venerdì 9 maggio 2008

Intervista al Presidente siriano Bashar al-Assad

Un’interessante intervista a 360 gradi concessa dal presidente siriano Bashar al-Assad a L’espresso e pubblicata questa settimana.

Bashar Al-Assad: vi offro la pace
di Gianni Perrelli

Le condizioni per un accordo con Israele. I legami con Iran, Hamas e Hezbollah. E poi gli Usa, la Cina, l'Italia. Esclusivo: parla il presidente siriano. Colloquio con Bashar Al-Assad

La pace in cambio della terra. Nello spirito della Conferenza di Madrid del '91. Se Israele restituirà totalmente alla Siria le colline del Golan, ritirando il suo esercito fino alla frontiera del 4 giugno '67 (prima della guerra dei Sei giorni), il riconoscimento reciproco dei due paesi diventerà uno sbocco logico. Un processo di normalizzazione da inserire, naturalmente, nella cornice di un accordo globale di distensione che sancisca la nascita dello Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale? Bashar al-Assad, 42 anni, presidente della Siria dal 2000 (dopo la morte del padre Hafez), annuncia in questa intervista esclusiva di voler moltiplicare gli sforzi per costruire una svolta storica in Medio Oriente.

Giovanile sia nella gestualità che nell'abbigliamento (abito, camicia e cravatta di tonalità azzurre), si è intrattenuto per oltre un'ora con "L' espresso" nel suo studio privato sulle colline dirimpetto al palazzo presidenziale di Damasco. Parlando cordialmente ma senza peli sulla lingua - oltre che di Israele - di George Bush, delle imminenti elezioni americane, della Palestina, dell'Iran, dell'Iraq, del Libano, dell'Europa, dell'Italia, delle Olimpiadi, dei progressi della Siria e anche degli hobby personali. Dal vivo la sua immagine di leader dotato di una gentilezza naturale, anche se dal linguaggio molto esplicito, appare in netto contrasto con la rappresentazione del dittatore a capo di un paese canaglia che viene accreditata negli ambienti conservatori degli Stati Uniti.

Signor presidente, si intensificano le voci di una possibile pace della Siria con Israele grazie alla mediazione della Turchia. È noto che il premier Ehud Olmert le ha già fatto recapitare una ventina di lettere con specifiche proposte. Quali condizioni vi vengono richieste?
«Preferisco non parlare di condizioni perché queste significherebbero ostacoli. La Siria accetta di trattare solo sulla base delle risoluzioni 242 e 338 fissate dall'Onu, cioè da tutta la comunità mondiale. Bisogna prima appurare se esiste una comune volontà di conseguire la pace e poi mettere in moto i meccanismi di un serio negoziato. Per aprire un processo così impegnativo abbiamo però bisogno di un partner influente. Il più importante, perché rappresenta la nazione più potente del mondo e ha legami speciali con Israele, è naturalmente il governo degli Stati Uniti. Ma al momento attuale Washington non manifesta alcuna intenzione di fornire questo sostegno. L'amministrazione americana non ha né una volontà né una visione di pace. E senza il suo appoggio il negoziato non può decollare. Nonostante tutto, il quadro è comunque migliorato. Stiamo costruendo le premesse per far nascere una vera trattativa».

Perché i lavori vengano accelerati aspetta quindi che, dopo le elezioni di novembre, si insedi a Washington una nuova amministrazione?
«Sì, attendiamo l'arrivo del nuovo governo. Purtroppo Bush non sta manifestando nessun reale interesse per il processo di pace».

E se, per concordare la pace, Israele vi chiedesse di non appoggiare più Hamas e Hezbollah, organizzazioni inserite dagli americani nel libro nero del terrorismo, e di rompere con l'Iran?
«Sarebbe una pretesa assurda e non si farebbe più la pace. Come reagirebbe Israele se noi chiedessimo la rottura delle sue relazioni con gli Stati Uniti? I negoziati debbono svilupparsi nel rispetto della piena reciprocità. La Siria resta fermamente convinta che né Hamas né Hezbollah siano organizzazioni terroristiche. Per la semplice ragione che non uccidono civili. Sono movimenti che difendono la loro terra. In quanto all'Iran la risposta è ancora più scontata. È un nostro vecchio alleato, non c'è alcun motivo per voltargli le spalle».

Nella conferenza di Madrid gli sponsor del processo di pace erano due: Washington e Mosca. Ma oggi non si parla più della Russia. Come partner negoziale è stata sostituita dalla Turchia?
«Direi che la Turchia non è un partner, ma un paese che sta facilitando la ricerca di uno sbocco. Né Ankara né Mosca possono però sostituire il peso degli Stati Uniti. Io conto che la Russia dia il suo contributo per facilitare il processo di pace in una prossima conferenza internazionale, una Annapolis due dove dovrebbero essere definiti i binari della trattativa».

Recentemente lei ha ricevuto la visita di Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti. Cosa vi siete detti?
«Abbiamo esaminato insieme tutti i problemi del Medio Oriente. Dal desiderio di pace siriano alla questione palestinese. Carter ha riconosciuto che fra i due dossier ci sono molti punti in comune».

Carter ha anche incontrato a Damasco il capo palestinese Khaled Meshaal, leader in esilio di Hamas, che ha lanciato la proposta di una tregua di cinque anni in cambio del ritiro di Israele nei confini antecedenti alla guerra del '67. È un piano accettabile?
«La nostra posizione, ribadisco, è quella del ripristino dei confini precedenti il '67 in base alle risoluzioni Onu. Però non possiamo parlare per Hamas. Ci limitiamo a rispettare la sua visione».

Malgrado tutti i suoi sforzi per apparire un leader di pace, il Pentagono anche nel suo ultimo rapporto ha incluso la Siria nell'elenco dei paesi canaglia.
«L'amministrazione americana non ha alcuna credibilità. Non solo da noi, ma in nessuna parte del mondo. E nemmeno negli Stati Uniti, a giudicare dai sondaggi. Parlare di quello che dice Bush è una perdita di tempo. Sul nostro operato l'unico giudizio che conta è quello dell'opinione pubblica siriana».

La Cia ha però recentemente mostrato le foto di un bombardamento israeliano, nel settembre 2007, contro una vostra presunta base nucleare ad Al Kibar che per l'intelligence americana sarebbe stata costruita con tecnologia nordcoreana.
«Le foto della base militare, e non nucleare, che stavamo costruendo sono state esibite dagli agenti della Cia sette mesi dopo il bombardamento. Se avevano elementi di prova su un nostro programma nucleare perché non li hanno denunciati subito all'Aiea? La realtà è che non erano in grado. Il bluff sarebbe stato subito smascherato. La Siria con la Corea del Nord ha rapporti normali, pubblici, senza sotterfugi, come con qualsiasi altro Paese. Non siamo minimamente intenzionati a costruire una bomba atomica. Anzi, in un vertice arabo del 2003, abbiamo proposto all'Onu il ritiro di tutte le armi di distruzione di massa dal Medio Oriente. Incappando nel veto americano. Abbiamo solo interesse a sviluppare un programma nucleare pacifico. Ma non da soli. Insieme agli altri Paesi arabi».

Perché la Siria non ha risposto all'attacco militare di Israele?
«Dal nostro punto di vista non ha senso rispondere ai missili con i missili. Cadremmo nella loro provocazione. Riteniamo che la risposta migliore sia l'impegno nel processo di pace, anche se richiederà tempo».

Lei approva il programma nucleare dell'Iran?
«Penso che l'Iran abbia tutti i diritti di realizzare un programma nucleare pacifico. Non vedo nella condotta di Teheran alcun pericolo. Minaccioso è il modo con cui gli Stati Uniti trattano il dossier iraniano. Alludendo alla possibilità di una nuova guerra».

Giudica concreto il pericolo di un intervento americano contro l'Iran? E quali conseguenze avrebbe?
«Il governo di Bush, ripeto, è un'amministrazione di guerra. E anche quando Washington non usa un linguaggio bellico è bene prestare molta attenzione. Le conseguenze di un altro conflitto sarebbero spaventose. Scoppierebbe il caos generale in tutto il Medio Oriente, ma gravissime ripercussioni si avrebbero in ogni regione del mondo. Abbiamo già visto cosa ha prodotto l'invasione in Iraq. Crescita dell'integralismo, espansione del terrorismo, stragi, degrado economico, miseria».

Gli Stati Uniti accusano però la Siria di sostenere il terrorismo, facilitando il transito dei guerriglieri di Al Qaeda verso l'Iraq e delle armi verso il Libano e la Palestina.
«Il terrorismo internazionale dei nostri giorni lo hanno creato proprio gli Stati Uniti, sostenendo negli anni Ottanta il fronte integralista nella lotta contro il comunismo. Anche Ronald Reagan considerava i jihadisti combattenti sacri. La Siria, Stato laico, negli anni Settanta è stata la prima vittima dell'estremismo religioso. L'abbiamo combattuto con gli strumenti della politica, del progresso economico, della cultura e della sicurezza. Gli Stati Uniti invece nel 2003 hanno scatenato una guerra assurda. Con il risultato che oggi nel mondo ci sono più terroristi che prima dell'11 settembre 2001».

Ma negli ultimi mesi la strategia del generale David Petraeus ha ridotto il livello della violenza, anche se non è riuscita a porre fine ai conflitti interconfessionali.
«L'unica soluzione della tragedia irachena è il ritiro delle truppe Usa. Dopo cinque anni di occupazione non si può che parlare di fallimento. Certo, il rientro dei soldati va accompagnato da un'agenda politica che favorisca il dialogo fra sunniti, sciiti e curdi. Il primo passo dovrebbe essere una conferenza che riunisca le varie fazioni per spianare la strada a una nuova Costituzione, con istituzioni pubbliche solide, su basi laiche e non confessionali. Quella attuale è minata da divisioni che destano nei Paesi confinanti, come il nostro, vive preoccupazioni per una possibile escalation della violenza».

La Siria ospita quasi due milioni di profughi iracheni. Una bomba demografica in un paese di 20 milioni di abitanti. Come pensate di disinnescarla?
«È una bomba politica, prima ancora che demografica. Perché il rifugiato avverte sulla sua pelle che il suo paese non si occupa di lui. E questo è un serio ostacolo al processo di pace. Noi abbiamo deciso di accogliere i fratelli iracheni in fuga dalla guerra. Manteniamo perfino agli studi 200 mila loro bambini. Paghiamo un prezzo per necessità politiche ma pure per ragioni umanitarie».

Agli occhi dell'Occidente la Siria è sospetta anche per le sue interferenze in Libano che da mesi ostacolerebbero l'elezione del nuovo presidente.
«Questo lo affermano alcune fazioni libanesi. Al contrario, è nostro interesse che il nuovo presidente venga eletto presto. E giudichiamo positivamente il generale Michel Suleiman, principale candidato. In realtà gli ostacoli sono di altra natura. I leader dei partiti continuano a chiedere garanzie e non riescono a mettersi d'accordo perché non si fidano. Poi c'è l'influenza degli Stati Uniti che hanno interesse a congelare l'elezione. Dopo aver commesso errori su tutta la linea in questa parte del mondo, badano soprattutto a puntellare l'attuale governo di Beirut, che li appoggia in ogni decisione, presentandolo come un loro grande successo».

È difficile sostenere che non sia pure la Siria, anche dopo il ritiro militare, a esercitare un'influenza sul Libano. Lo affermano importanti paesi dell'area. Egitto e Arabia Saudita hanno inviato proprio per questo motivo delegazioni minori al recente vertice della Lega Araba a Damasco.
«Non posso negare che continuiamo ad avere un'influenza. Ma il Libano è una porta chiusa con più chiavi. Una l'abbiamo noi, altre sono nelle mani di interlocutori diversi. All'Egitto e all'Arabia Saudita, con cui ci proponiamo di eliminare le divergenze, abbiamo già assicurato di non voler più interferire nelle questioni interne. È del tutto superfluo che ci lancino ammonimenti. La decisione di rispettare la sovranità di Beirut l'abbiamo già presa da soli, in piena autonomia».

Secondo alcuni giornali israeliani anche le truppe italiane dell'Unifil dislocate nel Sud del Libano aiuterebbero Hezbollah.
«Non credo proprio che sia vero».

Il mese prossimo si riunirà il Tribunale penale internazionale che sta cercando di far luce sull'assassinio dell'ex premier libanese Rafiq Hariri. I servizi segreti della Siria sono sospettati di coinvolgimento. Qual è la vostra linea di difesa?
«Abbiamo sempre sostenuto le indagini dell'Onu. La nostra collaborazione risulta chiarissima, da tutti i rapporti. Se ci sono elementi di prova contro di noi, li tirino fuori. Ma proviamo a ragionare. Che convenienza avrebbe avuto la Siria a compiere un atto criminale contro un leader amico, che aveva a lungo collaborato con noi?».

In attesa del pensionamento di Bush, ritiene che la vittoria del candidato democratico alle elezioni di novembre possa facilitare il processo di pace? E a suo giudizio chi fra Barack Obama e Hillary Clinton sarebbe il leader più sensibile alle vostre esigenze?
«Durante la campagna presidenziale i due candidati democratici non hanno usato concetti troppo diversi sul Medio Oriente. Entrambi debbono tener conto dell'elettorato ebreo. È bene quindi attendere. Certo, per noi è già un grosso segnale che entrambi parlino di ritiro delle truppe Usa dall'Iraq e riconoscano che l'intervento militare è stato un errore».

Se invece prevalesse il repubblicano John McCain?
«McCain ha detto che, se fosse necessario, l'esercito americano dovrebbe rimanere anche cent'anni in Iraq. Ma questo fa parte del suo mondo dei sogni. E per noi di quello degli incubi. La permanenza delle truppe Usa significherebbe di nuovo guerra e l'aggravamento dei già enormi problemi. Speriamo che le parole del candidato repubblicano siano solo dettate da esigenze elettorali».

L'Europa che ruolo può svolgere nel processo di pace?
«L'Europa deve prima definire la sua visione del mondo. Vuole essere l'eco degli Stati Uniti o assumere una posizione più indipendente rispetto a Washington? Nel primo caso si escluderà da qualsiasi ruolo. Nel secondo, potrà agire in due direzioni. Ha la forza per dialogare con gli Usa, convincerli ad affrontare seriamente il processo di pace, aiutarli insomma senza avere la pretesa di sostituirli. E ha inoltre l'autorevolezza per operare direttamente sul territorio: grazie alla miglior conoscenza del Medio Oriente rispetto agli americani, l'Europa è in grado di formulare proposte più concrete».

Ma la Siria incontra però aperta diffidenza anche in Europa. Con la Francia, per esempio, il vostro dialogo è congelato.
«Con l'avvento di Nicolas Sarkozy la situazione si è un po' schiarita. Almeno adesso si è riaperto qualche contatto fra i ministri degli Esteri».

Come sono stati negli ultimi due anni i vostri rapporti con il governo italiano di Romano Prodi?
«Si è sviluppata una relazione cordiale, di rispetto e fiducia. Salvo differenze minime, Prodi si è rivelato uno dei leader europei più vicini alla Siria nella ricerca della pace».

Quali sono state le differenze?
«Valutazioni non sempre convergenti su Israele, sugli Stati Uniti, sulle modalità del processo di pace. Dovute perlopiù a una percezione diversa delle realtà sul territorio mediorientale che noi riteniamo ovviamente di conoscere meglio degli europei».

Nei prossimi giorni si insedierà in Italia il terzo governo di Silvio Berlusconi, un leader con cui lei si è già confrontato dal 2001 al 2006 e che è sempre stato molto vicino alle posizioni di Israele.
«Giudicheremo dai fatti. All'epoca i contrasti riguardavano la partecipazione italiana alla guerra in Iraq e l'appoggio agli Stati Uniti. Che Berlusconi sia un amico di Israele per noi non è un problema. L'importante è che anche lui sia interessato al processo di pace. In passato abbiamo trattato sia con Jimmy Carter che con George Bush senior, che erano legatissimi allo Stato ebraico».

È scoppiata una polemica fra Libia e Italia. Il figlio di Muammar Gheddafi ha detto che ci sarebbero pesanti conseguenze nei rapporti fra il governo Berlusconi e il mondo musulmano se diventasse ministro Roberto Calderoli, un esponente della Lega che in passato esibì provocatoriamente una maglietta con scritte antiislamiche.
«Sarebbe un problema solo se il governo Berlusconi sposasse su questo tema il punto di vista del signor Calderoli».

Anche nelle elezioni amministrative in Gran Bretagna, paese in cui lei ha vissuto, la sinistra ha franato. Come si spiega questo vento di destra in Europa?
«Non è un problema di destra o di sinistra, ma di come i governi gestiscono i programmi. José Luis Zapatero in Spagna ha affrontato con forza le riforme. In altri paesi l'elettorato aveva evidentemente voglia di cambiamenti».

La scena internazionale è agitata anche dalla repressione cinese nel Tibet che proietta una luce fosca sullo svolgimento delle prossime Olimpiadi.
«In tema di diritti umani i due esempi più vergognosi di questo decennio sono stati gli abusi atroci commessi dagli americani nei carceri di Guantanamo e di Abu Ghraib. Io penso che il problema tibetano sia un fatto interno della Cina e vedo che il miliardo e 300 milioni di cinesi sono contrari al boicottaggio dei Giochi. Nessuno ha più titoli di loro per giudicare sulle questioni nazionali».

La Siria sotto la sua gestione ha compiuto grandi passi verso la modernità. Ma è impressione generale che le resistenze della vecchia guardia nel partito Baath al potere frenino la corsa verso il progresso.
«È inevitabile che sorgano contrasti quando si inizia un processo di rinnovamento a ritmi incalzanti. Questo conflitto all'interno del Baath è però già stato risolto nel Congresso del 2005, quando abbiamo introdotto l'economia di mercato, autorizzato l'ingresso di nuovi partiti politici, promosso la libertà di stampa. Ammetto che non tutto è stato ancora realizzato. Sul fronte della corruzione, per esempio, abbiamo ottenuto buoni risultati al vertice della piramide. Ma molto rimane da fare alla base, a causa di uno sviluppo amministrativo troppo lento».

Ma la libertà di espressione non ammette ancora l'aperto dissenso.
«Non è così. Oggi lei può incontrare senza problemi i dissidenti a casa loro e registrare liberamente le loro idee».

La Siria ha tassi di crescita superiori al 6 per cento, ma rimane ancora alto l'indice di disoccupazione.
«La crescita economica è una base molto importante per il nostro sviluppo. In materia di lavoro, un tempo favorivamo soprattutto l'accesso dei giovani nell'amministrazione pubblica. Ora cerchiamo di combattere la disoccupazione impiegandoli anche nell'agricoltura e nell'industria».

Permetta una divagazione sul personale. Lei è stato educato in Gran Bretagna. Quanto le è servita l'esperienza occidentale nel raccogliere la pesante eredità lasciatale da suo padre Hafez?
«Le prime lezioni di vita le ho apprese in Siria. Il soggiorno all'estero mi è stato utile per acquisire una visione e una metodologia diverse nell'affrontare i problemi».

Dicono che lei conduca una vita molto riservata. Tutta casa, con sua moglie e i suoi tre figli, e affari di Stato.
«Io ho i miei hobby, come tutti. Mi piace ascoltare la musica: classica, araba e pure pop. Amo poi la fotografia. E quando posso pratico sport: basket e nuoto. Passo infine molto tempo a navigare su Internet. Per lavorare ma a volte anche per puro divertimento».