sabato 25 aprile 2009

Il "divide et impera" in pieno atto in Iran


L'ondata destabilizzatrice all'interno dell'Iran sta proseguendo il suo corso.

Almeno 10 agenti delle forze di sicurezza iraniane sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco avvenuto la scorsa notte con miliziani armati in una provincia occidentale del Paese, lungo il confine con l'Iraq, abitata da popolazioni curde.


Lo riferisce l'agenzia iraniana Isna, aggiungendo anche che dieci ''banditi armati'' sono rimasti uccisi.

Secondo l'iraniana Press Tv uomini armati, membri del separatista Partito per un Vita Libera del Kurdistan (PJAK), hanno attaccato una stazione di polizia nella città di Ravansar, nella provincia di Kermanshah.


In un altro scontro a fuoco avvenuto invece stamattina, uomini armati hanno attaccato un’altra stazione di polizia nei sobborghi di Sanandaj, nella provincia di Kordestan, uccidendo un poliziotto e ferendone altri 4.


Intato oggi l'ayatollah Ali Khamenei ha accusato gli Stati Uniti di essere coinvolti nei due attentati suicidi avvenuti in Iraq giovedì e venerdì, in cui sono rimasti uccisi decine di pellegrini iraniani che si recavano ai luoghi santi sciiti.


In seguito a ciò Teheran ha annunciato oggi la chiusura di uno dei valichi di confine con l'Iraq, quello di Khosravi, a nord-est di Baghdad, considerato insicuro per i pellegrini iraniani.


A pochi mesi dalle elezioni presidenziali iraniane si prevede un'escalation di questi "misteriosi" scontri a fuoco miranti a destabilizzare il regime degli ayatollah.




Terrorismo e destabilizzazione in Iran: quello che i media non dicono

di Alessandro Iacobellis – Arianna Editrice – 24 Aprile 2009


La notizia è arrivata sottovoce in Italia, oscurata dal consueto terrorismo mediatico sui progressi del progetto nucleare persiano. Eppure, come vedremo, ha una sua rilevanza, soprattutto se inquadrata nel contesto generale della situazione interna iraniana.


In data 10 aprile è avvenuta l’esecuzione tramite impiccagione dei tre responsabili accusati dell’attentato dinamitardo avvenuto il 12 aprile dello scorso anno in una moschea della città meridionale di Shiraz (capoluogo della provincia di Fars e sesta città dell’Iran per popolazione). I morti nell’attentato terroristico furono 12 e i feriti oltre 200.


La matrice, al solito, nebulosa: in un primo momento i portavoce delle forze di sicurezza parlarono di un incidente, avvenuto in seguito alla deflagrazione di munizioni esposte per una mostra commemorativa della guerra Iran-Iraq. Successivamente, accertata la natura dolosa dell’atto, furono accusati gli estremisti islamici sunniti (la moschea era ovviamente sciita, branca dell’Islam predominante in Iran), in particolare quelli legati alla setta wahabita. L’unica rivendicazione ufficiale di cui si è avuta notizia ci rimanda però a tutt’altro campo: un oscuro e misconosciuto gruppo di nostalgici della monarchia e dello Scià, i Soldati della Monarchia dell’Iran (in lingua farsi gli “Anjoman-e Padeshahi-e Iran”).


E’ però singolare il fatto che nel mese di maggio, nelle settimane immediatamente successive all’attentato, il Ministro degli Interni Pour-Mohammadi parlò di responsabili dell’attacco arrestati prima di sferrare altri assalti a Qom (città santa per gli sciiti, e strategica per gli equilibri politici interni della Repubblica islamica) e contro il Consolato russo a Rasht. Particolari che, se autentici, confermerebbero una chiara visione geopolitica quale ispiratrice di questi misteriosi attentatori: attaccare proprio un Consolato russo, con l’intento di minare la partnership tra la Russia e l’Iran, accordo di rilevanza strategica nei progetti di Teheran per il nucleare civile. A ciò seguirono accuse circostanziate di un altro ministro, stavolta quello dell’Intelligence, Gholam Hossein Mohseni-Ejehei, che incolpò apertamente statunitensi e britanniche di complicità con i bombaroli.


(1) L’attentato di Shiraz, con i suoi misteri, le sue ombre, le sue connivenze inconfessabili, ben si ricollega più in generale ad un tema di cui noi, nel “libero” Occidente, sappiamo ben poco: la piaga del terrorismo in Iran. Presentatoci continuamente a tinte fosche come sponsor di terrorismo, nessuno ci dice, infatti, che l’Iran è sconvolto da anni al suo interno da questo fenomeno, sia prima sia dopo i fatti di Shiraz. Fra il giugno 2005 e il marzo 2006, ad esempio, Ahvaz e i suoi sobborghi furono scossi da una serie di attentati dinamitardi, che costarono la vita complessivamente a 28 persone e il ferimento di circa 225. Attacchi anche in questo caso dal valore politico e strategico.


Si consideri in primo luogo che la provincia di cui si sta parlando è il Khuzestan, nell’ovest del Paese, confinante con l’Iraq, che gli Iraniani considerano storicamente quale luogo d’origine della loro nazione e della stirpe persiana già in epoca pre-islamica, terra di frontiera con i vicini e rivali Arabi, che più volte hanno loro conteso, nel corso dei secoli, il controllo della regione.


L’ultimo tentativo fu di Saddam Hussein che, durante il conflitto del 1980-’88, invase la provincia, riuscendo ad impadronirsene per una buona metà, con l’occupazione (cui seguì la vittoriosa liberazione da parte iraniana) della città di Khorramshahr. Conclusivo, “piccolo” particolare è il valore strategico ed economico della regione, ricca di petrolio ed importante polo industriale.


Ebbene, anche in questo caso, la matrice politica non è mai stata chiarita: si parlava della frastagliata galassia dei gruppi separatisti arabi attivi nell’area che spesso, però, dopo una prima rivendicazione negavano il tutto; anche in questo caso, il governo iraniano non perdeva tempo nell’addossare la colpa alle forze occupanti del vicino Iraq, soprattutto ai Britannici stanziati nel Sud. Ma non finisce qui.


Il mosaico si arricchisce di un altro drammatico tassello, che risale al 14 febbraio 2007. Ne è teatro la città di Zahedan, nella provincia del Sistan-Belucistan, regione storicamente turbolenta situata ai confini con Pakistan e Afghanistan. Di primo mattino, una potente autobomba colpisce in pieno un bus carico di militanti Pasdaran. Il bilancio è pesantissimo: 18 morti (11 secondo altre fonti) e 31 feriti, tutti esponenti della Guardia Rivoluzionaria.


Seguiranno, nei giorni immediatamente successivi, ripetuti rastrellamenti alla ricerca dei colpevoli, fuggiti poco prima dell’esplosione, con l’arresto di diversi sospetti, alcuni dei quali verranno riconosciuti colpevoli dell’attacco e condannati a morte. Almeno in questo caso i responsabili parrebbero avere un nome e un’agenda politica conosciuta: il gruppo terroristico Jundallah, che combatte per il separatismo dei Beluci, minoranza di origine pakistana di confessione sunnita, apertamente nemica del governo degli ayatollah.


Un particolare da non omettere è che la regione è utilizzata come corridoio per le considerevoli quantità di oppiacei provenienti dal vicino Afghanistan, attraverso cui si inonda il mercato interno iraniano e che causa una vera e propria emergenza sociale, con un’incidenza elevatissima di tossicodipendenza fra i giovani iraniani.


Anche in questo caso le autorità iraniane volgeranno il loro sguardo anche all’estero, accusando di complicità tanto gli Usa quanto il vicino Pakistan. In effetti, Jundallah ha sempre avuto rapporti ambigui con gli statunitensi, tanto che lo stesso Seymour Hersh ha parlato di un vero e proprio addestramento ricevuto dai guerriglieri, il cui leader riconosciuto è Abdolmalek Rigi.


(2) Il gruppo è tuttora probabilmente il più pericoloso fra tutti quelli attivi nella Repubblica islamica: l’ultima azione di una certa eco risale solamente al 25 gennaio di quest’anno, quando 12 poliziotti, la cui unica colpa era di rappresentare l’autorità del governo centrale in Belucistan, sono stati rapiti ed uccisi dai terroristi.

A questo punto, inizia a delinearsi meglio lo scenario: applicare la tattica del “divide et impera” in Iran, per colpirlo dall’interno, fomentandone le minoranze etniche, eccitando separatismi, rivalità religiose e sentimenti indipendentisti.


In un Paese tradizionalmente multietnico, accendere i separatismi di Arabi, Beluci, Azeri e Armeni (principali minoranze), oltre ai Curdi, immancabili quando si tratta di destabilizzare una nazione mediorientale. Nel Kurdistan iraniano agisce infatti il PJAK (Partito per una Vita Libera in Kurdistan), gemello del PKK di Ocalan, a noi noto per una rocambolesca parentesi italiana di qualche anno fa. Anche nel caso di quest’organizzazione, il supporto logistico americano (e, si dice, anche israeliano) è più di un sospetto, tanto che nell’agosto 2007 il leader del gruppo, Haji Ahmadi, ha visitato Washington, stabilendo contatti di basso livello con rappresentanti governativi.


(3) I militanti, inoltre, conducono le loro operazioni partendo da basi sicure nel nord dell’Iraq sotto tutela statunitense… tanto che le forze armate iraniane non hanno esitato in più di un’occasione a colpire con l’artiglieria le zone oltre confine (come la Turchia, del resto). A questo complesso quadro si aggiunge un altro elemento, storico punto di riferimento per l’opposizione iraniana: i MEK (Mujaheddin del Popolo dell’Iran), con il loro braccio politico, il Consiglio nazionale della Resistenza iraniana.


Già oppositori del regime dello Scià, i MEK furono rapidamente liquidati dopo la Rivoluzione del ’79, e da allora si sono legati a tutti i nemici degli ayatollah, compreso l’Iraq di Saddam, che per le loro azioni sotto copertura assegnò loro come quartier generale Campo Ashraf, presso Baquba, il cui destino è a tutt’oggi punto di controversia tra Iraq, Iran e Stati Uniti. I MEK, ribattezzati polemicamente in patria “munafiqun” (più o meno, “ipocriti”) rinunciarono formalmente alla lotta armata nel 2001.


Grazie a questa mossa, questo gruppo (la cui ideologia è più o meno riconducibile ad un islamo-marxismo) è riuscito a guadagnare credito sia presso l’Unione Europea che presso il governo statunitense. La sedicente presidentessa della Resistenza iraniana, Maryam Rajavi (moglie di Massoud, fondatore dei MEK, a dimostrazione di un familismo quantomeno anomalo dell’organizzazione…) è per questo spesso ospite dei salotti buoni di Bruxelles e della politica occidentale.


(4) Al di là delle controversie sul programma nucleare, delle tensioni relative all’influenza politica in Iraq e del possibile ruolo di stabilizzazione in Afghanistan, i rapporti tra Iran e Usa si giocheranno inevitabilmente anche sui rapporti tra Washington e i gruppi armati che operano entro i confini iraniani. La strategia “del bastone e della carota” inaugurata da Obama con il messaggio di auguri in occasione del Nowruz, il Capodanno persiano, non potrà prescindere da una presa di posizione anche in questo senso. E senza dubbio le risposte di Teheran non potranno non tenere conto della strada che deciderà di intraprendere il neo-presidente americano anche su questi temi.


Note:


(1) Vedi articolo apparso su Russia Today il 14 maggio 2008. http://www.russiatoday.ru/news/news/24751.


(2) Hersh ha scritto diversi articoli sul New Yorker relativi alla questione dei gruppi armati in Iran e del supporto fornito loro da Washington. Secondo sue fonti, l’amministrazione Bush avrebbe addirittura investito circa 400 milioni di dollari in operazioni coperte dentro i confini iraniani, spesso destinati ad organizzazioni terroristiche per minare dall’interno il governo iraniano. Si consultino a tal proposito l’articolo del 7 luglio 2008 “Preparing the Battlefield” (“Preparare il campo di battaglia”), http://www.newyorker.com/reporting/2008/07/07/080707fa_fact_hersh?printable=true, e l’intervista del celebre giornalista investigativo visionabile all’indirizzo http://www.npr.org/templates/player/mediaPlayer.html?action=1&t=1&islist=false&id=92025860&m=92028303.


(3) Vedi articolo del Washington Times del 4 agosto 2007.


(4) I MEK sono stati inseriti dal Congresso Usa nella lista delle organizzazioni terroriste nel 1997, probabilmente come gesto di buona volontà nei confronti dell’allora Presidente dell’Iran Khatami, esponente dell’ala riformista. Nonostante tre appelli e le proteste di diversi politici (soprattutto repubblicani) il loro status non è stato cambiato, anche se i rapporti restano ambigui, soprattutto per quanto concerne la base di Ashraf in Iraq, e per avere presumibilmente fornito a Washington rapporti segreti sullo sviluppo del programma nucleare di Teheran. Per quanto riguarda l’Unione Europea, invece, il 29 gennaio 2009 il Consiglio dei Ministri dell’UE ha deciso di rimuovere dopo sette anni i MEK dalla lista dei gruppi terroristi.