lunedì 20 aprile 2009

Crisi economica: idee confuse sul futuro

Ieri Tremonti era tutto entusiasta mentre dichiarava "E' finita. E' finita la paura di un crollo epocale delle borse, di un'apocalisse dell'economia. Insomma, l'incubo degli incubi è passato. Negli Stati Uniti nessuno più pensa a un fallimento globale perchè sono intervenuti i governi e lo stesso è accaduto nell'Est europo e nell'Est asiatico. La paura di un crollo delle borse e della finanza mi sembra finita e la gente ha tirato un respiro di sollievo. Guardiamo al futuro con qualche speranza".

Gli fa eco oggi
la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia "La crisi economica è forse arrivata al fondo e da luglio potrebbe esserci qualche inversione di tendenza. L'impressione è che sia a livello mondiale sia italiano ci siano alcuni segnali che il peggio l'abbiamo visto: non c'è più la caduta continua degli ordini e del fatturato. Il problema adesso è capire in quanto tempo torneremo alla crescita e probabilmente avremo ancora qualche mese difficile. Il nostro Centro studi ritiene che nella seconda parte dell'anno, da luglio, ci possa essere qualche inversione di tendenza".

Con i piedi per terra rimane invece il numero uno dell'Ocse Angel Gurria che oggi ha dichiarato "Il 2009 sarà un anno duro, l'economia mondiale non ha ancora toccato il fondo e la ripresa si comincerà a vedere solo alla fine del 2010. I pacchetti di stimolo dei governi cominciano a mostrare i loro frutti, anche se potrebbero essere necessari altri aiuti per far ripartire l'economia globale, ma si cominciano a vedere alcuni deboli segnali positivi", anche se per l'OCSE l'economia mondiale subirà quest'anno una contrazione del 4,3%.

D'altronde lo stesso Obama ieri aveva chiaramente detto che "Non siamo fuori dal tunnel. Per l'economia si prospettano ancora tempi difficili. Il credito continua a non fluire".

Un'insieme di dichiarazioni contrastanti tra loro, a conferma del fatto che a tutt'oggi nessuno ha la minima idea di quello che accadrà con certezza nei prossimi mesi.

Qui di seguito si cerca di capire meglio cosa ci aspetta.



GEAB 34 Parte I - La grande fuga della Cina dal dollaro
di Felice Capretta -
Informazione Scorretta - 19 Aprile 2009

Ed eccoci di nuovo agli affezionati lettori con l'appuntamento mensile con il GEAB Report di Europe2020. Se non sapete di chi stiamo parlando, potete approfondire a questo post dedicato a quanto durerà la crisi economica.

Il GEAB 34 si articola in tre parti: una prima parte dedicata alla grande fuga della Cina dalla trappola del dollaro, una seconda parte dedicata al default del debito americano, una terza sul prezzo dell'oro e suggerimenti finanziari.

In questo post traduciamo ampi stralci della prima parte: la fuga della Cina dal dollaro.

La parola agli esperti di Europe2020.

ESTATE 2009: IL CROLLO DEL SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE E' IN ARRIVO

La prossima fase della crisi sarà il risultato di un sogno cinese.

In effetti, cosa mai potrebbe sognare la Cina, catturata - a sentire Washington - nella trappola del dollaro dei suoi 1400 miliardi di titoli di debito denominati in dollari?

Se ascoltiamo i leader americani e le loro schiere di esperti dei media, la Cina sogna solo di restare prigioniera, ed anche di intensificare la durezza della sua condizione di prigionia acquistando sempre più T-Bond (titoli del debito americano) e dollari.

In realtà, tutti sanno cosa sognano i prigionieri, no?
Sognano di fuggire, naturalmente: di uscire dalla prigione.

LEAP/Europe2020 quindi non dubita (e non dubitiamo neanche noi, NDFC) che Pechino sta ora costantemente cercando di trovare i modi di liberarsi, prima possibile, della montagna di asset "tossici" che sono ora diventati i T-Bond e i dollari. [...]

In qualsiasi racconto di una fuga, i prigionieri non passano il loro tempo annunciando che si stanno preparando ad andarsene. In realtà, al contrario, tendono ad evitare di sollecitare la vigilanza delle loro guardie.

Secondo il team LEAP/Europe2020, la dichiarazione cinese del 24 Marzo, che chiedeva la sostituzione del dollaro con una valuta di riserva internazione, era sia un "saggiare il terreno" sia un avvertimento: un sondaggio per valutare le forze in campo (in particolare all'interno del G20) quando si tratta di spostarsi nell'era post-dollaro, ed un avvertimento costruttivo o distruttivo (in funzione della reazione all'idea precedente) inviato ai vari protagonisti globali.

Un giocatore responsabile (e Pechino è uno di questi) deve inviare segnali silenziosi agli altri giocatori che potrebbero seguirli o aiutarli a pianificare il lavoro (per la definizione di Gioco e Giocatore si veda questo nostro post sul GEAB precedente, NDFC) .

La preparazione e l'implementazione di una Grande Fuga richiede la collaborazione di molti partner, e nessuno di quelli che sarebbero stati disponibili a collaborare deve finire nei guai perchè non è stato informato.

In ogni caso, grazie alla saggiatura del terreno da parte della Banca Centrale Cinese, le autorità cinesi hanno la conferma dei seguenti punti:

1. Una buona fetta degli altri membri del G20 è chiaramente favorevole ad un passaggio rapido all'era post-dollaro, in particolare Russia, India, Sudafrica, Argentina, Brasile… dunque Pechino non sara sola quando avverrà il grande salto. [...]
I recenti accordi swap chiusi con alcune di queste nazioni sta già mostrando la via in questa direzione. (si veda l'interessante articolo "L'Argentina tradisce il dollaro" sugli accordi cinesi con Argentina ed altri paesi, NDFC)

2. USA e UK hanno rifiutato di considerare qualsiasi mossa nella direzione dell'era post-dollaro. [...]

3. L'Europa (eccetto UK) non è in grado di prendere nessuna decisione veramente ferma riguardo al suo vecchio protettore, gli USA.

4. Pechino si sta dedicando ad annunci sempre più chiari e netti, sempre in modo graduale, a volte anche seguiti da vaghe smentite, provenienti da fonti meno importanti, ma che circolano ampiamente e rapidamente grazie ai media finanziari. Sta dunque aumentando la sua libertà di espressione senza danneggiare particolarmente il valore dei T-bonds (i titoli del debito americano) o del dollaro.

Quest'ultimo aspetto è effettivamente la necessità assoluta del governo cinese: evitare in qualunque modo un crollo del valore dei T-Bond e del dollaro prima che sia fuggita dalla trappola del dollaro.

LEAP/Europe2020 ritiene che, nei prossimi mesi, la Cina rivelerà l'esatto significato di queste esigenze; un fine o una necessità?

Se si tratta di un fine, allora Washington, Londra e i media internazionali della finanza hanno ragione: Pechino seguirà i passi di Washington, cercando di aumentare la sua influenza nelle decisioni americani.

Se è una necessità, allora il nostro team ha ragione e i leader cinesi si daranno da fare per vendere i loro T-bond ed i loro dollari al miglior valore possibile, scegliendo il miglior prezzo possibile, evitando di generare scompensi volti a ridurre il valore di questi beni più a lungo possibile.

Tuttavia, in contrasto con la prima opzione, una volta che tutte le possibilità sono finite, i leader cinesi improvvisamente contribuiranno al termine dell'era dollaro, o, più probabilmente, annunceranno seraficamente che, a causa di un insieme di cause di forza maggiore, non potranno più continuare a giocare il ruolo degli stabilizzatori degli squilibri americani.

[...]

Dalla fine del 2008, il governo cinese ha iniziato a disfarsi di 50-100 miliardi di beni denominati in dollari ogni mese. Approfittando dei prezzi bassi (da record) in un ampio insieme di beni utili all'economia cinese (minerali, energia, azioni europee o asietiche - non americane, questo non è un dettaglio irrilevante), Pechino ha fatto shopping coerentemente con il suo primo bisogno: fare il meglio possibile con i suoi beni denominati in dollari, cioè scambiarli con beni non americani.

(NDFC: si vedano questi articoli a riguardo: crediti in Asia, via libera per 400 imprese cinesi a concludere affari in Asia in Yuan, petrolio e oleodotto russo in Cina in cambio di dollari, e molti altri).

[...]

Entro la fine dell'estate del 2009, la Cina si sarà liberata di circa 600 miliardi di beni denominati in dollari, ed avra' evitato di acquistare tra 500 e 1000 miliardi di titoli del debito americano che l'amministrazione Obama avrà emesso per finanziare i suoi stravaganti prestiti.

Il disfarsi dei beni in dollari e i mancati acquisti di T-bond da parte cinese rappresenteranno una mancanza tra 1100 miliardi e 1600 miliardi di dollari di (servire ai) bisogni finanziari americani.

Ben Bernanke sarà costretto a stampare dollari in un (vano) tentativo di prevenire il default della sua nazione. Sapendo che ogni volta che Bernanke dichiara che la Fed acquisterà i suoi stessi Buoni del Tesoro, questi perdono il 10% in un giorno, i leader cinesi troveranno sicuramente accettabile il sacrificio di 400-500 miliardi di dollari.

LEAP/Europe2020 ritiene che, a quel punto, riterranno che hanno fatto il miglior uso possibile dei beni denominati in dollari.

Quindi, preferiranno essere tra coloro che premono il bottone - o tra quelli che non cercheranno di evitarlo.

La seconda fase della Grande Fuga della Cina dal dollaro inizierà, in funzione del comportamento degli altri protagonisti principali.

O lo Yuan prenderà il suo posto come valuta di riserva internazionale insieme all'Euro, allo Yen, al Rublo, al Real, oppure inizierà un processo di creazione di una nuova valuta di riserva internazionale basata su un paniere di monete.

Il dollaro sarà fuori dai giochi e il G20 sarà ridotto ad un G18 (senza USA e UK, ma con un Giappone non più in grado di sfuggire alla sfera di influenza cinese).

Diversamente, inizierà il processo di dislocazione geopolitica globale, descritta nel GEAB n. 32 (e nella nostra traduzione, NDFC), basato su blocchi economici, ognuno di loro a scambiare beni nella sua specifica moneta di riserva.

Si conclude qui la prima parte del report.
A breve la seconda parte, con un interessante focus sul default degli USA.



Le borse? Lasciamole perdere, teniamo d'occhio le materie prime
di Mauro Bottarelli - www.ilsusssidiario.net - 17 Aprile 2009

Guardo i listini di Borsa e mi pongo delle domande. A metà della giornata di contrattazioni le piazze europee nella seduta del 16 aprile correvano trainate da Nokia e dai titoli bancari: Ubs guadagna il 5 per cento, Deutsche Bank e Credit Suisse il 4,6, Barclays e Unicredit il 3,5 per cento. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Fine del sogno. I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità calata ai minimi da mesi - l’indice Vix è sceso a 38 dopo aver toccato anche 75 - pompano entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo.

Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi - e quindi dover rendere conto delle loro operazioni - e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di procedura di infrazione presso le varie centrali rischi che dopo novanta giorno intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa è folle, le piazze oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve: l’economia reale, invece, affonda giorno dopo giorno.

Ma volendo volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner.

La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo ora, in questi giorni. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi il prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi.

Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio.

Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiale rari come il titanio, l’indio – utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia - , il rodio – fondamentale per i convertitori catalitici – e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame in febbraio, 375mila in marzo. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento a 4.925 dollari la tonnellata quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.

Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisse – come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard – lo strapotere del dollaro e prevenisse gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e ovviamente si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense.

Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo possibile manipolazione valutarie, garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio e permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire.

Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.




Da Pechino un segnale di fiducia, al via mega collocamento azionario
di Federico Rampini - La Repubblica - 20 Aprile 2009

La Cina lancia quello che potrebbe essere il più grosso collocamento azionario dell'anno, e un potente segnale di normalizzazione della fiducia sui mercati finanziari (in caso di successo, ovviamente). Si tratta della prima quotazione in Borsa del colosso Zhong Wang, uno dei leader mondiali nei prodotti in alluminio. I dirigenti dell'azienda partono oggi per i primi roadshow internazionali, cominciando dalle piazze finanziarie asiatiche.

Con l'offerta pubblica di sottoscrizione Zhong Wang punta a raccogliere 1,6 miliardi di dollari Usa. Il collocamento avverrà alla Borsa di Hong Kong dove la società verrà quotata. E' un test cruciale per saggiare la disponibilità dei mercati ad assorbire nuove emissioni azionarie di un volume elevato. La fiducia dei dirigenti cinesi è corroborata dal fatto che le Borse di Hong Kong e Shanghai hanno messo a segno le migliori performance mondiali dall'inizio dell'anno. Zhong Wang offre in vendita 1,4 miliardi di azioni pari al 26% del suo capitale. La forchetta iniziale di prezzo si situa tra 6,80 e 8,80 dollari di Hong Kong. Il debutto in Borsa è previsto per l'8 maggio. Si tratta del più grande collocamento azionario mondiale dall'inizio del 2009. Quanto alla Cina, l'ultimo collocamento di questa dimensione fu quello dell'impresa ferroviaria China South Locomotive per 1,6 miliardi di dollari nell'agosto 2008.

Se si allarga lo sguardo ad altre piazze finanziarie ben più sviluppate, colpisce invece la prudenza: a Wall Street dall'inizio dell'anno il collocamento più grosso è stato di soli 828 milioni (la Mead Johnson, un produttore di alimenti per neonati).

La fiducia dei dirigenti di Zhong Wang - e delle autorità cinesi che ne hanno autorizzato l'offerta pubblica - deriva anche dalla convinzione che l'azienda è ben piazzata per cogliere le opportunità della manovra di sostegno alla crescita. Zhong Wang ha una gamma di prodotti che spaziano dagli infissi di alluminio per l'edilizia fino alla componentistica per materiale ferroviario: tutti settori che godranno dei nuovi investimenti pubblici in infrastrutture. Il governo di Pechino ha già varato nel novembre scorso una manovra di spesa pubblica di 585 miliardi di dollari (anche se non tutti saranno stanziamenti nuovi).

I dirigenti del governo sono fiduciosi che la crescita economica cinese, dopo essere rallentata al 6,1% nel primo trimestre 2009 (il tasso più basso dal 1992), sia già in ripresa e possa raggiungere l'8% a fine anno. La fiducia dei leader politici sembra condivisa dagli investitori: l'indice azionario di Shanghai ha guadagnato quasi il 40% quest'anno, quello di Hong Kong oltre il 30%.

Forti della ritrovata fiducia, i responsabili delle finanze cinesi tornano ad affacciarsi in Europa, pronti a investire sul Vecchio continente una parte delle risorse valutarie accumulate dalla Repubblica Popolare con i suoi attivi commerciali. Lou Jiwei, che dirige il fondo sovrano China Investment Corp, ha detto di essere interessato a compiere delle acquisizioni in Europa. Nel biennio scorso alcuni governi europei avevano posto dei veti contro la penetrazione di capitali cinesi. Lou Jiwei oggi può togliersi la soddisfazione di "ringraziarli". "Quei dirigenti europei mi hanno fatto risparmiare un sacco di soldi" ha dichiarato. In effetti se i cinesi avessero investito in Europa nel 2007 e 2008, il crollo delle Borse avrebbe ridotto il valore delle loro partecipazioni com'è accaduto nel caso delle quote azionarie che comprarono in America (Morgan Stanley e Blackstone).


Miracolo di San Giulio
di Massimo Giannini - La Repubblica - 20 Aprile 2009

La crisi è finita, andate in pace. Dopo averci nutrito per mesi con citazioni bibliche, dal Leviatano all'Ecclesiaste, il ministro dell'Economia ora ci avverte che "la paura dell'Apocalisse è passata". Ce ne rallegriamo. Ma non ci crediamo. Se l'orizzonte è il pianeta Terra, non possiamo non vedere che qualche fioco barlume comincia ad accendersi.

In America l'incubo del collasso della finanza, e in definitiva dell'intero modello turbo-capitalistico dell'ultimo ventennio, sembra scongiurato. I clamorosi profitti di bilancio macinati dalle grandi banche d'affari, cuore pulsante del sistema, dimostrano ancora una volta che il capitalismo uccide e rigenera le sue cellule con velocità sorprendente.

In Cina gli investimenti fissi urbani sono cresciuti del 30%, e Pechino scommette su una crescita dell'8%. In India settori come la siderurgia e il cemento, dopo mesi di calma piatta, mostrano picchi di risveglio. In Russia la produzione industriale a marzo è cresciuta dell'11,1%, e il ministro delle Finanze Kudrin ipotizza una piena ripresa già nel quarto trimestre. Persino in Europa qualcosa si muove: l'indice Euro-Coin che stima la differenza tra la produzione attuale e le aspettative delle imprese tre mesi prima inizia a stabilizzarsi, mentre l'Indice Baltico che registra le variazioni del prezzo di trasporto via mare delle merci, crollato sotto quota 1.000 a dicembre, avvia ora una lenta risalita. Ma com'era sbagliato lasciarsi travolgere dal catastrofismo sei mesi fa, sarebbe altrettanto sbagliato lasciarsi coinvolgere dal trionfalismo oggi.

Il realismo di Barack Obama è un valido antidoto: insieme alla paura, che resta, si affaccia qualche speranza. Ma come dice il presidente americano, non siamo affatto usciti dal tunnel, i tempi restano molto difficili, il credito continua a non fluire.Se poi dal villaggio globale restringiamo l'orizzonte alla piccola Italia, al netto della straordinaria rinascita della Fiat, c'è purtroppo più di una ragione che suggerisce ancora un po' di sano pessimismo. Come dice Tremonti, nessuno pensa più a un crollo globale della finanza. Questo è sicuramente un bene nell'ottica della psico-patologia della crisi, perché in questa grande tempesta perfetta la prima virtù che è andata sommersa è stata la fiducia.

Ma il dramma, per il nostro Paese, riguarda solo marginalmente, e di riflesso, l'economia finanziaria. Il vero nodo è l'economia reale. E' la recessione e la deflazione, che in Italia mordono più che altrove. Il Prodotto lordo, secondo Ue e Ocse, quest'anno segnerà un meno 4,3%. La produzione industriale a febbraio ha ceduto di schianto, meno 8,1%, il livello più basso dal dopoguerra. La disoccupazione è tornata a salire oltre il 7%, dopo anni di discesa. I consumi rallentano, il reddito diminuisce. E la produttività continua a calare, mentre i Paesi forti di Eurolandia allungano il passo.

Questo è il quadro a tinte fosche dell'economia italiana. E non bastano le pennellate ottimistiche di Berlusconi e Tremonti a ravvivarne i colori. La crisi come opportunità: l'abbiamo scritto più volte. E invece è proprio questo che è mancato e che manca, nell'azione del governo di questi mesi. Un grande progetto. Non solo per sopravvivere in negativo dentro questa palude, fidando nel solito stellone italiano. Ma per uscirne in positivo, confidando nelle risorse migliori, con un Paese diverso, più forte e più moderno.

Per fronteggiare la crisi, il contributo delle manovre di bilancio finora è stato pari al 4,8% del Pil negli Stati Uniti, al 3,4% in Germania, all'1,4% in Francia e solo allo 0,3% in Italia. Fa piacere, adesso, sentire che il ministro dell'Economia, di fronte alla tragedia del terremoto in Abruzzo che ci costerà 1 punto e mezzo di Prodotto lordo nei prossimi dieci anni, dichiara che non c'è bisogno di introdurre nuove tasse per la ricostruzione, perché "le risorse pubbliche bastano e avanzano". Ma se è così, vorremmo sapere dove erano in questi mesi, quando sarebbero servite come il pane. O c'erano già, ma le ha tenute nascoste. O le ha trovate oggi e ha fatto un miracolo.



La crisi nel 2009 e il crollo del 2010
di Humayun Gahuar - The Nation - 16 Aprile 2009

Molti analisti americani sostengono che il crollo definitivo dell’ economia americana potrebbe avere luogo alla fine di quest’ anno e sará ricordato come il crollo del 2009, ritengono gli esperti. Altri ancora, tra cui un esperto in scienze politiche russo, prevedono la stessa situazione. L’ America è senza dubbio in condizioni disperate, ma ció che piú lascia perplessi è la continua tendenza da parte degli stessi Stati Uniti a negare seccamente la gravitá della situazione ed a peggiorare le cose attraverso inutili piani di salvataggio e conflitti col resto del mondo, invece di affrontare la realtá che vuole la fine dell’ America come superpotenza, in conseguenza del fallimento del sistema economico. A questo punto sarebbe auspicabile che la nazione ponesse fine alle guerre (peraltro perse) col minor danno e massimo onore possibile. Non c’è nessuna ragione per perseverare in una linea politica che non vede vie d’ uscita. la cosa piú sensata per la sopravvivenza consiste nel delineare una nuova morale politica economica e finanziaria.

La profonda recessione che rasenta la depressione economica, di cui siamo stati testimoni fino ad ora, è causata dal crac del mercato immobiliare degli USA. Dal momento che altre nazioni industrializzate, specialmente in Europa, hanno tentato di imitare i sotterfugi dei dissoluti banchieri e finanzieri americani, il crollo dei sistemi economici, compresi i mercati e le banche delle suddette nazioni è stata la conseguenza piú immediata. L’ Islanda è stata la prima nazione a dichiarare bancarotta; il suo Prodotto Interno Lordo gravita intorno ai 6.5 miliardi di dollari, ma le banche hanno preso in prestito qualcosa come 65 miliardi di dollari, mentre i manager continuavano per la loro strada per inerzia. La Gran Bretagna, al contrario, non ha dichiarato bancarotta ufficialmente, ma tutti sanno che effettivamente di bancarotta si tratta in quanto sia le banche che le istituzioni finanziarie sono a terra.

In ogni caso questo è soltanto l’ inizio; per l’ autunno di quest’ anno gli esperti prevedono il crollo degli immobili commerciali per gli USA: i negozi chiudono e non c’è nessuno che li voglia prendere in affitto. Le aziende stanno riducendo al massimo le spese e sgombrando molti uffici, o chiudono definitivamente i battenti. Altissimi grattacieli stanno diventando edifici fantasma. Tutti questi beni immobiliari vengono ipotecati al limite, ma senza la prospettiva di entrate i prestiti risultano inefficaci, con le conseguenti temutissime perdite. Qui si tratta di assicurazione e riassicurazione, e le cifre di cui si parla sono da capogiro. È pressoché impossibile progettare un piano che si avvicini anche di poco alla risoluzione del problema.

Col crollo del settore immobiliare si scatenerá l’ inferno, e se multinazionali come la General Motors e la Ford decideranno di chiudere i battenti, non si tratterá solamente di migliaia di migliaia di disoccupati ( anche se in questo caso l’ uso della parola ‘solamente’ puó sembrare privo di tatto). Due interi centri diventeranno centri fantasma. La situazione é terribile, ma se si conta il numero di mogli, bambini e genitori che dipendono da quelle rendite, è piú che terribile: diventa una situazione inimmaginabile. Tutto questo mentre corrotti e avidi banchieri della Bernie Madoff continuano a guadagnare miliardi (o forse milioni di miliardi) di dollari perché cosi sta scritto nei loro contratti.

Per di piú c’è addirittura il professor Igor Nikolavich Panarin che in un articolo del dicembre 2008 di Andrew Osborne del Wall Street Journal, non l’ ultimo dei furfanti quindi, sostiene che l’ anno prossimo sará ricordato come l’ anno del crollo, per cui gli USA saranno spaccati in sei entitá separate. Sempre secondo il professor Panarin, queste saranno costituite dalla Repubblica della California, la Repubblica dell’ America del Centro Nord, l’ America Atlantica e la Repubblica del Texas, mentre le Hawaii e l’ Alaska torneranno nelle mani della Russia.

Con i milioni di cinesi che vivono nella costa occidentale* (dove il numero giornaliero di persone che vi circolano è di oltre 5 milioni), la California sará, sempre secondo Panarin, sotto il controllo della Cina, mentre la Repubblica dell’ America Centro Nord fará parte del Canada, o comunque sará fortemente influenzata da quest’ ultima. L’ America Atlantica potrebbe essere annessa all’ Unione Europea, il Texas potrebbe far parte del Messico e le Hawaii potrebbero diventare parte della Cina o del Giappone.

Il professor Panarin è stato un esperto del KGB nonché professore in scienze politiche in Russia, decano dell’ Accademia Diplomatica del Ministero degli Esteri a Mosca e autore di diversi libri di geopolitica. Non si puó quindi dire che sia un inetto. In realtá aveva previsto questa situazione prima del tracollo economico iniziato l’ anno scorso, precisamente a Linz in Austria, nel settembre del 1998, davanti a 400 delegati, durante una conferenza sull’ utilizzo in guerra delle informazioni per ottenere vantaggi sul nemico. I presenti alla conferenza rimasero costernati; come lo stesso Panarin riferisce, vedendo sullo schermo la mappa degli Stati Uniti frammentata, centinaia di persone tra il pubblico rimasero alquanto sorprese. Piú tardi molti dei delegati gli chiesero di firmare copie della mappa. Il quadro è lo stesso di quando il dottore in scienze politiche Emmanuel Todd in 1976 fece la previsione del crollo dell’ Unione Sovietica 15 anni prima che il fatto avesse luogo, previsione che al tempo provocó le risa di molti.

Panarin non dice che la sua sia una conclusione inevitabile, ma soltanto che al momento c’è un 55-45 per cento di possibilitá che la disintegrazione si verifichi. Se effettivamente avrá luogo, sará caratterizzata da tre fattori; immigrazione di massa e declino economico e morale potrebbero scatenare una guerra civile e il crollo del dollaro giá il prossimo autunno. Intorno alla fine del giugno 2010, o i primi di luglio, gli USA saranno divisi in sei parti e si prevede una crisi politica e sociale provocata dalla situazione economica, finanziaria e demografica.

Quando la situazione tenderá a degenerare, sostiene Panarin, gli stati piú ricchi rifiuteranno i fondi da parte del governo federale e ci sará la secessione: sommosse e infine la guerra civile saranno le conseguenze di tutto ció. Gli USA si divideranno per substrati etnici e ci sará la prevaricazione all’ interno del territorio da parte di poteri extranazionali. Tutto quello che i pachistani devono fare a quel punto è aspettare un pó finché l’ America non cesserá di impicciarsi nei loro affari, mentre il consigliere del generale Petraeus, David kilcullen, ritiene che il Pakistan potrebbe cadere nel giro di pochi mesi.

Non è facile concepire il crollo di un impero o di una superpotenza. Quando i suoi organi vitali vengono corrosi da termiti nel corso degli anni i risultati si vedono a lungo termine, soprattutto se la gente è asservita al potere e sfoggio di ricchezza da parte di chi governa. Quando il crollo arriva è dunque subitaneo e coglie la gente di sorpresa. ‘’Sono andato a dormire la notte scorsa e la mattina dopo al risveglio l’ Unione Sovietica non esisteva piú’’; nemmeno la piú potente macchina da guerra mai costruita ha potuto salvare quella nazione. Ricordate l’ impero britannico, su cui ‘’il sole non sarebbe mai potuto tramontare’’? Al contrario, il sole è decisamente tramontato, e soltanto 60 anni dopo la Gran Bretagna non solo è in bancarotta, ma è anche un supplemento degli USA: un potere di terz’ ordine che a sua volta potrebbe presto disintegrarsi con la secessione della Scozia. La storia è segnata dal crollo delle civiltá, imperi e superpotenze; le ossa delle quali pullulano nei mausolei nazionali.

Parte delle affermazioni del professor Panarin è supportata dal fatto che l’ amministrazione Bush ha approvato piani per l’ imposizione della corte marziale in caso di crollo economico o rivolte sociali che comportino l’ uso delle armi. Le previsioni di Panarin sembrano non solo plausibili, ma anche probabili se, come peraltro è risultato fino ad ora, questo scenario di decadenza diventerá reale. Stando a quanto dice Rand Clifford, gli USA hanno giá creato piani per recludere i cittadini ribelli in campi chiamati ‘’Rex 84’’, e servizi d’ emergenza per i membri del parlamento e le loro famiglie.

In un comunicato del Phoenix Business Journal si dice:’’ Un comunicato dell’ esercito americano ed il War College parla della possibilitá di utilizzare le truppe statunitensi in caso di rivolte civili date dalla crisi economica, come nel caso di proteste contro le imprese ed il governo, oppure di corsa alle banche assediate. L’ articolo del giornale riporta le parole del War College:’’violenza di massa negli USA da parte dei cittadini costringerebbe la difesa a rivedere le prioritá al fine di garantire l’ ordine interno e la sicurezza delle persone’’. Bisogna peró dire che l’ esercito studia regolarmente piani da attuare in caso di situazioni estreme, pur risultando queste inverosimili.

L’ ultima parola a Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter e sostenitore di Obama:’’gli Stati Uniti stanno per avere milioni di disoccupati che dovranno affrontare difficoltá estreme, e questa situazione dovrebbe durare per un bel po’ di tempo, con la speranza che le cose prima o poi migliorino. Nello stesso tempo l’ opinione pubblica è consapevole che una parte considerevole di ricchezza è stata messa a disposizione di pochi, a livelli che non hanno precedenti nella storia degli USA: rivolte civili sono proprio verosimili’’.