sabato 4 ottobre 2008

Il fallimento del modello liberista e dei suoi ciechi sostenitori

Cio' che e' accaduto nelle scorse settimane - e che accadra' ancora nelle prossime - e' il canto del cigno di un modello economico che per decenni ci e' stato presentato come il migliore possibile, infallibile ed eterno.
E invece no, si sta sbriciolando alla velocita' della luce perche' il suo destino era scritto nel suo dna.

Sarebbe quindi il caso che tutti coloro che in questi anni si sono riempiti la bocca sperticandosi in lodi a favore del liberismo, facciano quantomeno autocritica e la smettano per sempre di ergersi a soloni in economia, in quanto condividono in privato l'esito finale di tale modello economico: il fallimento.


Autocritica
di Massimo Gramellini - La Stampa - 4 ottobre 2008

Dice il saggio: si nasce incendiari e si muore pompieri, nel senso che chi a diciott’anni immaginava di ribaltare il mondo, giunto alla famigerata età adulta rivaluta la moderazione dei padri. Di solito l’utopia da cui ci si emenda con la maturità è quella socialcomunista: l’uguaglianza e la solidarietà imposte per legge. Ma io conosco uno che a diciott’anni credeva nell’utopia opposta, la liberista.

Iniziativa individuale e meritocrazia erano le sue stelle polari. Brandiva Reagan e Milton Friedman come gli altri Marx e Che Guevara. E oggi si ritrova deluso anche lui dal fallimento dei sogni della sua adolescenza minoritaria. Il comunismo reale ha ucciso il comunismo immaginario perché ne ha tradito il valore fondante, l’uguaglianza, creando una società di burocrati e di oppressi.

Allo stesso modo il liberismo reale ha ucciso quello immaginario perché ha tradito il valore del merito. Non è sana una società dove i cortigiani del capo guadagnano non 3, non 30 ma 300 volte più di un bravo impiegato. Soprattutto non è sana una società in cui il manager cattivo è strapagato come quello buono e chi affossa le aziende viene liquidato come un sultano a spese dei dipendenti e dei risparmiatori.

Prima o poi la natura si ribella alle esagerazioni, che con la loro indecenza ne alterano la fondamentale tendenza all’armonia. Così le utopie realizzate diventano incubi, lasciando chi ci ha creduto senza altri sogni che non siano quello, minuscolo ma sincero, di dare l’esempio. Provando a rispettare il prossimo e, prima ancora, se stesso.


700 miliardi per camuffare la storia
di Claudio Giudici - Movisol - 4 Ottobre 2008

Durante la settimana finanziaria che va dal 15 al 19 settembre, la globalizzazione finanziaria aveva dimostrato di essere definitivamente morta. Ma prima che il crollo di Wall Street coinvolgesse Main Street (l’economia reale), il Governo americano ha preso una decisione senza precedenti: la costituzione di un ente federale con a disposizione 700 miliardi di dollari da destinare al riacquisto dei valori finanziari tossici che sono all’origine del perpetuarsi del crollo dei listini finanziari mondiali.

Secondo gli analisti il piano Paulson sarebbe quantitativamente dieci volte superiore al piano Marshall con cui si ricostruì l’Europa post-bellica e superiore al costo della guerra del Vietnam. Si consideri poi che la Cina, detenendo metà del debito estero Usa, detiene un importo di 500 miliardi di dollari in titoli statunitensi. L’immissione di 700 miliardi di dollari da parte del Tesoro, rappresenta di fatto una importante svalutazione del loro debito verso la Cina. Quanto potranno sopportare ancora la Cina, e gli altri detentori di titoli del debito Usa, un tal genere di furto? Il modello di fatto imperiale, spacciato col nome altisonante di globalizzazione, è in rianimazione ma con certezza di morte. Anzi, il piano Paulson non farà altro che prolungare l’agonia del malato.

Questo perché quel credito di 700 miliardi non è strategicamente vincolato a risollevare l’ansimante economia reale, quanto piuttosto volto a riversare direttamente sui cittadini americani, ed indirettamente sulla popolazione mondiale, il disastro prodotto dall’immissione nel sistema della finanza di titoli puramente speculativi.

Ciò su cui non si può discutere, è invece il definitivo fallimento del modello liberista. Il blocco delle vendite allo scoperto ed il paracadute offerto ai mercati con i soldi dei cittadini, sono decisioni dirigistiche ed antimercatiste che dovrebbero segnare pure per gli irriducibili liberisti, il definitivo fallimento della deregulation , dell’idea per cui i mercati abbandonati a sé stessi raggiungerebbero l’equilibrio ottimale in favore della ricchezza. Se si fossero abbandonati i mercati ai loro destini, le famiglie più importanti del pianeta, dai Morgan ai Mellon ai Du Pont ai Rothschild, sarebbero probabilmente alle cronache come storico caso di "eccellente suicidio di massa", produzioni e commerci sarebbero fermi, intere nazioni sarebbero nel più completo caos.

In tutta questa storia c’è anche un altro dato interessante che emerge e che è bene che i politici tengano presente già nell’immediato futuro, visti i sacrifici che esso è costato alle popolazioni da loro amministrate. Gli illuminati osservatori economici del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, dell’Ocse, e delle agenzie di rating private (S & P, Moody’s, Fitch) che finora hanno giudicato sulla bontà delle scelte economiche fatte da stati sovrani ed aziende, da oggi, che genere di mestiere potranno fare? La risposta è che l’economia mondiale, nella sua facciata reale, necessita di braccia per la ricostruzione e l’arricchimento tecnologico delle sue infrastrutture e delle sue produzioni, di modo che i popoli del pianeta, dopo un quarantennio di politiche liberiste a cui sono stati via via sottoposti, possano tornare a vedere il sereno offerto da un’economia che migliori i loro tenori di vita piuttosto che distruggerli.

Ora, dovrebbe essere ovvio anche a Paulson – forse non a Bush – che quel credito di 700 miliardi, corrisponde ad una nuova immissione di liquidità nel sistema, che al pari dei circa 2-3 miliardi che ogni giorno dal luglio-agosto 2007 fino alla scorsa settimana, le banche centrali avevano cominciato ad iniettare nel mercato per sorreggere la maturanda crisi, rifluirà sui prodotti finanziari speculativi che abbiano come sottostante oro, petrolio, materie prime, generi alimentari. Ciò comporterà a breve una nuova ondata iperinflazionistica sui beni di prima necessità.

In sostanza, quei 700 miliardi non serviranno altro che ad alimentare la fase d’iperinflazione globale, con un botto ancor più violento sui mercati finanziari e impensabili ripercussioni nell’economia reale. Chi cerca di dare una giustificazione "razionale" alla decisione del Tesoro, cerca di far passare come meritorio il salvataggio poiché "in fondo dietro ai titoli tossici detenuti dal sistema finanziario, vi sarebbero degli immobili" (come a dire che così tossici non sarebbero).

Ma questa considerazione, oltre a non essere avvalorata dai mercati (tanta è la crisi di fiducia creatasi tra gli operatori) non è avvalorata neanche dalla ragione. La garanzia offerta ai valori finanziari da parte del relativo sottostante reale immobiliare, infatti, può garantire un equivalente valore finanziario, non una piramide di carta molte volte superiore al valore degli immobili stessi.

Ma perché Paulson, ha proceduto in un salvataggio che evidentemente non farà altro che procrastinare il crollo dei mercati piuttosto che evitarlo?In sostanza Paulson-Bush stanno solo prendendo tempo. Ma per quale motivo? Tempo per cosa?

Riflettiamo sul primo crollo finanziario del nuovo millennio, quello che va dal marzo 2000 all’ottobre 2002. Nell’immaginario collettivo il primo crollo dei mercati del nuovo millennio avvenne in seguito alla distruzione delle Twin Towers nel settembre del 2001. Esso cominciò invece nel marzo del 2000 e fino al 10 settembre 2001 le borse mondiali avevano perso circa il 30% del loro valore. Dall’11 settembre fino ai minimi dell’ottobre 2002 gli indici persero un ulteriore 30%.

Dunque il primo crack dei mercati nel nuovo millennio avvenne ben prima dell’11 settembre e corrispose sostanzialmente allo scoppio della bolla dei titoli della new economy (telecom, media and tech), ma per la popolazione mondiale esso avvenne a causa di Osama Bin Laden. In seguito i mercati mondiali si ripresero sostituendo la mega bolla new economy con una nuova bolla speculativa, quella del settore immobiliare.

Mentre scrivo le agenzie di stampa rendono conto dell’ultimo discorso di G. W. Bush alle Nazioni Unite, in cui afferma che "Siria ed Iran continuano a sponsorizzare il terrorismo" (mentre in Iraq ci dovevano essere armi di distruzione di massa!). Per l’opinione pubblica occidentale, che nella maggioranza dei casi non ha mai letto alcun discorso di Ahmadinejad, quell’iraniano è colui che vuole sterminare Israele, visto che così i media hanno riferito (sic).

Nel corso dell’ultima settimana si sono verificati vari attentati di presunta matrice terroristica da Islamabad a Gerusalemme allo Yemen ai Paesi Baschi (tralasciando quelli del casertano). In breve, mentre la globalizzazione, grazie al piano Paulson, rimanda la sua dichiarazione di decesso, varie "operazioni caos" si scatenano con ritmo accelerato a giro per il pianeta.

Se scoppiasse una nuova importante guerra, la storia ufficiale di questi giorni diverrebbe: «La guerra contro il terrorismo fece crollare i mercati finanziari e l’economia mondiale.»
A cospetto di un sistema fallito, l’unico modo per salvare i creditori privilegiati, ossia la popolazione mondiale unitariamente intesa, è seguire il "piano LaRouche": organizzare il fallimento del sistema e non attendere che esso si verifichi per forza d’inerzia, distinguere tra quelli che sono crediti esigibili (stipendi, pensioni, liquidità per il funzionamento dello stato e del welfare) e quelli che non sono esigibili perché frutto di mere speculazioni. Ricreare un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale sul modello rooseveltiano di Bretton Woods.

Da qui lanciare linee di credito a livello globale con cui finanziare nuovi progetti infrastrutturali e le imprese private. Per fare ciò è necessario che alla disponibilità di Russia, Cina e India si aggiunga quella degli Stati Uniti. Gli altri si allineerebbero di conseguenza.


Come il '29? Parla l'economista francese Jean-Paul Fitoussi
di Anna Maria Merlo - Il Manifesto - 4 Ottobre 2008

Ogni giorno ci sono nuove notizie che segnalano l'aggravamento della crisi finanziaria. I politici fanno a gara nel rassicurare i cittadini, clienti delle banche, per evitare a tutti i costi che si diffonda il panico e che ci siano code agli sportelli, come nel '29 - o come un anno fa in Gran Bretagna, per la Northern Rock. Ma le dichiarazioni sono fin troppo rassicuranti per essere vere. Una prova dell'ampiezza della crisi, che ha ormai contagiato in pieno l'Europa, è la proposta di Nicolas Sarkozy di costituire un fondo comune europeo di 300 miliardi per poter intervenire e salvare le banche in difficoltà, subito respinto dalla Germania. Della crisi finanziaria mondiale, delle sue cause e delle conseguenze sul futuro discutiamo con l'economista Jean-Paul Fitoussi, professore a Sciences Po a Parigi, presidente dell'Ofce (Osservatorio francese delle congiunture economiche), coordinatore della Commissione sulla misura della performance economica e del progresso sociale.

Professor Fitoussi, cosa sta succedendo? Siamo solo all'inizio di una depressione che impoverirà tutti?

Se facciamo riferimento alla storia, le crisi finanziarie ricorrenti sono inerenti al sistema capitalista. Ma la crisi attuale ha una sua specificità: direi che è una crisi della comprensione. Abbiamo l'impressione, che peraltro è una realtà, che i protagonisti stessi non capiscano cosa fanno e non capiscano più il sistema. Hanno creato dei prodotti talmente complessi di cui nessuno sa più valutarne il valore e, quindi, questo valore crolla. Adesso siamo nel momento del crollo di questo valore. Per il momento si tratta più di una crisi di comprensione che di una crisi di fiducia generalizzata? La crisi concerne gli operatori del sistema bancario. Non hanno più fiducia in se stessi e quindi non hanno fiducia negli altri. Sapendo in che stato sono, non hanno più voglia di prestarsi i soldi uno con l'altro. Allora il sistema si blocca. Di norma, difatti, i depositi sono una frazione dei prestiti. Le banche hanno in permanenza bisogno di rifinanziarsi poiché prestano di più di quanto abbiano in cassa attraverso il mercato interbancario. Adesso questo mercato non funziona più. E poiché non possono più rifinanziarsi, siamo di fronte al grande pericolo che non possano più prestare alle famiglie e alle imprese. Questo può portare all'asfissia totale del sistema, con la conseguente paralisi dell'attività economica, l'aumento della disoccupazione, la ripetizione di quello che è successo negli anni '30.

Siamo quindi sull'orlo di un altro '29?

Non credo, perché oggi i governi non stanno facendo gli stessi errori di allora. Persino i più liberisti nazionalizzano le banche. Si tappano il naso, ma nazionalizzano, con lo scopo di ristabilire la fiducia nel sistema. Gli Usa stanno tentando un'esperienza fondamentalmente buona, anche se c'è dibattito e il piano potrebbe essere migliorato. Paulson fa un tentativo per ristabilire la fiducia tra gli operatori del sistema che, anche se non capiscono cosa sta succedendo, dovrebbero ritrovare questa fiducia se non sono più gravati da attivi non valorizzabili.

A differenza degli Usa, l'Europa tergiversa: Francia e Germania non sono d'accordo, l'Irlanda va per conto suo. Se crolla una banca che ha sportelli in vari paesi europei, cosa succederà?

In Europa sono gli stati che si fanno garanti, nazionalizzando le banche con aumenti di capitale. È quello che è successo, per esempio, con Dexia. E se gli europei saranno incapaci di intendersi su un piano comune, sarà il paese dove la banca ha la sua localizzazione principale a dover far fronte. Sarkozy ha proposto un fondo comune europeo di 300 miliardi. I tedeschi hanno detto di no e di conseguenza questo piano non si farà. Così in questa crisi appare la differenza fondamentale tra Stati uniti e Unione europea: gli Usa sono capaci di mobilitarsi in fretta, mentre gli stati europei reagiscono in ordine sparso.

Da dove vengono fuori tutti questi soldi per salvare le banche, quando da anni i governi ripetono che le casse sono vuote quando si tratta di finanziare programmi sociali?

Ci hanno sempre presi in giro quando ci hanno detto che le casse erano vuote. È semplicemente un modo per resistere a domande di spesa. Ma le casse non sono mai vuote, perché le casse dello stato sono le tasche dei cittadini. Lo stato può sempre ricorrerre alle tasse e le casse non saranno vuote fino a quando non lo saranno le tasche dei cittadini. Oggi, i piani per le banche non sono però spesa corrente, ma investimenti. In parole povere, gli stati tirano fuori miliardi per comprare titoli e banche che valgono poco. Ma tra 4 o 5 anni, questi titoli e queste banche potranno avere un valore considerevole. Sono possibili anche buoni affari. È esattamente quanto è avvenuto in Corea, che aveva reagito alla crisi asiatica del '98-'99 nazionalizzando il sistema bancario. Cinque anni dopo ha rivenduto facendo profitti considerevoli. In altri termini, questo tipo di investimento ha forti potenzialità, mentre non fare nulla fa correre il rischio di un crollo dell'economia e di un impoverimento generalizzato.

Oggi l'intervento pubblico e domani la corsa riprenderà come prima? Non ci sarà nessun cambiamento di fondo del sistema?

Per il momento bisogna agire, in fretta. In caso contrario andiamo dritti verso la catastrofe. Dopo si dovrà riflettere su come migliorare la regolamentazione. Ma non ci facciamo illusioni: sappiamo che tra 20 anni una crisi simile si riprodurrà. Le crisi finanziarie sono nel genoma del sistema capitalistico.