male. E’ proprio questa piccola figlia italiana di 15 anni a dirlo. Lei che ripete di non volere generalizzazioni, ma giustizia. Immigrati gli uni, immigrati gli altri. Entrati come fantasmi da Valona a Bari o lungo le Alpi, messi sulle strade, a domicilio. Lavoratori o delinquenti. In case o baracche. Sempre fantasmi. Morti affogati o invisibili al di qua del confine. In questo modo comodi per tutti e comodi il più possibile. Più clandatini non sarà mai sintomo di più sicurezza, semmai l'opposto. E negargli le cure non guarirà le nostre ferite. Sulla pelle degli immigrati come su quella delle vittime della violenza contro le donne, straniera o italiana che sia, c’è la mappa documentata di una politica che è già cadavere. Che non vuole esami per sé e che convince i cittadini a difendersi da soli. Spacciando una disfatta per una soluzione.