giovedì 22 maggio 2008

Il Medio Oriente inizia ad affrancarsi. Forse

Il Medio Oriente sembra finalmente aver cominciato ad affrancarsi dai dettami degli USA (e quindi di Israele) e ad agire in un’ottica di lungo periodo, grazie anche al continuo aumento del prezzo del petrolio e ai nuovi rapporti di forza regionali che si stanno consolidando sempre di più.

Il tutto a scapito dell’influenza USA nella regione che sembra destinata a diminuire ulteriormente e inesorabilmente.
A meno di un colpo di coda dei neocon nel prossimo autunno…


Qui di seguito tre articoli che parlano degli ultimi eventi mediorientali.

Il fallimento della strategia di Bush in Medio Oriente
di M. K. Bhadrakumar – Asia Times – 21 Maggio 2008

"[I leader arabi] hanno smesso di prendere istruzioni dall'Islam e hanno deciso che la loro opzione strategica è la pace con Israele, dunque sia dannata la loro decisione" - Osama bin Laden, messaggio audio, 18 maggio.Lo scorso martedì, mentre il presidente degli Stati Uniti George W. Bush partiva da Washington per un viaggio di cinque giorni in Medio Oriente, l'agenzia d'informazione semi-ufficiale iraniana Fars riferiva che il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad aveva alluso al fatto che Teheran potrebbe prendere in considerazione un taglio delle esportazioni petrolifere.

Naturalmente il ministro del petrolio Gholamhossein Nozari ha chiarito subito che Teheran stava solo valutando le proprie esportazioni, e che anche in questo settore bisognava prendere delle decisioni in merito a un aumento o a una diminuzione.Né Ahmadinejad né Nozari hanno detto che l'Iran stava rivedendo le esportazioni di petrolio in sé (che superano i 4,2 milioni di barili al giorno, il livello più alto dalla rivoluzione islamica del 1979). Ma i prezzi petroliferi statunitensi sono impazziti comunque, e mentre Bush atterrava nella regione del Golfo Persico hanno registrato il prezzo-record di 126 dollari al barile.

Ci si aspettava che Bush facesse pressione sull'OPEC perché organizzasse presto un incontro per concordare un aumento della produzione petrolifera (la prossima riunione dell'OPEC si terrà in settembre per decidere in merito alla questione). Stephen Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale, aveva dichiarato che Bush avrebbe detto al re saudita Abdullah che è nell'interesse dei paesi esportatori di petrolio “tener conto della salute economica dei clienti che pagano questi prezzi”. Quando si sono incontrati, venerdì, Bush ha scoperto che non c'era modo di persuadere il re saudita.
Nel frattempo Nozari era nuovamente sotto i riflettori. Ha dichiarato all'agenzia Fars: “Credo che non ci sia bisogno di una riunione [di emergenza] dell'OPEC. Perché dovrebbe esserci questa riunione quando i prezzi del petrolio salgono? I membri dell'OPEC stanno attualmente utilizzando tutta la loro capacità e stanno rifornendo il mercato... Con il petrolio a 126 dollari al barile non è saggio che coloro che hanno il petrolio non lo forniscano”. Nozari ha poi aggiunto di ritenere che “non è il petrolio che costa di più, è il dollaro che sta diventando meno caro”.

Cinque o sei anni fa sarebbe stato impensabile che un presidente statunitense in visita ricevesse un rifiuto così netto ed esplicito in Medio Oriente. I contatti della scorsa settimana hanno rivelato fino a che punto è giunto il declino del dominio statunitense in Medio Oriente durante l'attuale amministrazione Bush. Non c'è dubbio che il petrolio si trovi proprio al centro di questo declino. L'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio ha portato a un enorme trasferimento di risorse ai paesi esportatori di petrolio. L'Iran ne è tra i principali beneficiari.

Il grande accumulo di ricchezza permette all'Iran di esercitare la propria influenza sulla regione e di far sì che gli Stati Uniti non possano fare praticamente niente per contrastarne l'ascesa. In un rapporto diffuso venerdì Goldman Sachs prevedeva che il prezzo del petrolio balzerà a 140 dollari al barile entro luglio. "La previsione a breve termine per i prezzi del petrolio continua a essere all'insegna del rialzo", ha detto Goldman. Gli investitori si stanno precipitando sul mercato petrolifero come riparo dalla caduta del dollaro. Il Wall Street Journal ha riferito che al momento gli iraniani possiedono circa 25 milioni di barili – circa il doppio delle importazioni giornaliere degli Stati Uniti – di greggio pesante in petroliere al largo del Golfo Persico.

Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha sottolineato le realtà del nuovo ordine regionale quando ha recentemente invitato le grandi potenze ad “avanzare proposte concrete che garantiscano la sicurezza dell'Iran e assicurino all'Iran un posto equo e onorevole in un dialogo teso a risolvere tutti i problemi del Vicino e Medio Oriente”. Lavrov non è il solo a essere previdente. Anche gli esperti statunitensi si rendono conto della necessità di un nuovo atteggiamento verso il nucleare iraniano.

Tutto questo, essenzialmente, riflette i limiti della potenza americana. Un importante esperto statunitense di questioni iraniane, Ray Takeyh, senior fellow all'influente Council on Foreign Relations, ha preso il toro per le corna quando ha recentemente suggerito che era ora che gli Stati Uniti “consentissero all'Iran di sviluppare una capacità di arricchimento di dimensioni considerevoli”, concentrandosi invece sui modi e i mezzi per far sì che entro i perimetri delle sue infrastrutture nucleari non si svolgessero “attività infauste”. Come ha scritto Takeyh la scorsa settimana, proprio mentre Bush si trovava dalle parti dell'Iran, “L'Iran ha un apparato nucleare complesso e sta arricchendo uranio. Impossibile riportare indietro le lancette dell'orologio. Invece di resuscitare un pacchetto di incentivi respinto molto tempo fa dall'Iran o invocare punizioni militari che non preoccupano nessuno nella gerarchia del paese, gli Stati Uniti e i loro alleati europei farebbero meglio a negoziare un accordo che esaudisse almeno alcune delle loro richieste”.

È vero: la proliferazione nucleare e il petrolio sono una pericolosa accoppiata. Ma non sono che una faccia del fallimento della strategia dell'amministrazione Bush riguardo all'Iran. Il crollo è assoluto. Durante il suo viaggio, Bush ha cercato continuamente consensi per la sua strategia di contenimento nei confronti dell'Iran. I vicini arabi dell'Iraq si rifiutano di farsi coinvolgere nel caos di quel paese nonostante si lamentino che l'influenza iraniana in Iraq ha raggiunto un livello intollerabile. Non permetteranno che l'amministrazione Bush li recluti in vista di uno scontro con l'Iran. Mentre criticano in privato l'Iran con i loro interlocutori americani e sollecitano contromisure statunitensi, stanno in realtà valutando pro e contro, mettendo in conto il fatto che il prossimo presidente degli Stati Uniti potrebbe anche impegnarsi in un dialogo incondizionato con l'Iran.

I fatti del Libano hanno ulteriormente messo in luce il fatto che l'amministrazione Bush non ha un piano. Se si deve credere alla newsletter di Washington Counterpunch, un intervento israeliano già programmato (con il consenso degli Stati Uniti) in Libano durante i recenti scontri è stato rinviato all'ultimo minuto perché secondo informazioni di intelligence la rappresaglia di Hezbollah sarebbe stata molto pesante. Secondo i servizi statunitensi, Tel Aviv sarebbe stata bersagliata da “circa 600 razzi di Hezbollah nelle prime 24 ore della rappresaglia”. Secondo Counterpunch l'amministrazione Bush si sarebbe tirata indietro dopo aver dato “inizialmente il via libera” ai piani d'attacco militare di Israele al fianco delle milizie appoggiate dagli Stati Uniti. “La sconfitta delle milizie da parte di Hezbollah a Beirut Ovest e il timore di rappresaglie contro Tel Aviv hanno costretto a cancellare l'attacco israeliano”.

Non sorprende che tra i signori della guerra libanesi ci siano molta rabbia e amarezza per essere stati abbandonati dall'amministrazione Bush. Il primo ministro Fuad al-Siniora voleva dimettersi e i sauditi hanno dovuto convincerlo a non farlo. Il risultato è evidente a tutti. L'equilibrio politico si è spostato a favore di Hezbollah e le milizie filo-occidentali sono state umiliate. Ma soprattutto si è formata un'improbabile alleanza tra Hezbollah e l'esercito libanese (che l'amministrazione Bush ha finanziato con ben 400 milioni di dollari negli ultimi due anni).
Le conseguenze nella regione sono altrettanto importanti. L'Arabia Saudita e l'Egitto sostengono gli sforzi di mediazione della Lega Araba, prendendo le distanze dalla denuncia statunitense di Iran e Siria. I due pesi massimi arabi sarebbero a disagio per la lunga ombra dell'influenza iraniana sul Libano, ma sanno anche che l'Iran è una potenza regionale con cui venire a patti.Per citare il noto autore britannico ed esperto di Medio Oriente Patrick Seale, “Gli stati arabi del Golfo hanno vivaci scambi commerciali con l'Iran e accolgono una vasta popolazione iraniana. Non vogliono isolare l'Iran o minare la sua economia come sarebbe nei desideri di Israele e Stati Uniti. Appare chiaro che una maggiore comprensione e fiducia tra Arabia Saudita ed Egitto da una parte e Iran e Siria dall'altra – senza il peso delle interferenze di Stati Uniti e Israele – farebbero molto per facilitare il percorso del Libano verso la pace e la sicurezza”.

Riassumendo, l'amministrazione Bush non ha un Piano B neanche per il Libano. La mediazione della Lega Araba ha ignorato freddamente il desiderio di Washington di portare la questione del Libano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di mettere alla gogna la Siria e l'Iran. Alle autorità statunitensi non è restato che continuare a manifestare scetticismo sulla prospettiva dei colloqui intralibanesi che si terranno a Doha sotto gli auspici della Lega Araba.

Comunque il fallimento degli Stati Uniti nel contrastare l'influenza siriana e iraniana in Libano impallidisce se confrontato con quello del “processo di pace” arabo-israeliano. Quest'ultimo incombeva come un uccello del malaugurio sul tour in Medio Oriente di Bush. La credibilità del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha sofferto gravi colpi; Fatah è stata eliminata da Gaza; Hamas sta guadagnando terreno in Cisgiordania dopo il consolidamento a Gaza. E così nessuno ha raccolto le parole di Bush quando venerdì ha detto davanti a un uditorio arabo a Sharm el-Sheikh, in Egitto: “Tutte le nazioni della regione devono unirsi compatte nell'affrontare Hamas, che tenta di minare gli sforzi per la pace con continui atti di terrorismo e di violenza”.

Gli arabi sapevano che comunque la retorica anti-Hamas di Bush ha qualcosa di falso. Solo due giorni prima Hamas aveva annunciato che lunedì avrebbe mandato in Egitto una delegazione per una nuova serie di colloqui con i mediatori. Domenica il quotidiano israeliano Ha'aretz ha riferito che vari ex ufficiali della sicurezza e dell'esercito israeliani – compreso l'ex-capo del Mossad Ephraim Halevi, l'ex-capo dell'esercito Amnon Lipkin-Shahak e l'ex-comandante delle truppe israeliane a Gaza, Shmuel Zakai – un mese fa hanno scritto al governo per sollecitare colloqui indiretti con Hamas e per esprimere opposizione a un attacco militare su vasta scala contro Gaza.Hanno scritto: “Riconoscendo che la fine del regime di Hamas a Gaza non è un obiettivo realistico e che la restaurazione di Fatah nella Striscia di Gaza per mezzo delle baionette israeliane non è auspicabile... dovrebbero svolgersi negoziati non pubblici con Hamas attraverso l'Egitto o un altro mediatore accettabile per entrambe le parti”.

Durante il viaggio in Medio Oriente di Bush ciò che a tratti emerge è questo senso tangibile che gli Stati Uniti siano stati completamente emarginati dal nuovo Medio Oriente che sta prendendo forma. La retorica di Bush non è riuscita a nascondere il fatto che neanche aggiungendo 300 milioni di americani a 7 milioni di israeliani è riuscito a confutare l'erosione della supremazia di Israele nella regione.
In un recente brillante articolo, l'ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer ha sottolineato che il centro di gravità del potere e della politica regionale in seguito alla guerra in Iraq si è spostato verso il Golfo Persico. Per citare Fischer, “Ora è davvero praticamente impossibile mettere in pratica una qualsiasi soluzione al conflitto tra Israele e Palestina senza l'Iran e i suoi alleati locali, Hezbollah nel Libano e Hamas in Palestina”.Il fatto è che il fallimento storico della guerra in Iraq dev'essere ancora compreso appieno. Su un piano regionale, mentre la guerra in Iraq si trascina interminabile, la situazione è gravida delle immense conseguenze dello stravolgimento dell'intero sistema di stati creato dopo la caduta dell'Impero Ottomano nel 1918. La guerra in Iraq ha innescato il potenziamento degli sciiti e ha liberato forze storiche che erano incatenate da secoli. Il suo significato geopolitico va ancora assimilato, mentre tutta la regione è spazzata dai venti del cambiamento.

Fischer ha sottolineato che la guerra in Iraq ha messo fine per sempre al nazionalismo secolare arabo, che era – storicamente parlando – di ispirazione europea. Al suo posto è comparso l'Islam politico, che coltiva il nazionalismo “anti-occidentale” e fa leva su problemi sociali, economici e culturali per affrontare con impeto rivoluzionario regimi autoritari, corrotti, ingiusti e privi di legittimità popolare. Gli islamici stanno pilotando questa tendenza alla “modernizzazione”, mentre il futuro dell'Islam politico è lungi dall'essere chiaro.
Anche la Cina ha fatto la sua comparsa sullo scacchiere mediorientale, e questo renderà il declino del dominio statunitense nella regione sempre difficilmente arrestabile. Curiosamente, alla vigilia dell'arrivo di Bush in Medio Oriente, un importante studioso cinese, Weiming Zhao, professore all'Istituto di studi sul Medio Oriente dell'Università internazionale di Shanghai scriveva: “La Cina ha un significativo interesse per il Medio Oriente, e qualsiasi cambiamento della situazione in quella regione influirà sulla sicurezza energetica della Cina... Per molto tempo dunque l'atteggiamento fondamentale della diplomazia cinese sarà caratterizzato da una maggiore attenzione per lo sviluppo della situazione in Medio Oriente, da una maggiore preoccupazione per gli affari mediorientali e dalla volontà di instaurare relazioni più strette con i paesi mediorientali”.

Il viaggio di Bush ha rivelato che gli Stati Uniti non hanno una strategia per il Medio Oriente con la quale affrontare queste molteplici forze. Sembra che l'amministrazione Bush si limitasse a fingere di averne una. Una sfida formidabile attende il prossimo presidente degli Stati Uniti.

------------
M. K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera nell'Indian Foreign Service per più di 29 anni. Tra i suoi incarichi, quello di ambasciatore indiano in Uzbekistan (1995-98) e in Turchia (1998-2001).

Traduzione di
mirumir


Libano, raggiunto l’accordo tra maggioranza e opposizione. E Hizbollah si rafforza
di Carlo M. Miele - Osservatorio Iraq - 21 maggio 2008

Da una settimana sulla strada che porta all’aeroporto internazionale di Beirut campeggiava la scritta “Se non vi mettete d’accordo, non tornate”. E stamattina la maggioranza e l’opposizione libanese (i destinatari dell’avvertimento) hanno raggiunto l’intesa a Doha, nell’emirato del Qatar Il testo è stato sottoscritto dalla due parti al termine di sei giorni di intense trattative promosse dalla Lega Araba e, almeno per il momento, mette fine alla più grave crisi politica libanese dai tempi della guerra civile (1975-1990), iniziata alla fine del 2006 con l’uscita dei membri dell’opposizione dal precedente governo di unità nazionale e culminata nei violenti scontri della scorsa settimana.

Contenuto dell’accordo

Sono tre i punti principali dell’intesa raggiunta a Doha. Innanzitutto la maggioranza filo-Occidentale e l’opposizione guidata da Hizbollah e legata a Siria e Iran si impegnano all’elezione "immediata di un presidente della Repubblica", che con ogni probabilità sarà il generale Michel Sleiman. L’attuale capo delle forze armate, sulla cui candidatura già esisteva un consenso di massima delle due parti, dovrà essere eletto dal parlamento “entro 24 ore”, e andrà a occupare la massima carica istituzionale, scoperta dal novembre scorso, quando è scaduto il mandato di Emile Lahoud.

In secondo luogo, l’accordo prevede la formazione di un governo di unità nazionale, composto da 30 membri, che dovrà guidare il Paese fino alle prossime elezioni, previste per la primavera prossima. Del gabinetto entreranno a far parte 16 ministri della maggioranza, 11 dell’opposizione e tre di nomina presidenziale. In questo modo la coalizione del “14 marzo”, guidata da Saad Hariri, avrà la maggioranza in consiglio dei ministri e la possibilità di eleggere il premier, ma all’attuale opposizione (con un terzo più uno dei membri) spetterà quel diritto di veto che rivendicava da mesi, e il cui mancato accoglimento aveva finora impedito ogni intesa.

Infine, il punto più controverso dell’accordo, su cui si sono duramente scontrate a Doha le due parti, e cioè la nuova legge elettorale che dovrà regolare le prossime elezioni politiche. Alla fine è stata recuperata una legge precedente, risalente al 1960. Di fatto, saranno create circoscrizioni più piccole, in modo da garantire una migliore rappresentanza di tutte le confessioni nazionali.

Nel testo di Doha sono incluse altre questioni “minori” - dal divieto dell’utilizzo delle armi per la risoluzione dei contrasti interni, fino allo smantellamento (già in corso) della tendopoli messa in piedi in segno di protesta da Hizbollah nel centro di Beirut alla fine del 2006 – ma si fa cenno anche all’importanza del "rafforzamento dell’autorità dello Stato sulla totalità del territorio e dei suoi rapporti con le diverse organizzazioni, in modo da garantire la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini". Argomenti particolarmente sentiti dopo le violenze della scorsa settimana, che hanno rischiato di far precipitare il Libano in una nuova guerra civile, e che saranno affrontati nell’ambito di una nuova conferenza che si riunirà nella capitale libanese sotto l’egida della presidenza della Repubblica e "con la partecipazione della Lega Araba".

“Trionfo di Hizbollah”

Intervenendo in una conferenza stampa a Doha, il leader dalla maggioranza parlamentare di Beirut, Saad Hariri, ha dichiarato che oggi si apre "una nuova pagina per il Libano", mentre il ministro delle Telecomunicazioni, Marwan Hamadeh, ha tenuto a precisare che, in base all’intesa raggiunta, "non ci sono sconfitti". Eppure, diversi analisti già parlano di un trionfo di Hizbollah, che dopo aver ottenuto la scorsa settimana il ritiro dei contestati provvedimenti del governo, adesso si è vista accogliere tutte le sue principali richieste in campo istituzionale, a partire dalla possibilità di bloccare le leggi del futuro governo, fino alla riforma della legge elettorale in chiave confessionale.
Secondo il corrispondente della Bbc, Jonathan Marcus, l’accordo di Doha ha evitato una grossa calamità tramite il riconoscimento di un più forte ruolo politico di Hizbollah. Parere analogo esprime l’esperto del Partito di dio Amal Saad-Ghorayeb, secondo cui “l’accordo è un prodotto degli scontri, che chiaramente hanno rovesciato l’equilibrio politico a favore dell’opposizione”.Il direttore del Daily Star, Rami Khouri prevede invece un anno o due di relativa calma, ma avverte che restano aperte le questioni sensibili, come quella dell’arsenale di Hizbollah e del condizionamento delle potenze internazionali sul Libano.

Sostegno unanime della comunità internazionale

Intanto dalla comunità internazionale arriva un consenso pressoché unanime per il testo sottoscritto in Qatar. Il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Mouallem, ha sottolineato "l'importanza dell’intesa a cui sono pervenuti i fratelli libanesi" e si augura che essa "rappresenti un preludio a un regolamento della crisi politica del Libano". Anche l’Iran (altro alleato internazionale dell’opposizione libanese) "accoglie con favore l’accordo dei partiti libanesi”, come ha spiegato il suo ministro degli esteri Mohammad Ali Hossei. E consensi di massima arrivano dalle potenze legate alla maggioranza di Beirut.Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è detto "particolarmente felice per l’accordo’’ per cui la Francia stessa si è a lungo impegnata, mentre l’ambasciatore dell’Arabia saudita in Libano, Abdel Aziz Khoja, ha espresso “il sostegno e l’appoggio” del Regno arabo.


Siria e Israele hanno avviato colloqui indiretti in Turchia
Osservatorio Iraq - 22 Maggio 2008

Se ne era parlato già un mese fa, ma la conferma ufficiale è arrivata solo ieri: Israele e la Siria hanno avviato “colloqui indiretti” con la mediazione della Turchia. Secondo fonti del governo israeliano, che hanno trovato conferma presso il ministero degli Esteri turco, dei funzionari dei due Paesi si trovano in questo momento a Istanbul. In un comunicato diffuso dall’ufficio del primo ministro israeliano Ehud Olmert si parla di trattative “senza pregiudizi e in uno spirito di apertura”, che si pongono “l’obiettivo di raggiungere un accordo di pace completo", mentre in un testo analogo del ministero degli Esteri siriano si parla di “buona volontà” e “serietà” per “arrivare a una pace completa”.

Gli sforzi per riavviare il dialogo tra Tel Aviv e Damasco, interrotto dopo il fallimento del negoziato patrocinato dagli Stati Uniti nel 2000, andrebbero avanti da tempo. Fonti israeliane parlano di quasi un anno. Ma l’ipotesi di colloqui faccia a faccia viene ancora giudicata prematura. La catena televisiva Cnn Turk ha fatto sapere che i funzionari di Tel Aviv e Damasco non sono seduti allo stesso tavolo, e il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallim ha dichiarato che negoziati di pace diretti saranno possibili solo se, in questa prima fase, lo Stato ebraico dimostrerà di essere “serio”.Questione centrale della trattativa resta la restituzione alla Siria delle alture del Golan, occupate da Israele durante la guerra del 1967 e successivamente annesse.

Olmert si è detto disponibile a fare un passo in questa direzione, a patto che Damasco interrompa le sue relazioni con l’Iran e con le organizzazioni “anti-Israele”, in primo luogo Hamas e l’Hizbollah libanese. Per arrivare a questo punto – affermano diversi analisti – dovrebbero però mutare innanzitutto i rapporti tra la Siria e gli Stati Uniti. Stando a questa interpretazione, solo l’ipotesi di rinnovati legami diplomatici ed economici con Washington potrebbe convincere la Siria a rivedere le sue convinzioni di politica estera e ad accantonare la relazione privilegiata con Tehran.

Per ora, Damasco ha fatto sapere - tramite “fonti diplomatiche di alto livello” citate dal quotidiano al-Hayat - che con i colloqui diretti avviati con Tel Aviv e il contemporaneo accordo interlibanese di Doha “si è aperta una nuova fase” nelle sue relazioni con i Paesi arabi, con l'Occidente e con gli Stati Uniti. Dal canto suo, l’amministrazione Bush si è detta disponibile a sostenere un eventuale negoziato Israele-Siria sotto mediazione turca, a condizione che Damasco ponga fine alla sua “ingerenza” sul Libano.