Mentre oggi sembra reggere il cessate-il-fuoco di 24 ore, dopo la rottura nei giorni scorsi della pseudo tregua durata circa sei mesi, va ricordato che solo pochi giorni fa l'Agenzia dell'ONU per il supporto e l'aiuto ai rifugiati Palestinesi (Unrwa) aveva annunciato la sospensione della distribuzione di cibo nella Striscia di Gaza con effetto immediato e fino a data da stabilire, a causa dell'esaurimento di tutte le scorte di farina nei depositi dell'Onu per il blocco operato da Israele.
L'Unrwa aveva inoltre precisato che il carico più recente di grano sarebbe dovuto arrivare il 9 e 10 dicembre scorso, ma non è riuscito a entrare a Gaza per la chiusura dei valichi.
L'Unrwa in media distribuisce cibo a circa 20mila persone al giorno.
Nella terra dove e' nato Gesu', un altro Buon Natale si aggiunge alla gia' lunga lista.
Scherzare col fuoco
di Naoki Tomasini - Peacereporter - 22 Dicembre 2008
La tregua di sei mesi tra Hamas e Israele è terminata da tre giorni, ma le due parti, anziché concordare il modo per proseguire il silenzio delle armi, ne approfittano per minacciarsi guerra aperta e fare campagna elettorale. Un braccio di ferro che rischia di avere conseguenze catastrofiche per entrambe le parti.
Sabato 20 dicembre dalla Striscia di Gaza sono partiti 13 razzi Qassam e 20 colpi di mortaio. Altri 19 razzi sono stati sparati ieri, provocando solo pochi danni materiali e il ferimento di una persona. E di lì a poco è arrivata la risposta israeliana: con due raid aerei e colpi di artiglieria che hanno ucciso un miliziano e ferito cinque persone, tra cui una donna e un bambino. Dalla scadenza della tregua, Hamas non ha ancora rivendicato alcun lancio di razzi, che invece sono stati opera di Jihad Islamica e delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa. Questo significa che il governo di Hamas a Gaza ha mollato le redini dei due gruppi armati, che nei mesi scorsi avevano accettato la tregua, ma deve anche essere interpretato come un avvertimento: quando sarà Hamas in prima persona a riprendere le ostilità, le cose andranno molto, molto peggio. È noto infatti che il pontenziale del partito islamico gli consentirebbe di sparare centinaia di razzi al giorno, non le attuali decine. I servizi segreti israeliani sostengono che l'arsenale di Hamas comprenda oggi anche missili katyusha, capaci di colpire fino alla città di Beersheva, ma questa potrebbe anche essere una sovrastima volontaria, per accrescere il livello di allarme e, soprattutto, per preparare l'opinione pubblica alla guerra.
Dalla scadenza della tregua, infatti, il governo israeliano e non solo ha iniziato una martellante campagna mediatica - che ha immancabilmente trovato ampio risalto sui quotidiani internazionali - per creare la basi di consenso rispetto a un'ipotetica offensiva su larga scala a Gaza. Ha cominciato il generale Gabi Ashkenazi, capo dello Stato Maggiore israeliano, annunciando che le forze di difesa "sono pronte per qualsiasi operazione necessaria nella Striscia di Gaza". E ha rincarato la dose il deputato di Kadima Yisrael Hasson, che ha proposto l'evacuazione forzata delle zone della Striscia da cui vengono lanciati i razzi.
Ieri, infine, il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha annunciato di avere ordinato la preparazione dei piani per le diverse opzioni militari, L'azione di lobbying per l'offensiva è partita anche al Palazzo di Vetro di New York, dove l'inviata di Israele alle Nazioni Unite, Gabriele Shalew, ha annunciato che il suo Paese " non esiterà a intraprendere azioni militari contro Hamas".
Da cosa dipende tutto questo fervore? In questo periodo i politici israeliani hanno una sola cosa in mente: le elezioni del prossimo 10 febbraio, in cui si deciderà il successore del primo ministro Ehud Olmert. In lizza ci sono soprattutto due candidati: l'attuale ministro degli Esteri e leader di Kadima, Tzipi Livni, e Benjamin Netanyahu del Likud. In questi giorni i due hanno ingaggiato una sfida a distanza per dimostrare di essere potenziali premier dal pugno di ferro: la Livni ha promesso che, se verrà eletta, rovescerà il governo di Hamas, e lo stesso ha fatto anche Nethanyahu, che spinge per una soluzione militare. "Prenderemo le misure necessarie ma col necessario senso di responsabilità" ha potuto invece dire il premier uscente Olmert il quale, non a caso, non parteciperà alle elezioni di febbraio.
Mentre in Israele le uniche voci che insistono per il dialgo con Hamas sono quelle del pacifista Uri Avnery e del giornalista di Haaretz Gideon Levy, anche dall'altra parte si alzano i toni delle minacce, come quelle del deputato di Hamas Ayman Taha, secondo cui all'offensiva israeliana il suo partito risponderebbe riprendendo gli attacchi kamikaze contro Israele. O quelle del capo di Hamas in esilio in Siria, Khaled Meshaal, secondo cui Israele pagherebbe l'invasione con un altissimo numero di caduti. Questo però lo sanno bene anche i capi dell'esercito israeliano, che lasciano 'abbaiare' i politici, ma poi precisano di non avere ricevuto alcun ordine di preparare le truppe di terra. Sanno bene che Hamas ha avuto il tempo di disseminare di trappole il suo territorio e che i suoi miliziani sono pronti a combattere fino alla morte in caso di invasione. Sanno anche che una simile offensiva significherebbe la morte per il soldato Gilad Shalit, nelle mani di Hamas da due anni e mezzo. C'è dunque da scommettere che Israele continuerà a rispondere ai razzi con i raid aerei e le uccisioni mirate, e infatti i leader di Hamas sono nuovamente entrati in latitanza per non essere colpiti.
C'è un altro motivo per cui, probabilmente, il progetto di invasione rimarrà solo una minaccia: se anche la riconquista di Gaza riuscisse, infatti, il governo israeliano non sarebbe affatto in grado di gestirne nuovamente l'occupazione. Lo conferma l'ex comandante dell'esercito israeliano a Gaza, Shmuel Zakai: "Negli ultimi hanni - ha dichiarato lunedì ai quotidiani israeliani - abbiamo fatto ogni sforzo per separarci dai palestinesi, ora che senso avrebbe ritornare a controllare il territorio dove ne vivono un milione e mezzo?".
Secondo Zakai, il principale errore di Israele durante la tregua, è stato quello di sfruttare la calma per migliorare, anziché esasperare, la situazione economica dei palestinesi della Striscia. "E' ovvio che ora Hamas cerchi di ottenere qualcosa di più" ha concluso.
Olmert: “Obama, dateci anche torto, per salvare davvero Israele”. Ma è vero?
di Giulietto Chiesa - Megachip - 22 Dicembre 2008
“Olmert a Obama: ripensaci”. La domanda è nel titolo di un commento di International Herald Tribune di qualche giorno fa (inizio dicembre). Ripensare a cosa? Alla politica degli Stati Uniti verso Israele in tutti questi anni, non solo bushiani ma anche clintoniani.
Ma è davvero Olmert che parla? La stampa americana talvolta offre sorprese che il nostro mainstream ci concede sempre più raramente. L'autore di questa è un giornalista ebreo americano, Roger Cohen, commentatore di punta del New York Times, che prova a “immaginare” un dialogo tra il premier (uscente) del governo israeliano e il presidente (entrante) degli Stati Uniti.
Dove il primo si rivolgerebbe così al secondo: «Gli Stati Uniti si sono sbagliati firmando assegni in bianco a Israele, anno dopo anno; si sono sbagliati fingendo di non vedere gl'insediamenti israeliani sulla riva occidentale; si sono sbagliati nel non essere più espliciti sulla necessità di (con)dividere Gerusalemme; si sono sbagliati nel darci armi così sofisticate da convincerci che la sola potenza militare è la risposta a tutti i nostri problemi; si sono sbagliati, infine, nel non averci aiutato a contattare la Siria. Il suo futuro segretario di Stato, Hillary Clinton, ha detto in campagna elettorale che gli Usa stanno con Israele ora e per sempre. Ebbene, non basta. Voi dovete talvolta stare contro di noi, per aiutarci a evitare una linea di eterno militarismo».
Ovviamente un tale monologo non c'è mai stato, sebbene sia di non poco interesse vederlo scritto, nero su bianco, sull'Herald Tribune. Ma, come sottolinea l'autore dell'articolo, Olmert queste cose le ha effettivamente dette, anzi scritte: in una intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth.
Bisogna, come si usa dire, farci la tara, perché una tale giravolta intellettuale e politica in un falco come Olmert – non si dimentichi, autore e organizzatore della guerra contro il Libano – forse si spiega con il fatto che la sua carriera politica è finita nel fango sotto accuse di corruzione molto gravi. Ma, come in tutti i pentimenti, bisogna tenere conto che esiste anche una voglia di sgravarsi da una parte almeno delle responsabilità morali che si è voluto, o dovuto, assumere mentre si era in carica. Se non altro per questo Olmert dovrebbe dunque essere preso sul serio.
A Washington, prima di tutto, ma anche a Bruxelles. Roger Cohen – che sottolinea, a scanso di equivoci, di non essere minimamente disposto a mettere a repentaglio l'esistenza e la sicurezza dello Stato d'Israele – suggerisce a Hillary Clinton, cioè a Obama, di far incidere a fuoco, sulla parete dell'ottavo piano del Dipartimento di Stato dove si collocherà il suo ufficio, le parole che Olmert ha vergato come proprio epitaffio politico: «Noi dobbiamo trovare un accordo con i palestinesi, che significhi il ritiro da quasi tutti, se non da tutti, i territori (occupati, ndr). Una certa quota di essi resterà in nostre mani, ma noi dobbiamo dare loro, da qualche altra parte, la stessa quota. Senza questo non vi sarà pace. Inclusa Gerusalemme».
Sarà capace Barack Hussein Obama di spiegarlo a Hillary Clinton?
I pogrom in Palestina
di Luca Mazzucato - Altrenotizie - 23 Dicembre 2008
Questa volta non sono i russi a linciare gli ebrei come accadeva un secolo fa: ora sono i coloni israeliani a voler linciare i palestinesi a Hebron. La scena è una casa in fiamme abitata da venti palestinesi, tutti donne e bambini eccetto tre uomini. Attorno alla casa, decine di coloni ebrei col volto mascherato, dopo aver appiccato il fuoco alla proprietà, lanciano pietre nelle finestre rotte per stanare i palestinesi. Le urla terrorizzate dei bambini sovrastano il frastuono dell'incendio: gridano aiuto, ma nessun vicino corre in soccorso. L'edificio infatti è isolato dal resto del quartiere da centinaia di coloni e guardie armate, accorsi dal vicino insediamento illegale di Kyriat Arba per godersi lo spettacolo. I vigilantes con i mitra spianati si occupano di tenere a distanza le ambulanze e i vigili del fuoco palestinesi. Esercito e polizia israeliani non sembrano interessati agli eventi.
Un gruppo di giornalisti israeliani si trova sul posto per coprire l'evacuazione di una casa occupata dai coloni e vede quello che sta succedendo. Avi Issacharoff, corrispondente per Ha'aretz, riporta una drammatica testimonianza. Dopo aver cercato invano di convincere tre soldati diciottenni ad intervenire, un manipolo di giornalisti israeliani, armati di carta, penna e macchina fotografica, prendono il coraggio a due mani e decidono di sfidare il presidio di coloni mascherati. Corrono dentro la casa in fiamme e salvano donne e bambini da una morte certa. La scena che descrivono è questa: una donna giace a terra, svenuta a causa del fumo denso, mentre un bambino di cinque anni brandisce un bastone per prepararsi a difendersi dai coloni e il resto della famiglia urla di terrore e implora pietà. I giornalisti li portano fuori, proteggendoli dai coloni che continuano a lanciare pietre. Dopo un po' arriva la polizia israeliana, che scorta via i palestinesi e disperde i coloni mascherati, che facendosi da parte apostrofano la polizia al grido (sic!) di “Nazisti, vergognatevi!”
Tutto è cominciato con l'evacuazione di un grande edificio di proprietà di una famiglia palestinese, situato strategicamente tra la Tomba dei Patriarchi e il popoloso insediamento ebraico di Kiryat Arba, ad Hebron. Ribattezzato beffardamente “Casa della Pace” dagli occupanti, lo stabile è diventato il fulcro dello scontro degli estremisti ebrei del movimento dei coloni, tra i quali molti giovani e adolescenti, con il governo israeliano.
La Corte Suprema israeliana in novembre ha accolto il ricorso del proprietario palestinese dell'edificio, decretando l'evacuazione degli occupanti, dopo che questi avevano rivendicato la proprietà falsificando i documenti. Il governo aveva deciso di tergiversare, per raggiungere un accordo con il consiglio dei coloni, per tema di uno scontro aperto. Nel frattempo, centinaia e centinaia di coloni ultra-ortodossi si sono riversati nell'area da tutta la West Bank, decisi a non mollare, barricandosi nell'edificio armati ed agguerriti. I rabbini delle yeshivot, le scuole ebraiche ultra-ortodosse, hanno apertamente appoggiato gli occupanti, incoraggiando gli studenti ad organizzare dei turni per andare a difendere la Casa della Pace in vista della prova di forza.
Alcuni rabbini estremisti hanno portato un rotolo della torah nella casa, trasformandola in una sinagoga e dunque rendendone sacrilega l'evacuazione (stratagemma usato anche durante il ritiro da Gaza). Il governo ha dichiarato Hebron zona militare proibita, per bloccare l'afflusso di coloni in vista dello sgombero imminente. I coloni a loro volta si sono organizzati in ronde in tutta la West Bank, per tenere sotto controllo il movimento di truppe dell'IDF e riuscire a prevedere il momento dell'evacuazione.
Dieci giorni fa, fallito l'ennesimo tentativo di mediazione tra il Ministro della Difesa Barak e i rappresentanti dei coloni, seicento tra poliziotti della Border Police e soldati dell'IDF sono piombati sulla Casa della Pace e in venti minuti hanno sgomberato le centinaia di coloni asserragliati all'interno, con un bilancio di alcune decine di feriti da entrambe le parti. Tuttavia alcuni soldati si sono rifiutati di obbedire agli ordini ed uno di essi è stato filmato mentre insieme ai coloni lancia pietre contro la Border Police: insomma uno stato di totale anarchia. Subito dopo l'evacuazione, si è scatenato l'inferno. Gruppi di coloni inferociti si sono riversati nella città di Hebron, sia nella parte occupata e sotto coprifuoco che in quella sotto il controllo dell'ANP.
I coloni si sono vendicati mettendo a ferro e fuoco la città. Tre case palestinesi e decine di automobili sono state date alle fiamme, mentre coloni armati sparavano contro i passanti palestinesi terrorizzati. Il video shock di un attivista di “B'Tselem” mostra un colono israeliano che spara a distanza ravvicinata ad un ragazzino palestinese disarmato e quest'ultimo che si accascia al suolo privo di sensi (l'aggressore si è poi consegnato spontaneamente alla polizia).
Alla vista del video, Ehud Olmert stesso, il premier uscente, ha dichiarato a caldo: “La vista di ebrei che sparano contro palestinesi innocenti non ha altro nome che Pogrom.” Quattro altri civili palestinesi sono stati feriti da colpi di arma da fuoco nello stesso quartiere. Squadre di coloni hanno devastato cimiteri palestinesi e moschee, imbrattando tombe e pareti di scritte spray con i loro slogan d'elezione: “morte agli arabi” e paragoni tra Maometto e i suini.
I coloni si sono evidentemente organizzati per tempo, perché pochi minuti dopo l'evacuazione della Casa della Pace, gli scontri si sono estesi contemporaneamente a tutta la West Bank. Mentre a Gerusalemme Est attivisti ultra-ortodossi bloccavano la principale superstrada per Hebron, gruppi armati sono entrati a Ramallah e interi uliveti sono stati dati alle fiamme nel nord della West Bank. Ma la polizia palestinese, sotto il controllo dell'ANP, si è ben guardata dal proteggere la popolazione palestinese.
Il premier palestinese ad interim Fayyad ha infine avvertito il governo israeliano di non esagerare nel lasciare mano libera ai coloni, altrimenti prima o poi la polizia palestinese non sarebbe più riuscita a controllare la rivolta della popolazione.
La situazione nella West Bank è lentamente rientrata nei giorni successivi, dopo che i coloni hanno rioccupato alcuni edifici palestinesi sgomberati con difficoltà negli anni scorsi e minacciato di riprendersi la Casa della Pace quanto prima. Dopo l'ampio risalto dato dai media alle violenze, è chiara ormai ai cittadini israeliani l'esistenza di uno “stato parallelo” nei Territori Occupati, formalmente sotto Occupazione ma di fatto sotto il controllo dei coloni, armati e pronti a tutto pur di difendere il progetto della “Grande Israele.”
Durante la recente visita di stato in Gran Bretagna, il presidente israeliano Shimon Peres ha riassunto la situazione in maniera efficace. Nel suo discorso al Parlamento inglese, Peres ha dichiarato per la prima volta che “lo Stato di Israele avrà difficoltà a smantellare le colonie in West Bank senza causare una guerra civile in Israele.”
Sembra ormai chiaro che il movimento dei coloni, inventato da Ariel Sharon come strumento di pulizia etnica nei Territori, vezzeggiato da trent'anni di governi di destra e sinistra, è ormai diventato una potenza politica e militare del tutto autonoma, con cui persino il governo e l'IDF hanno paura a confrontarsi.
Auguri da un Muro: a Ramallah
di Doriana Goracci - http://www.reset-italia.net/ - 22 Dicembre 2008
«La foto ritrae un piccolo murales che si trova a Ramallah ed è stata scattata da un’amica che vi si è recata quest’anno. Volentieri ve la inoltro, con i miei sinceri auguri di buone feste ed un proficuo anno 2009».
Così ci scrive Yousef Salman, delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia.
Seguirebbero a non finire le testimonianze di tanti piccoli, minori, “terroristi” in erba con kefiah in testa o al collo e sasso in mano. Peccato che quei piccoli terroristi, sono cresciuti in decenni e si sono fatti uomini adulti e ne nascono altri, anche nella notte del 24 dicembre. Da queste parti, i muri non sono stati abbattuti, anzi, se ne sono edificati di nuovi e alti, sradicando olivi. Rametti di pianta vitale in Palestina, i cui frutti sono a noi ben noti anche nelle nostre case e benedetti, per altre feste.
Dal sito Pressante, riporto la parte finale di “A letter from Gaza”: «Sono alla fine tornato a casa poche ore fa dopo aver aspettato per molto tempo per trovare un mezzo di trasporto. Ma quando alla fine sono riuscito tornare a Rafah sono crollato per un riposo di un’ora. Il mio sonno è stato spezzato: mi sono svegliato terrorizzato da quello che seppi poi essere il bombardamento da parte degli F-16. Sono corso dal mio letto per tutta la nostra casa buia e non vedendo nessuno della mia famiglia all’interno, sono corso scalzo per strada. Molte persone erano per strada, i giovani uomini correvano. Non capii, non sapevo cosa stessi facendo, a parte correre senza sapere dove ero diretto. Molta gente aveva chiuso le finestre e abbassato le persiane visto che al momento c’è un freddo gelido. Sono stato contento di non essermi ferito con i vetri rotti e le macerie sulle strade. Sono tornato a casa per scrivere questa lettera sul mio portatile. Ma ho deciso che tornare a dormire non è una buona idea, non importa quanto io sia esausto. Se devo morire (e non lo desidero) voglio essere sveglio per sapere che sto morendo e per colpa di chi. Non addormentato».
Forse è sfuggito, presi come siamo da una pagina attuale, già lanciata il 23 giugno 2007 dal «Corriere della Sera» - Fini cambia tutto anche per noi- quello che è accaduto a Gerusalemme il 15 dicembre.
A marzo il Consiglio per i diritti umani dell’Onu con sede a Ginevra aveva assegnato a Richard Falk, un ebreo americano e professore emerito alla Princeton University, un incarico di sei anni per monitorare la situazione umanitaria nei Territori palestinesi. Ma Falk ha dichiarato che gli israeliani si comportano con i palestinesi come i nazisti contro gli ebrei (il predecessore di Richard Falk, il sudafricano John Dugard, aveva paragonato la situazione di vita dei palestinesi a quella dell’apartheid) e rifiutandosi di ritirare il controverso paragone, il ministero degli Esteri israeliano lo aveva avvisato che non gli sarebbe stato consentito il permesso. Per cui il 15 dicembre, come promesso, l’ingresso in Israele gli è stato impedito. Bloccato all’aeroporto Ben Gurion. Vano rammarico del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Richard Falk, l’uomo dell’Onu, sta fuori.
E oggi, domenica 21 dicembre 2008, Israele ha permesso l’approdo a Gaza della ‘Ss Dignity’, l’imbarcazione che dall’estate scorsa periodicamente porta aiuti umanitari alla stremata popolazione del territorio-prigione. La stiva porta il latte per i bambini e una tonnellata di medicinali messi a disposizione dal gruppo ‘Free Gaza’, promotore dell’iniziativa. Su tutti grava il blocco navale imposto un anno e mezzo fa dallo Stato ebraico. I diciassette attivisti appartengono a varie nazionalità, tra cui quattro membri di una fondazione benefica del Qatar, tre libanesi e due cittadini israeliani, un giornalista e la pacifista Neta Golan, residente nella città cisgiordana di Ramallah e fondatrice del Movimento di Solidarietà Internazionale. Nelle stive recano il latte per i bambini e una tonnellata di medicinali. Basteranno per una piccola percentuale dei bisognosi.
A Bil’in gli abitanti, con pacifisti stranieri e israeliani, hanno marciato come di consueto da tanti venerdì, contro il muro e la confisca di terre palestinesi, ostentando le scarpe, lanciate poi contro i militari. Il bilancio è stato di decine di intossicati dai lacrimogeni e otto feriti dai proiettili, tra cui un giornalista israeliano e uno palestinese.
Ma le agenzie di stampa fanno sapere che la tregua è rotta, se mai c’è stata… seguiranno altre rivendicazioni dall’uno e dall’ altro fronte.
Da noi, in Italia, si ri-batte con ottimismo: «Bisogna battere questa atmosfera di paura. Questa canzone della crisi, questa negatività che si respira ha diffuso la paura anche tra chi nulla ha da temere. Ed è questo che può inasprire la crisi».
Parola di Silvio Berlusconi, altro che Merry CRISIS and a happy new FEAR…E così dal checkpoint, si fa Natale anche così, disegnandolo su un Muro e ci mandano gli auguri.