domenica 21 dicembre 2008

Made in Italy

Qui di seguito un paio di articoli su alcune peculiarita' italiote, che comunque si possono facilmente riscontrare in tutto il mondo.

Ma si sa, il marchio "Made in Italy" rende il prodotto finale molto piu' sofisticato ed elegante...


La casta delle caste

di Alessio Mannino - La Voce del Ribelle - Dicembre 2008

Libro fortunato. Siamo d’accordo. E utile. Ma anche pericoloso, a dire il vero. Per la sua capacità, talvolta, di neutralizzare la protesta più vera.


Ed è arrivato anche l’aggiornamento al libro-tormentone di questi ultimi due anni. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno aggiunto le ultime notizie alla loro magistrale inchiesta su sprechi e privilegi della politica, la Casta (Rizzoli). I detrattori, in genere gli stessi mandarini sotto accusa, li hanno additati come qualunquisti, quasi come antidemocratici. Ma non è così. “Non si capisce perché l’indignazione di un britannico sia indignazione, e l’indignazione di un italiano sia qualunquismo”1, ha sbottato in tivù lo stesso Stella in risposta al sottosegretario Roberto Castelli, che aveva liquidato al solito modo i dati inoppugnabili enumerati dal giornalista del Corriere della Sera. Il quale, intendiamoci, è un segugio di razza: documentato, ficcante, con la suola consumata sul campo come le migliori penne di una volta. E con il merito indiscutibile di aver messo nero su bianco una tale montagna di scandali e ruberie da giustificare in pieno un sacrosanto disgusto per questi pover’uomini, i politici, dediti al basso saccheggio satrapesco.

Eppure, lasciando stare gli inglesi, imbattibili quanto a senso civico ma poco invidiabili su tanti altri fronti (l’alienazione capitalistica l’hanno inventata loro, mica noi), Stella ha torto e Castelli, benché sia dura ammetterlo, ha ragione. Ma non per i motivi suoi. Non perché denunciare il feudalesimo straccione della politica corrisponda a un insulso e indistinto rifiuto della politica tout court. Solo a lorsignori, difatti, può venire la sfacciataggine di negare che sono proprio loro, coi loro maneggi e carrozzoni clientelari, a incancrenire la storica estraneità degli italiani alla cosa pubblica. No, è per un’altra ragione che ha torto, il vendicatore dei torti di bilancio. Una ragione decisiva. Questa: l’italiano medio, col suo atavico disprezzo misto a ipocrita riverenza per lo Stato, si nutre di un’irritazione facilona, ciclica, pompata interessatamente dai poteri forti attraverso i media, poiché una regoletta antica quanto l’arte di governare dice che scoppi controllati di costernazione popolare sono un ottimo strumento per tenere il guinzaglio al collo della plebe. Mantenendola così insensibile alla stretta dall’alto, che resta ben salda nelle mani dei grandi interessi economici. Che il Quirinale ci costi di più di Buckingham Palace è di sicuro un oltraggio per quell’Italia impoverita che non arriva a fine mese. Ma limitarsi educatamente a chiedere tagli etici quando è l’intero edificio della res publica a costituire un’infamia fondata sul furto di sovranità, equivale a indicare il dito e non guardare la luna. Insomma, ci vogliono mezzi ciechi e spodestati, oltre che derubati.

Antipolitica?

Sebbene possa sembrare un paradosso ai più, questo risentimento da ragioneri contribuisce al qualunquismo come nessun Beppe Grillo potrà mai fare. Anche perché Grillo non è qualunquista: fa politica, altrochè antipolitica. Come definire altrimenti le centinaia di migliaia di persone che al V-Day 1 dell’8 settembre 2007 firmarono per “ripulire” il parlamento dagli indagati, limitarne i mandati e reintrodurre la preferenza elettorale, seguite da altrettante nel V-Day 2 del 25 aprile scorso per abolire l’Ordine dei giornalisti, il finanziamento pubblico all’editoria e la legge Gasparri? Ma tanto bastò all’informazione di regime, in testa il Corriere, per far risuonare il fuoco di fila della Casta sbertucciata fino a un giorno prima, con l’intero arco parlamentare che liquidava il movimento del Vaffanculo come una marmaglia di estremisti, populisti, addirittura terroristi e, immancabilmente, qualunquisti. Uno per tutti, basti ricordare il compagno D’Alema, che, sinceramente protervo come sempre, dichiarava un «fastidio antropologico»2 per quei minus habens scesi in piazza.

Il vero qualunquismo

Il qualunquista vero sta ai piani alti. Più alti delle Camere del Parlamento. Siede dietro le lussuose scrivanie di ciliegio degli editori di giornali e televisioni, ovvero i gruppi industriali e finanziari che finanziano e ricattano gli omuncoli della partitocrazia (i quali sono molto contenti di entrambe le cose: sono palanche e visibilità garantite). Sono i signorotti delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, cioè i reali detentori delle leve del Potere, quello con la P maiuscola: quell’Idra di interessi poco visibili che condiziona le scelte politiche e la gestione dei beni pubblici in misura incomparabilmente superiore rispetto al voto del gregge, a cui resta il contentino della crocetta elettorale. Sono i più bei nomi dell’imprenditoria e dei salotti bancari a muovere le truppe cammellate dei giornalisti loro dipendenti su un unico obbiettivo: il politicante arraffone. Mettere alla gogna una Casta per garantire la perpetua salvezza delle altre, compresa quella degli scribacchini a libro paga. Ma soprattutto per rendere eternamente al di sopra di ogni contestazione la propria casta: la Casta delle Caste.

Pensiero unico

I giornalisti come Stella, piaccia a loro o meno, scrupolosi e seri quanto si vuole, sono complici di questa operazione. Sono davvero qualunquisti, ma perché evitando di puntare il dito contro l’ingiustizia di fondo, fanno credere al popolo bue che il problema sia soltanto la pensione del deputato. Mentre le prebende stratosferiche e i baracconi per sistemare amici e parenti sono la punta dell’iceberg. Per affondare il quale ci vuole ben altro che un ente in meno o un risparmio in più. Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani. Piantandola di autoassolverci facendo i conti della portinaia, perché la portinaia dovrebbe stramaledire prima di tutto chi, con le tariffe in perenne aumento, i rincari della spesa, gli affitti impossibili, la benzina come l’oro, fa i gran soldi sulla sua pelle. Non illudersi che sia sufficiente incolpare chi raccoglie le briciole dei finanziamenti elettorali e del posto fisso da Vespa o Santoro.

Tutto per denaro

I soldi sono diventati tutto, siamo schiavi di un pensiero unico: i danè, gli schei, i piccioli. Per far girare la macchina, la loro macchina, dobbiamo trasformare le nostre coscienze in calcolatrici. Dobbiamo ragionare sempre e comunque in termini di ricavi e perdite. Ma per distoglierci da questo orrore, una verità troppo brutta da sopportare, hanno ridotto la politica a una commedia delle parti. In cui mai e poi mai qualcuno si azzarda a mettere in discussione il pensiero unico del mercato, del dio quattrino. La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari.

È una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. L’equazione è facile facile: politica uguale partiti, non si scappa. E chi scappa, Dio lo fulmini: è un pazzo, un paria, un sovversivo. Un qualunquista.

Ed è un pericolo. Perché il corollario prevede che chi non si genuflette alla sacralità della forma-partito è un anti-democratico. Perciò, in quanto tale, perde ogni diritto a dire la sua, e se lo fa andando in piazza, luogo primigenio della democrazia, aggiunge scandalo a scandalo. Il popolo puzza, eccezion fatta per quello che si raccoglie nelle adunate di partito per contarsi e fare a gara a chi ce l’ha più lungo – il consenso.

La politica, in altri termini, va lasciata ai professionisti inquadrati in apparati mafiosi, che oggi giorno, per soprammercato, lo sono ancora di più poiché a decidere tutto, eclissatesi le diatribe ideologiche, rimangono solo i clan personali di questo o quel leader. Solo coloro che si riconoscono nello status quo sono considerati buoni cittadini. Tutti gli altri, se si fanno gli affari loro, che votino o non votino, pazienza: “lasciateci lavorare in pace”, è il messaggio dei mandarini partitocratici. Ma guai ai facinorosi che osino rifiutare questo regime di tessera in cui, come scriveva Panfilo Gentile nel suo ancora attualissimo saggio “Democrazie mafiose” (1969), «solo i conformisti sono cittadini di pieno diritto»3. Morale della favola: se ti impegni politicamente senza i paraocchi dell’appartenenza alla destra e alla sinistra, sei un qualunquista. Se invece ti lagni e sbraiti della destra e della sinistra solo perché costano troppo, va bene, anzi comprati pure l’inchiestona di Stella e indìgnati. Ma fermati lì.

Una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti.

Pensiero forte

Il qualunquismo è un pensiero debole. Anzi, è il più debole di tutti, perché basato esclusivamente sul denaro. E’ un pensiero contabile, che come in un’azienda, misura la vita comune con criteri economicistici: costi-benefici, efficienza, risultati. Una critica da topi di bilancio a una società che non conosce più ideali ma solo valori, come in Borsa (che non a caso in origine si chiamava, e si chiama ancor oggi, “Borsa Valori”), è fare critica miope. Da quattro soldi. Che il Sistema economico tollera, anzi vuole e perciò sollecita, facendo risuonare la gran cassa della campagna anti-sprechi. Rafforzando nella gente la convinzione che la politica, in fin dei conti, non è diversa da tutto il resto: è una merce, con un suo prezzo e un suo mercato. Questo è il più puro e il più becero qualunquismo, di cui anche un bravissimo Stella è il portato. Al contrario, non lo è il pensiero forte di chi vorrebbe dare un calcio nel sedere a questa cultura bottegaia perfettamente funzionale all’economia e ai profitti di industriali e banchieri. Alcuni dei quali, riuniti nel cosiddetto “salotto buono” italiano, sono non a caso gli editori e i datori di lavoro di Stella. ™


Fonte: www.ilribelle.com/
Dicembre 2008 - Anno 1, Numero 3 - Sommario

Note:

1) Anno Zero, 13 novembre 2008
2) Festa dell’Unità, intervista di Bianca Berlinguer, 13 settembre 2007
3) Democrazie mafiose, Ponte alle Grazie, 2

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

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Tangenti rosse
di Gianluca di Feo e Marco Lillo - L'Espresso - 18 Dicembre 2008

Le mazzette di Pescara e Potenza. Gli appalti di Firenze e di Napoli. Il Pd vive i suoi giorni più neri

Arresti e sospetti, tangenti e favori: l'onda di piena è arrivata, tracimando a Potenza e Pescara, mentre a Napoli e Firenze ormai le voci di nuove retate sono incontrollate e fanno salire alle stelle il nervosismo negli ultimi palazzi della sinistra al potere. I magistrati colpiscono Margherita e Ds, contestando un sistema di governo dove si è perso il senso dell'illecito.
Il presidente della Regione Basilicata accusato di rivelare notizie segrete, il vicepresidente della Commissione ambiente di Montecitorio che avrebbe manovrato per gli affari nati dal petrolio, il sindaco di Pescara che si fa scarrozzare dal jet e dalla Mercedes di Mister Air One. Ma soprattutto un groviglio di appalti che sembra avvinghiare le giunte rosse di Toscana e Campania in un intreccio tra politici, professionisti e imprenditori...

I risultati del voto abruzzese sono più di un campanello di allarme: la sconfitta secca del centrosinistra, lo spostamento delle preferenze verso la componente dipietrista dell'opposizione e soprattutto l'ondata dell'astensionismo. Il tutto con lo choc dell'arresto di Luciano D'Alfonso, numero uno del Pd regionale e sindaco di Pescara che ha tenuto nascosto il suo coinvolgimento nelle inchieste fino alla chiusura dei seggi. Un vero de profundis, con la bordata di contestazioni per la privatizzazione dei cimiteri a suon di mazzette. E poi la limousine messa a disposizione da Carlo Toto, i voli gratis su Air One, le cene elettorali omaggiate, i contributi alle associazioni amiche: una lista di doni destinati a ingraziarsi il primo cittadino nelle concessioni per le aree del centro. Regalie di poco conto per il magnate di Air One che grazie alla nuova Alitalia potrà realizzare i suoi sogni milionari, episodi che per il codice penale potrebbero non essere nemmeno reato, ma che feriscono profondamente la credibilità del Pd. Insomma, un Natale da incubo per la leadership democratica, alle prese con quest'onda alimentata ormai da una decina di inchieste.

A Firenze, per esempio, le indagini offrono una radiografia impietosa che non riguarda solo il Pd, ma l'intera società italiana. Perché mostrano come la logica dell'intrallazzo abbia contagiato anche le categorie che dovrebbero disegnare il Paese del prossimo decennio. I protagonisti sono giovani architetti e ingegneri, quarantenni con cattedre universitarie e studi di prestigio internazionale, uniti da un motto ripetuto nelle intercettazioni: "A buon rendere. Se tu poi hai bisogno della stessa cosa in altri comuni, conta su di noi". I compassi d'oro si scambiano appalti da un capo all'altro della Penisola, pilotando sistematicamente le gare. Al telefono si vantano: "Era tutto telecomandato". Il reato contestato non fa scandalo: turbativa d'asta ha un suono soft da peccato veniale. In realtà si traduce in milioni e milioni d'euro spesi in cantieri assegnati ai soliti noti e ai loro padrini politici, che gestiscono le opere pubbliche come se fossero feudi nobiliari: "Firenze è un po' divisa, a seconda delle zone ci sono delle imprese...". Il rapporto con i partiti - e in questo caso con il Pd - è di osmosi: "Altrimenti qui si arriva alle elezioni e il sindaco non ha impicciato nulla". Il rapporto con i costruttori ha il sapore del vassallaggio, come nelle corti rinascimentali. Casamonti, professionista famoso che a soli 43 anni guida l'atelier Archea con 70 laureati, si inchina davanti a Salvatore Ligresti: "Ho stima di lei. Io mi sono un po' innamorato: lei ha carisma, è un grande imprenditore".

Casamonti è stato l'unico a finire in cella per l'inchiesta fiorentina. I pm lo definiscono "un instancabile e formidabile organizzatore di trame". Nell'affaire di Castello, il piano urbanistico che partorirà la Firenze della prossima generazione, è stato indagato a piede libero: secondo il giudice, l'assessore all'Urbanistica Gianni Biagi impose a Ligresti il suo nome, con un compenso di mezzo milione di euro. Invece Casamonti è stato travolto per un appalto che vale meno di 100 mila euro, nel piccolo comune aretino di Terranuova Bracciolini. È rimasto in carcere due notti, poi per tre ore ha risposto alle domande dei magistrati, che si sono mostrati soddisfatti e lo hanno mandato a casa. "Ho fatto solo del bene a questa città", aveva detto prima dell'arresto: "Non mi va di essere fregato".

Siamo davanti a un nuovo Mario Chiesa, capace di aprire un'altra Tangentopoli? I suoi avvocati minimizzano: "Ha reso ampie e particolareggiate dichiarazioni rispondendo a tutte le domande. Non si nega l'evidenza. I fatti storici sono quelli contestati, ha risposto contestualizzandoli e spiegando che il suo impegno era legato alla volontà che le opere fossero fatte bene". Gli inquirenti ostentano cautela. Il gip Rosario Lupo è abituato ai grandi casi: ha svolto lo stesso ruolo a Milano nell'ultima fase di Mani Pulite, sequestrando i beni di Paolo Berlusconi e pronunciando la celebre assoluzione del Cavaliere e di Cesare Previti per il lodo Mondadori. Ma basterebbe che Casamonti avesse spiegato le sue telefonate sulla lottizzazione degli appalti per moltiplicare le inchieste. Nelle intercettazioni parlava del Consorzio Etruria, un colosso delle coop attivo da Gallipoli a Bologna che nel 2007 ha gestito cantieri per un valore di 2 miliardi, inclusa parte dell'Alta velocità: "In quella zona c'è un'impresa che comanda, ma comanda davvero. È il Consorzio Etruria". O che avesse chiarito le sue entrature con gli assessori di Palazzo Vecchio e con la Provincia, guidata da Matteo Renzi, indagato e candidato alle primarie sempre più grottesche per il candidato sindaco. O che avesse fatto il punto dei tanti scambi di favori tra professionisti. Tra gli altri, nelle registrazioni raccomanda Francesco Salinitro che a sua volta, come dirigente urbanistico del Comune di Como, affida allo studio di Casamonti un contratto da favola per risistemare un'area industriale comasca: parte del Sistema Sviluppo Fiera, un'organizzazione che si affaccia sul grande business dell'Expo 2015. Non a caso i magistrati parlano di "trasversalità di Casamonti". Che nel suo smistare incarichi è stato registrato anche mentre manovrava una gara di progettazione napoletana.

Trasversalità sembra essere anche la parola chiave del sistema costruito da Alfredo Romeo, imprenditore per tutte le stagioni. Anche a Napoli la Procura si è concentrata sull'accusa di turbativa d'asta. Ma gli appalti che finivano nelle mani del re dei palazzi, che sogna di ripetere i fasti di Achille Lauro, valgono centinaia di milioni. Dagli atti dell'indagine emerge il profondo coinvolgimento della giunta comunale, con l'intervento politico del sindaco Rosa Russo Iervolino per far approvare il contratto da 330 milioni che affidava a Romeo la manutenzione di tutte le strade di Napoli. Nella ricostruzione della Procura sarebbe stato fondamentale il sostegno di Italo Bocchino, che sta spodestando Nicola Cosentino nella sala di controllo del Pdl campano. Il contratto del Global Service fu varato nel marzo 2006 quando mancavano solo due mesi al voto che vide rieleggere la Iervolino con il 57 per cento dei consensi. L'anno prima Antonio Bassolino si era imposto alla Regione proprio su Bocchino con percentuali bulgare: 61 per cento.

Oggi la situazione è drasticamente cambiata, con un partito dilaniato, i consigli provinciali e regionali popolati di indagati e ben sette assessori già costretti a lasciare la giunta comunale. Un sondaggio Swg commissionato dal 'Mattino' ha evidenziato il crollo della popolarità, facendo infuriare il sindaco. Anche gli interventi del vertice del Pd per un rinnovamento del gruppo dirigente cadono nel vuoto. In municipio come in Regione, l'unico cambiamento sembra potere arrivare dalla magistratura. Bassolino è a processo per l'emergenza rifiuti e il contratto a Impregilo. Altre indagini vanno avanti, con esiti imprevedibili, sulla torta più grande amministrata dalla Regione: la spese sanitaria, con debiti miliardari che hanno alimentato un oscuro reticolo di cartolarizzazioni. Ma tutti restano arroccati sulle loro poltrone. Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, non si è mai presentato in consiglio comunale dall'inizio della crisi giudiziaria. Rosa Russo Iervolino mostrando le "mani candide" respinge le richieste di dimissione che tentano anche la sua maggioranza. Il primo cittadino di Pescara, invece, pare che avesse promesso ai magistrati di farsi da parte subito dopo il voto, cercando un accordo per evitare l'arresto. E per tentare di salvare la faccia si era già rivolto a una società di public relation: perché l'immagine conta più dell'etica.
Anche il presidente della Basilicata, Vito De Filippo, avrebbe repentinamente cambiato atteggiamento nei confronti di un imprenditore. Secondo le accuse del pm Henry John Woodcock, prima lo avrebbe appoggiato, incontrandolo durante una cena elettorale, poi dopo le prime voci di inchiesta si sarebbe mosso pubblicamente contro di lui. Adesso si ritrova un avviso di garanzia per favoreggiamento e rivelazione del segreto di ufficio: uomini del suo entourage avrebbero comunicato al costruttore Francesco Rocco Ferrara notizie su un'indagine che lo riguardava. Il presidente è già dimissionario per le beghe della maggioranza bianco-rossa che da 13 anni governa la regione. E questa istruttoria rilegge la grande occasione della Basilicata: il petrolio. La vicenda ruota attorno al giacimento da 130 milioni di barili scoperto negli anni Novanta a Tempa Rossa e affidato in concessione nel 2006 dalla Regione a un'associazione di imprese con a capo la Total (con una quota del 50 per cento) insieme a Shell e Exxon (25 per cento ciascuna).

L'azienda è privata ma, essendo titolare di una concessione, è tenuta ai doveri del pubblico ufficiale. I manager della Total, secondo Woodcock, invece avrebbero brigato con i politici e gli imprenditori locali. L'obiettivo? Il solito: un appalto. La costruzione dell'impianto di estrazione, cinque pozzi per 35 milioni di euro, da assegnare a un pool di aziende lucane guidate dall'impresa di Francesco Rocco Ferrara. L'imprenditore, già coinvolto nell'inchiesta su Alfonso Pecoraro Scanio, secondo il pm avrebbe incontrato i leader regionali del Pd e ottenuto il loro sostegno. La Procura ha chiesto alla Camera di mandare agli arresti domiciliari l'onorevole Salvatore Margiotta: avrebbe fatto pressioni per aiutarlo e avrebbe acquisito informazioni per favorirlo in cambio della promessa di una mazzetta di 200 mila euro. Margiotta, rutelliano di ferro, è il numero uno nella lista di Potenza e ricopre la carica di vicepresidente della commissione Ambiente di Montecitorio. Il 16 dicembre 2007 gli agenti hanno pedinato Ferrara mentre discuteva con il deputato in una stradina di Potenza, all'aperto, sfidando il freddo glaciale. Per l'accusa in quell'incontro Ferrara ottenne il suo appoggio per la gara in cambio della mazzetta promessa da 200 mila euro. Ma per l'appalto - scrivono i magistrati - c'è chi è disposto a fare di tutto: pochi giorni dopo gli uomini della Total entrano di soppiatto nella sede per cambiare il contenuto dell'offerta di Ferrara, che così vince la commessa milionaria. Alla faccia del mercato e della legalità.