Oggi a Baghdad almeno 60 persone sono morte in un duplice attentato suicida vicino alla tomba dell'imam Mousa al-Kazim, uno dei più importanti santuari sciiti della città nel quartiere di Al-Kadhmiya, e oltre 100 sono i feriti.
L'esplosione di un'autobomba ha invece causato un morto e tre feriti - tutti militari iracheni - nella provincia di Diyala, nel villaggio di al-Shaikhi a circa 80 km a nord-est di Baghdad.
Ieri invece c'erano state 96 vittime. A Muqdadiya, un'ottantina di chilometri da Baghdad, un kamikaze si era fatto esplodere in un ristorante con centinaia di pellegrini iraniani diretti ai luoghi santi sciiti di Najaf e Kerbala. Decine i feriti.
Mentre poco prima c'era stato un altro attentato suicida a Baghdad, dove sembra che una donna si fosse fatta espodere nel centro della città tra un gruppo di poliziotti che distribuiva aiuti umanitari a famiglie di sfollati.
Il 20 Aprile un attentatore suicida, con indosso un'uniforme da poliziotto, si era fatto esplodere a un posto di blocco nella città di Baquba, a nord di Baghdad, uccidendo almeno quattro soldati USA, sette poliziotti iracheni e tre civili.
Nello stesso giorno, a Falluja, una bomba era stata fatta espodere nei pressi dell'abitazione di un capitano dell'esercito mentre si recava al lavoro. L'uomo era rimasto illeso ma nell'esplosione avevano perso la vita due bambini.
Mentre solo 4 giorni prima un altro attentatore suicida, sempre con un'uniforme da poliziotto, si era fatto esplodere in una base militare dell'esercito iracheno nel distrezzo di Al Habbaniya (provincia di Al Anbar) durante i festeggiamenti delle reclute per la fine del corso di addestramento. Bilancio: 19 morti e 50 feriti.
Sembra quindi di nuovo rinsaldata l'unione tra tutti i gruppi sunniti - Stato islamico iracheno, Ansar al-Sunna, milizie dei Consigli del Risveglio, appoggiati anche dai gruppi armati provenienti dall'ex partito Baath- contro il governo di al-Maliki e le truppe americane.
Va sottolineato che il governo iracheno avrebbe dovuto riassorbire le milizie del Risveglio nelle forze armate nazionali, ma non ha mantenuto la promessa. Inoltre le stesse milizie da almeno due mesi non ricevevano più gli stipendi.
Un'impennata di violenza a soli due mesi dal preannunciato ritiro delle truppe USA dalle principali città irachene che con ogni probabilità verrà posposto.
E la guerra continua.
Iraq, gli attacchi probabilmente aumenteranno, dice il Pentagono
di www.osservatorioiraq.it - 23 Aprile 2009
Gli attacchi degli insorti in Iraq probabilmente aumenteranno con l'inizio del ritiro delle forze Usa, ma non ci sono piani per rinviare questo ritiro.
Lo ha detto ieri il più alto funzionario del Pentagono con competenza per il Medio Oriente. In una intervista con la Associated Press nel suo ufficio, Colin Kahl, il vice assistente Segretario alla Difesa, ha spiegato che la situazione viene monitorata, e continuerà a esserlo, in vista del calendario per il ritiro stabilito dal presidente Barack Obama.
Per quanto riguarda la sicurezza, nonostante gli attentati che negli ultimi tempi hanno ripreso a insanguinare l'Iraq (oggi ci sono stati almeno 76 morti in due attacchi suicidi, a Baghdad e a Ba'aquba, capitale della provincia di Diyala), Kahl sostiene che la situazione è "migliorata in modo impressionante" negli ultimi due anni, e la violenza confessionale che faceva temere lo scoppio di una guerra civile è improbabile che riemerga.
Ad ogni modo, il funzionario statunitense ha sottolineato che qualunque decisione finale su un eventuale rinvio del ritiro delle truppe Usa verrà presa dal governo di Baghdad – che dovrà farne richiesta specifica. Le stesse affermazioni fatte di recente dal generale Raymond Odierno, comandante supremo delle truppe Usa in Iraq, che aveva detto che a decidere sarà il premier Nuri al Maliki.
In base al cosiddetto "accordo di sicurezza" firmato a fine 2008 da Maliki e dall'allora presidente Usa George W. Bush, dopo mesi di difficili negoziati, i militari americani dovrebbero ritirarsi da tutte le città e i centri abitati dell'Iraq entro il 30 giugno, e lasciare completamente il Paese entro fine 2011.
A fine febbraio, il presidente Obama aveva annunciato che il grosso delle truppe da combattimento se ne andrà entro agosto 2010, lasciando una "forza residua" di 35.000-50.000 uomini.
Kahl, che prima di arrivare al Pentagono, è stato uno dei più ascoltati consulenti per la politica estera della campagna presidenziale di Obama, ieri ha detto che l'amministrazione Usa sta monitorando la situazione della sicurezza in Iraq per valutare l'eventuale necessità di modificare la consistenza numerica delle truppe, nel caso in cui la violenza dovesse aumentare in modo notevole nel corso dei prossimi due anni.
I militari americani in Iraq sono attualmente circa 140.000. Il loro numero dovrebbe scendere a circa 128.000 entro settembre. Per quest'anno non si prevedono ulteriori riduzioni, perché incombono le elezioni politiche, che dovrebbero tenersi in dicembre o ai primi del 2010 – una scadenza considerata particolarmente delicata
Per il momento, fra i comandanti militari Usa si parla con una certa insistenza di riconsiderare la data del ritiro del 30 giugno almeno in due città: Mosul e Ba'aquba, capitali rispettivamente delle province di Ninive e Diyala – zone dove la situazione non è assolutamente sotto controllo, e i livelli di violenza rimangono elevati.
Nessuna fine in vista
di Salah Hemeid Al Ahram Weekly - 9/15 aprile 2009
Traduzione a cura di Medarabnews
Lo scorso 9 aprile ha segnato il sesto anniversario dell’inizio dell’occupazione americana dell’Iraq. I giorni che hanno immediatamente preceduto questo anniversario sono stati caratterizzati da brutali episodi di violenza nel Paese. Tali episodi hanno messo in evidenza come l’Iraq sia un Paese tutt’altro che pacificato, che rischia di scivolare nuovamente nella spirale della violenza e della guerra civile non appena la riduzione delle truppe americane in Iraq si farà consistente – afferma il giornalista Salah Hemeid.
Fino a poche settimane fa, gli iracheni speravano ancora che il sesto anniversario della fine del regime di Saddam Hussein avrebbe portato delle buone notizie per la loro nazione assediata, soprattutto in termini di riconciliazione nazionale, pace, e stabilità. Purtroppo i suoni e le immagini di un Iraq in guerra sono, come sempre, in evidenza.
Bombe, imboscate, e rapimenti sono ferocemente tornati a Baghdad e in altre città irachene, dopo che si era assistito a un calo negli ultimi mesi, mettendo in discussione ciò che viene sostenuto dal Primo Ministro Nuri al-Maliki, spalleggiato dai responsabili americani, e cioè che l’Iraq sarebbe finalmente tornato alla normalità.
Questa settimana centinaia di persone sono state uccise e ferite in una serie di attentati che hanno colpito mercati e altri affollati luoghi di incontro, avvenimenti – questi – che contraddicono il quadro roseo che sia Baghdad che Washington tentano di dipingere. L’Iraq resta un Paese in preda alla violenza settaria.
Oggi in tutto il Paese gli iracheni hanno festeggiato l’anniversario in modo molto modesto, anche se forse con un po’ di quello “shock e timore” (in inglese “shock and awe”, il nome attribuito dalle forze armate americane all’operazione di invasione dell’Iraq nel 2003 (N.d.T.) ) che l’ex presidente Bush ha così brutalmente cercato di inculcare nella popolazione quando sei anni fa ha dichiarato guerra. In effetti, la guerra è stata uno shock per le coscienze, e una fonte di amarezza e indignazione collettiva nel momento in cui la nazione si ritrova ad osservare quanto è cambiata dopo sei anni di invasione americana, uccisioni settarie, e paura.
Preceduto dalla dichiarazione del presidente americano Barak Obama relativamente al ritiro delle truppe americane entro il prossimo anno, l’anniversario di quest’anno giunge in un momento decisivo per il futuro dell’Iraq. La relazione esistente tra questa dichiarazione e l’aumento della violenza appare molto chiara. Già ci si aspettava che il ritiro delle truppe americane dall’Iraq facesse aumentare la tensione nel Paese, creando un vuoto di sicurezza che i gruppi in lotta cercheranno di colmare.
Nelle ultime settimane i Consigli del Risveglio – i gruppi armati sunniti istituiti dagli americani – si sono disgregati, e alcuni dei loro membri sono tornati tra le file dei ribelli. E’ proprio questo processo di frammentazione che si pensa stia dietro gli attentati che hanno colpito i quartieri sciiti di Baghdad questa settimana. Mentre i gruppi affermano che il governo ha omesso di pagarli e ha tardato a inserirli nelle forze di sicurezza, il governo sostiene che nei consigli si sono infiltrati ba'athisti e membri di al-Qaeda che pianificano di destabilizzare il Paese.
Indipendentemente dalle ragioni che stanno dietro la nuova escalation, i recenti combattimenti sottolineano il fatto che i profitti della tanto decantata sicurezza erano inconsistenti e che la situazione politica rimane instabile. E diventerà ancora più complicata quando gli americani inizieranno a mettere in atto quelle misure che consentiranno una riduzione del numero di truppe di stanza in Iraq.
Le fazioni rivali del Paese devono ancora risolvere il conflitto per il potere e per la spartizione della ricchezza, e ogni sforzo di riconciliazione dovrà superare una serie di esigenze e obiettivi contrastanti.
Un problema fondamentale è che la riconciliazione nazionale continua a essere ostacolata dal perseguimento di programmi etnico-settari, locali, e regionali. Gli ultimi sei anni dimostrano chiaramente che la politica e la violenza sono le due facce della stessa medaglia. Per risolvere una delle due si deve risolvere l’altra. L’escalation di violenza a cui si è recentemente assistito rappresenta una chiara manifestazione dei punti di contrasto che continuano a esistere in Iraq tra gruppi religiosi ed etnici che competono per il potere, l’influenza, e le risorse.
Una delle dispute chiave riguarda le elezioni parlamentari previste per la fine dell’anno. Ci si aspetta che siano oggetto di una feroce contesa non solo tra gruppi diversi ma anche all’interno di determinate comunità.
La situazione diventa ancora più cupa considerato il modo in cui i vicini dell’Iraq competono per poter esercitare la loro influenza. L’Iraq confina con l’Arabia Saudita, l’Iran, la Giordania, il Kuwait, e la Turchia, e molti di questi Paesi stanno manovrando per poter avere voce in capitolo sui futuri orientamenti del Paese. Il loro appoggio alle varie fazioni interne in Iraq continua a rappresentare una sfida importante per le prospettive di stabilità e indipendenza politica del Paese. Alcuni dei Paesi confinanti con l’Iraq ospitano, preparano, finanziano, armano, e guidano gruppi in opposizione al governo iracheno. Con l’avvicinarsi del ritiro americano, ci si aspetta che i vicini dell’Iraq cercheranno di aumentare la loro influenza.
Poiché la situazione di stallo politico continua, appare inevitabile che altro sangue verrà versato, sebbene l’amministrazione Obama sembri determinata a tacere a proposito del percorso sanguinoso verso cui l’Iraq sta scivolando. Per l’attuale Amministrazione, l’anniversario della caduta di Saddam – acclamata dal suo predecessore come ciò che ha liberato gli iracheni da una brutale dittatura – non è da festeggiarsi. Il presidente Obama e la sua Amministrazione hanno ignorato l’occasione persino quando le esplosioni laceravano la capitale uccidendo decine di persone. Questa settimana, la breve visita di Obama a Baghdad è stata motivata più dalla volontà di far mostra della propria celebrità e di evidenziare l’accoglienza che avrebbe ricevuto dai soldati americani, che non dalla volontà di tentare seriamente di affrontare i problemi dell’Iraq. Gli Stati Uniti non hanno un ambasciatore in Iraq da quando Ryan Crocker lasciò Baghdad il 13 febbraio, un chiaro segno che Washington non avverte alcuna urgenza di risolvere la situazione in via di deterioramento.
L’anniversario potrebbe servire a ricordare agli iracheni la necessità di porre fine al dramma politico della loro nazione e – cosa altrettanto importante – che la soluzione alla loro crisi nazionale è nelle loro mani. Gli iracheni devono agire in modo responsabile e velocemente per scacciare l’impressione che stiano perdendo un’altra opportunità per giungere alla riconciliazione nazionale. Se qualcosa di positivo la carneficina di questa settimana ha portato, potrebbe essere il fatto che il senso di paura a cui molti iracheni hanno dato voce colpirà i politici, i quali finalmente realizzeranno la portata dei pericoli a cui l’Iraq deve far fronte.
Salah Hemeid è corrispondente dall’Iraq per il settimanale egiziano al-Ahram Weekly
Kirkuk, una proposta per sperare
di Naoki Tomasini - Peacereporter - 23 Aprile 2009
Oggi l'inviato delle Nazioni Unite a Baghdad, Staffan De Mistura, ha presentato al presidente iracheno Talabani e al premier Al Maliki un piano Onu per agevolare la soluzione della contesa sulla città petrolifera di Kirkuk, nel nord del Paese.
Kirkuk si trova ai confini della regione del Kurdistan iracheno ed è abitata in maggioranza da curdi, ma anche da arabi e turcomanni. La provincia di Kirkuk, sotto la quale giacciono immense riserve di petrolio non sfruttate, è contesa da decenni dai diversi gruppi che vi risiedono, un conflitto che ha rischiato di esplodere dopo la caduta di Saddam. Tra il 2003 e il 2006 la città è stata teatro di scontri e attentati, ma poi la situazione si è normalizzata quando il governo di Baghdad è riuscito a fare sedere attorno al tavolo del Consiglio Provinciale tutte le parti in causa. Lo scorso gennaio, per evitare l'esplosione di pericolose tensioni, il governo di Baghdad ha deciso di non tenere le elezioni amministrative nella provincia, il cui statuto resta appeso a un accordo politico che ancora non c'è, e a un futuro referendum che solo i curdi sembrano volere.
Il piano Onu è un progetto non vincolante, che suggerisce ai governanti di Baghdad e del Kurdistan iracheno quattro scenari per risolvere la contesa sulla città. Nel dettaglio, le proposte non sono state rese pubbliche. Si sa però che Kirkuk viene sempre considerata come un'unica e indivisibile provincia, e che potrebbe avere uno statuto speciale che riconosca il diritto di supervisione sia al governo centrale che a quello regionale curdo. La proposta Onu giunge proprio mentre gli Stati Uniti si preparano a ritirare le truppe dal Paese, truppe che nella provincia erano state raddoppiate dall'inizio del 2009. La scorsa settimana un attentato contro le installazioni petrolifere della città ha causato la morte di 11 agenti del ministero del Petrolio, mentre, lo scorso dicembre, un attentatore suicida aveva ucciso 55 persone in un ristorante della città.
Fonti delle Nazioni Unite riferiscono che le reazioni del presidente Talabani e del premier Al Maliki sono state “generalmente positive”. Se verrà applicato con successo - aggiungono - potrebbe diventare un modello per risolvere anche le altre contese territoriali, come quelle nelle provincie di Mosul e Dyala.
La lunga attesa per il petrolio di Baghdad
di Ornella Sangiovanni - Osservatorio Iraq - 23 Aprile 2009
Il ministro delle Risorse naturali del Governo regionale del Kurdistan (KRG), Ashti Hawrami, va all’attacco del suo omologo iracheno, Hussein al Sharistani, e delle autorità di Baghdad, criticandone la politica petrolifera, dopo le informazioni secondo cui il primo round di gare d’appalto, che si sarebbe dovuto concludere entro giugno, potrebbe subire un ritardo.
In un comunicato dai toni decisamente poco diplomatici diffuso ieri, Hawrami ha accusato il governo centrale di agire “in modo incostituzionale e illegale” nella gestione delle risorse di petrolio e gas del Paese.
Secondo il ministro kurdo, Shahristani e i funzionari del ministero del Petrolio di Baghdad dovrebbero essere chiamati a rispondere in Parlamento delle scelte fatte fin qui, per diversi motivi, che elenca.
Innanzitutto, in assenza di una nuova legge sul petrolio e sul gas, il governo centrale – si legge nel comunicato - sta utilizzando ancora le leggi in vigore all’epoca di Saddam Hussein, che vìolano la nuova Costituzione irachena, e quindi – a detta di Hawrami - non fornirebbero alcuna protezione ai contratti che le compagnie dovessero firmare con il ministero iracheno del Petrolio.
In secondo luogo, anche se il ricorso alle leggi dei tempi di Saddam fosse giustificato, i contratti offerti dal ministero non sarebbero tuttavia validi senza una ratifica del Parlamento, come previsto dalla legge no. 97 del 1967.
In terzo luogo, qualsiasi negoziato o round di gare d’appalto gestito dalle autorità di Baghdad è incostituzionale, dato che vìola l’articolo 112 della Costituzione, che richiederebbe, secondo il ministro kurdo, la partecipazione attiva dei governatorati produttori di petrolio interessati e del KRG.
Non basta? Due dei giacimenti compresi in uno dei due round di gare d’appalto annunciati finora dal governo centrale si trovano nei cosiddetti “territori contesi” – zone che il KRG rivendica come proprie, anche se attualmente sono al di fuori della zona autonoma kurda – e quindi il ministero del Petrolio non può assegnare legalmente i contratti, perché, secondo Hawrami, questo vìolerebbe la legge sul petrolio e sul gas approvata dalla regione del Kurdistan nell’agosto 2007.
Nel concludere, il ministro kurdo non usa mezzi termini: dopo 3 anni sprecati, il ministero del Petrolio di Baghdad rinunci “a questi tentativi improduttivi e incerti”, smetta di deludere gli iracheni con le sue politiche “fuorvianti e fallimentari”. Quello che invece deve fare, dice Hawrami, è “sedersi con tutte le parti interessate per preparare la legge adeguata appropriate e adottare modelli di contratto moderni per massimizzare le entrate per il Paese in conformità con la Costituzione”.
Modelli di contratto moderni - vale a dire i Production Sharing Agreement. Quelli che il KRG ha già firmato con una ventina di compagnie straniere, dopo aver approvato una propria legge regionale sul petrolio e sul gas, e che il ministro Sharistani ha ripetutamente definito "illegali", minacciando di inserire le compagnie che li hanno conclusi in una "lista nera", in modo che non possano più lavorare nel resto dell'Iraq.
Slitta il primo round di gare d’appalto?
All’origine delle ultime critiche dei kurdi nei confronti delle autorità di Baghdad c’è la notizia, riportata dall’agenzia di stampa Dow Jones, secondo la quale la conclusione del primo round di gare d’appalto per l’assegnazione di 8 giacimenti, sei di petrolio e due di gas – in origine giugno 2009 – slitterebbe a causa un ritardo nella messa a punto del modello di contratto finale.
A detta di alcuni esperti petroliferi internazionali, lo slittamento sarebbe ormai inevitabile, dato che è saltata la scadenza originaria di marzo-aprile entro la quale le compagnie interessate avrebbero dovuto presentare le loro offerte. Ora si parla di un nuovo termine, in giugno, ma questo rende pressoché impossibile rispettare i tempi previsti inizialmente per l’assegnazione dei contratti, sostengono gli esperti.
Il ministero del Petrolio aveva inviato l’ultima versione del modello di contratto alle compagnie perché potessero fare le loro osservazioni nella seconda metà di marzo; l’intenzione era di definire il testo finale fra il 15 e il 17 aprile. Evidentemente così non è stato.
Non si conoscono i motivi del ritardo. Almeno, non ufficialmente.
Secondo fonti – anonime – interne al ministero del Petrolio citate dalla Dow Jones, all’origine ci sarebbe il rinvio di un incontro tra i funzionari del Direttorato che si occupa dei contratti e delle licenze e la Gaffney, Cline & Associates Ltd. - la società internazionale di consulenza che sta non solo “assistendo” il governo di Baghdad nella messa a punto dei modelli di contratto ma gestisce in effetti il primo round di gare.
L’incontro sarebbe stato spostato dagli iracheni dagli inizi di aprile al 18 del mese, da cui lo stravolgimento del calendario previsto.
Pur senza precisare se adesso ci sia una nuova scadenza per inviare il modello di contratto definitivo alle compagnie, le fonti hanno fatto capire che è improbabile che questo avvenga prima di fine aprile.
Ma se qualcuno avesse fretta, questo qualcuno non sembrano essere le autorità di Baghdad.
Shell in trattative con compagnie cinesi per il petrolio di Kirkuk
di Osservatorio Iraq - 22 Aprile 2009
La Royal Dutch-Shell sarebbe in trattative avanzate con due società petrolifere cinesi per lavorare insieme allo sfruttamento di giacimenti petroliferi in Iraq.
La notizia, riportata in un primo tempo dalla stampa senza citare la fonte, è stata confermata in seguito, anche se in modo indiretto, da Jeroen van der Veer, amministratore delegato uscente della compagnia anglo-olandese.
“In effetti abbiamo avuto discussioni sulle gare d’appalto”, ha detto van der Veer alla Reuters da Pechino, “sicuramente le compagnie cinesi sono parte della partnership per la presentazione delle offerte”.
I partner cinesi – CNPC e Sinopec – sono due delle maggiori compagnie petrolifere di Stato.
La Sinopec, assieme alla China National Offshore Oil Corp, fa parte della trentina di società preselezionate dal ministero iracheno del Petrolio per partecipare ai round di gare d’appalto annunciati finora – due, che dovrebbero concludersi entro il 2009, con l’assegnazione dei contratti per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas.
La CNPC opera già in Iraq, avendo avuto confermato dal governo di Baghdad un contratto firmato nel 1997, ai tempi di Saddam Hussein, per il giacimento di Ahdab, nel sud.
Altri particolari sul possibile accordo dalla Shell non ne arrivano: le discussioni con i potenziali partner sono in una fase assai preliminare, si dice. In Cina, la compagnia anglo-olandese ha una joint venture con la Sinopec per la commercializzazione del carburante. Inoltre, opera il giacimento di gas di Changbei, nel nord ovest del Paese, assieme alla CNPC.
Secondo le fonti di stampa che per prime hanno parlato di un possibile accordo fra Shell e cinesi per l’Iraq, il giacimento su cui si è appuntato l’interesse sarebbe quello di Kirkuk, nel nord.
ENI, Repsol, e Nippon Oil presentano le nuove offerte per il petrolio di Nassiriya
di Osservatorio Iraq - 23 Aprile 2009
L'Eni, la giapponese Nippon Oil e la spagnola Repsol hanno presentato le nuove offerte tecniche e commerciali per lo sviluppo del giacimento petrolifero di Nassiriya, nel sud dell’Iraq.
Lo riferisce l’agenzia di stampa Dow Jones, citando come fonte Abdul Mahdi al-Amidi, vice direttore generale del Dipartimento del ministero iracheno del Petrolio che si occupa dei contratti e delle licenze.
Era stato proprio il ministero del Petrolio a chiedere alle tre compagnie petrolifere di riformulare le loro precedenti offerte, in base a "nuove richieste" avanzate dal Governo di Baghdad.
Amidi ha spiegato che ENI, Nippon Oil, e Repsol hanno "già presentato le nuove offerte, e stiamo attualmente studiando le offerte tecniche, per poi passare all'esame di quelle commerciali".
Verrà selezionata una delle tre società, e a quel punto partiranno i negoziati, in vista della firma di un accordo. Amidi non ha precisato quanto tempo ci vorrà per completare tutto il processo, prima che venga assegnato il contratto per lo sviluppo del giacimento.
Iraq, uniti nella resistenza
di Hassan Juma'a - The Guardian - 18 Aprile 2009
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it
Gli occupanti di Bassora se ne vanno sconfitti. Il nostro messaggio ai leader britannici che hanno fatto la guerra? Che liberazione!
Sei anni dopo l’ingresso a Bassora dei carri armati statunitensi e britannici, la scena è di devastazione, con il sangue degli innocenti sparso per tutta la città e la terra martoriata dell’Iraq. Non sono stati risparmiati nemmeno scuole e ospedali. Prendendo a pretesto menzogne, il più grande impero della storia ha lanciato la guerra del 2003 per occupare la Mesopotamia, infliggendo danni incalcolabili alla culla della civiltà. Si è trattato di una aggressione, istigata da una piccola minoranza di guerrafondai.
E’ mia ferma convinzione che a causare le condizioni caotiche che durano ancora oggi sono state le potenze occupanti, che hanno polverizzato gli innocenti con bombe da mezza tonnellata, uranio impoverito, e fosforo bianco. L’intervento guidato dagli Stati Uniti si è esteso al processo politico, gravando l’Iraq con leggi tese a seminare discordia varate dal governante nominato, Paul Bremer.
Nonostante la propaganda che sostiene il contrario, le forze americane e britanniche non hanno fatto nulla di positivo. A parte bombardare la gente, hanno reso possibile il saccheggio delle risorse irachene, il furto dei beni delle persone mascherato da operazioni di perquisizione, il radicamento della corruzione, la distruzione di musei e biblioteche, e la rimessa in vigore dei decreti anti-sindacali di Saddam. Ecco perché gli abitanti di Bassora e tutti gli iracheni considereranno la partenza degli invasori sconfitti la loro più grande ricorrenza. Festeggeranno consapevoli che la loro forza di volontà è più forte delle forze armate più potenti al mondo, e che le nostre strade e i nostri vicoli non sono fatti per lanciare fiori agli invasori e ai criminali di guerra.
In mezzo al dolore e alla sofferenza, c’è anche il ricordo indelebile di quei valorosi che resistettero agli aggressori a Umm Qasr, la porta meridionale di Bassora e dell’Iraq. Nonostante disponessero solo di armi assai leggere, sfidarono una potenza di fuoco schiacciante per sette giorni. Furono i nuovi martiri di una città che di martiri fra i suoi figli e le sue figlie ne aveva avuto legioni durante la tirannia di Saddam.
La loro resistenza fu il segnale inequivocabile del fatto che il popolo iracheno non avrebbe accettato supinamente l’occupazione. Ricordò agli aggressori di "colpisci e terrorizza" che l’Iraq non era la passeggiata che avevano sognato. Fu del tutto naturale per gli iracheni, che avevano combattuto a lungo contro l’oppressione di Saddam, emulare la resistenza degli abitanti di Bassora – una resistenza che ha costretto le forze britanniche ad abbandonare Bassora città e cercare riparo nelle loro basi.
La guerra contro l’Iraq è stata persa perché ha tentato l’impossibile: controllare e soffocare il desiderio di libertà di un popolo. Ha fallito totalmente – nonostante la sua potenza di fuoco e il fatto di avere alimentato il terrorismo – per seminare divisione e distruggere l’unità dell’Iraq. I progetti dell’occupazione tesi a seminare discordia sono stati ostacolati da radici più profonde di unità.
Sono convinto che cacciare gli occupanti sia il desiderio della gente – a prescindere dalla religione, dalla confessione, o dall’etnia. Che gli Stati Uniti e i loro alleati non abbiano dubbi sul fatto che gli iracheni rifiuteranno l’ingiustizia e chiameranno a render conto coloro che hanno distrutto il loro Paese e l’hanno derubato delle sue risorse. I progetti imperiali falliranno in ogni caso. Gli odiati invasori devono lasciare il nostro Paese. Siamo totalmente capaci di ricostruirlo e di farlo sviluppare.
La storia non guarderà in modo benevolo al governo britannico per avere appoggiato la guerra Usa contro l’Iraq, e tuttavia gli Stati Uniti tratteranno con disprezzo il loro alleato subalterno – il padrone cercherà senza dubbio di avere il controllo esclusivo dell’Iraq e delle sue risorse.
Chiedo a coloro che sostengono la libertà in tutto il mondo di appoggiare il popolo iracheno. E al movimento britannico contro la guerra dico grazie, ma questo è il mio messaggio finale ai guerrafondai britannici: "Che liberazione!". La maledizione delle vostre vittime irachene vi accompagnerà sempre, perché avete ucciso gente innocente e torturato prigionieri. Andate nella pattumiera della storia, e non dimenticate mai l’eroica Bassora e la grande lotta del popolo iracheno.
Hassan Juma'a è presidente della Federazione dei lavoratori del petrolio iracheni, che ha sede a Bassora.