venerdì 10 aprile 2009

Iraq, riprende la violenza

Nei giorni scorsi sono ricomparse a Baghdad le autobombe, con un bilancio di circa 40 morti e più di 100 feriti, all'indomani del passaggio di consegne tra il governo USA e quello di Baghdad per il controllo delle milizie tribali sunnite, i Consigli del Risveglio o milizie Sahwa.
92.000 uomini circa che hanno contribuito in modo determinante alla riduzione della violenza nel Paese, alleandosi (ben stipendiati) con gli USA nel 2007 contro i miliziani islamici legati alla fantomatica Al Qaeda.

Ora però in seguito all'arresto, ordinato dal governo iracheno, di uno dei leader dei Consigli del Risveglio, la situazione sembra essersi rovesciata di nuovo. E le prime avvisaglie di ciò si sono avute alla fine di marzo con i combattimenti durati due giorni a Baghdad tra esercito governativo, supportato da aerei USA, e miliziani sunniti Sahwa, e le successive autobombe dei giorni scorsi.

L'Iraq è quindi tutt'altro che pacificato e le prossime settimane diranno se la lotta intestina per il potere, mascherata da conflitto interconfessionale, prenderà ancora una volta il sopravvento sulla volontà del popolo iracheno di volgere le spalle alla guerra e guardare avanti.



Iraq, torna la guerra civile?

di Naoki Tomasini - Peacereporter - 8 Aprile 2009

Alla fine di febbraio 2009, il capo un capo delle milizie tribali della provincia sunnita di al Anbar, sheikh Hamid al Hayes, sosteneva che la partenza dei soldati Usa "non influenzerà affatto la sicurezza. Non temiamo il ritorno della violenza, abbiamo il controllo di ogni centimetro del territorio".

L'annunciata dipartita dell'esercito Usa, che dovrebbe concludersi entro la fine di agosto del 2010, potrebbe rimettere in moto la spirale della violenza settaria tra sunniti e sciiti. In particolare tra il governo sciita del premier Al Maliki e le milizie tribali sunnite, note come Majalis al Sahwa o Consigli del Risveglio. Queste ultime, da quando si allearono con gli Usa alla fine del 2007, hanno dato un grande contribuito alla riduzione della violenza nel paese, pagando anche un altro prezzo di vite nella guerra quotidiana contro i miliziani di Al Qaeda, che cercavano di infiltrarsi nelle zone da loro controllate. A due mesi dalle sue precedenti dichiarazioni, lo stesso sheikh Hamid al Hayes ammette che “le milizie sono state infiltrate da Al Qaeda. Sta per iniziare una guerra civile”.

Sono circa 92mila i miliziani sunniti che fanno parte delle milizie Sahwa. Fino a qualche mese fa erano stipendiati e armati dall'esercito statunitense ma, dall'ottobre dell'anno scorso, il loro controllo è stato gradualmente trasferito al ministero dell'Interno di Baghdad. Il passaggio di consegne si è concluso lo scorso due aprile, ma da subito si è capito che nessuna delle parti era davvero intenzionata a rispettare il copione auspicato dal Pentagono. Il governo di Baghdad aveva promesso di assorbire il 20percento dei miliziani tribali entro le forze di sicurezza nazionali, e di trovare per gli altri un impiego statale. Fin'ora, però, la promessa non è stata mantenuta. I miliziani sunniti non ricevono lo stipendio da almeno due mesi, cosa che ha probabilmente spinto parte di loro a rivolgersi altrove, imbarcandosi in attività criminali, oppure intrattenendo rapporti con i nemici di ieri: le milizie di Al Qaeda.

Il primo segnale in questo senso si è visto alla fine di marzo, quando la forze di sicurezza irachene hanno arrestato Adel Mashhaddani, uno dei leader delle milizie Sahwa, nel quartiere Fadhl di Baghdad. L'arresto provocò una vera e propria battaglia tra agenti e miliziani, che si protrasse per oltre due giorni causando la morte di due civili e il ferimento di 15 persone. Mashhaddani era accusato di omicidi e estorsioni, secondo il Pentagono sulla sua testa pendevano ottanta mandati di arresto. Non tutti però sono convinti di queste accuse. I miliziani sunniti ritengono di essere oggetto di una campagna diffamatoria orchestrata del governo sciita per non mantenere gli impegni presi. Si sentono usati e abbandonati.

Il primo aprile durante una conferenza stampa, il numero due dell'esercito Usa, generale Lloyd Austin, ha riconosciuto il ruolo determinante delle milizie Sahwa nella riduzione della violenza, e si è detto fiducioso “che il governo manterrà l'impegno di aiutare le persone che hanno aiutato l'Iraq”. É noto da alcuni mesi che il crollo del prezzo del greggio sta causando grossi problemi al governo iracheno, che non dispone più del fiume di contanti con cui poteva stipendiare milioni di dipendenti pubblici assicurandosene la fedeltà. La resistenza del ministero dell'Interno verso l'inclusione delle milizie tribali, però, non si spiega solo con le difficoltà economiche. Secondo il ministro dell'Interno iracheno Jawad al Bolani, almeno il venti percento delle milizie Sahwa sono “spie degli insorti”.

Anche lo stesso premier Al Maliki, lo scorso 3 aprile, ha dichiarato che “I nostri rapporti di intelligence confermano che i baathisti e Al Qaeda hanno infiltrato le milizie Sahwa”. Da mesi il governo a maggioranza sciita manda segnali di sfiducia verso le milizie sunnite, ma da quando il Comando Usa ha passato le consegne al governo iracheno gli episodi che confermerebbero questa sfiducia si sono moltiplicati. Resta dunque da capire fino a che punto le accuse siano strumentali, oppure, fino a che punto la carenza di prospettive abbia davvero spinto i miliziani sunniti verso al Qaeda.

Secondo il Comando Usa, dopo gli scontri di Baghdad le forze di sicurezza irachene hanno arrestato 28 persone, metà delle quali sono state subito rilasciate. Altri 10 miliziani sunniti sono stati arrestati in seguito nella zona di Dora, con l'accusa di terrorismo. Tra gli arrestati c'era anche il comandante locale Mohammad al Garthani, che racconta: “mi accusavano di terrorismo, omicidi, rapimenti e attentati esplosivi. Durante le indagini si è scoperto che le accuse erano false e provenivano da una persona ricercata. Il giudice ha capito la situazione e mi ha rilasciato immediatamente”.

Lo scorso tre aprile, un attacco aereo Usa ha ucciso quattro miliziani dei Consigli del Risveglio a Taiji. Secondo un comunicato dell'esercito stavano piantando una bomba. Martedì 7 aprile sei autobombe sono esplose in diverse zone di Baghdad causando la morte di 37 persone. Non accadeva da mesi, ma nella capitale irachena in pochi pensano che sia un caso.



Iraq, Decine di migliaia in piazza contro l’occupazione sei anni dopo la caduta di Baghdad
da www.osservatorioiraq.it - 9 Aprile 2009

Non erano un milione, ma decine di migliaia sì. Raccogliendo l’appello di Muqtada al Sadr, sono scesi in piazza oggi a Baghdad contro l’occupazione dell’Iraq, nel sesto anniversario della caduta della capitale irachena in seguito all’invasione guidata dagli Usa.

Sei anni fa: era il 9 aprile 2003. Oggi folle di dimostranti hanno sfilato lungo le strade che portano a Piazza Firdaus, consegnata alla storia come il luogo nel quale l’enorme statua in bronzo di Saddam Hussein venne abbattuta – con l’aiuto dei Marines – poco dopo l’ingresso delle truppe statunitensi in città.

Molti dei manifestanti urlavano: "No, no all’America, sì, sì all’Iraq"; altri portavano cartelli con foto del leader sciita, diventato un simbolo della resistenza all’occupazione.

Nel luogo in cui un tempo si ergeva la statua di Saddam, è stata bruciata una immagine a due teste, che raffigurava sia il deposto raìs iracheno (successivamente processato e poi giustiziato dall’attuale governo di Baghdad guidato dal premier Nuri al Maliki) che l’ex presidente Usa George W. Bush. A terra era stata stesa una enorme bandiera americana, in modo che la folla potesse calpestarla, in un gesto specifico di disprezzo.

Fin qui gli atteggiamenti di rito. Tuttavia, il messaggio letto dal portavoce di Sadr, Salah al-Obeidi, e rivolto al nuovo presidente Usa Barack Obama, aveva toni conciliatori: "Chiediamo al presidente Obama di appoggiare il popolo iracheno e lavorare perché le truppe americane se ne vadano".

Ovunque, in mezzo alle migliaia di manifestanti che riempivano le strade, i colori rosso, bianco, e nero: quelli della bandiera irachena.

Sui muri di cemento anti-esplosione che ormai sono diventati caratteristica del panorama di Baghdad, manifesti che raffiguravano il leader sciita. Poi ancora striscioni: “Occupanti, andatevene”.

Parecchi dei dimostranti erano venuti da fuori, dal sud, e si erano accampati per la notte, o avevano dormito nelle moschee della capitale irachena.

“Sono arrivato ieri con circa 500 dei miei amici per manifestare contro l’occupazione e chiedere che finisca, e per invitare all’unità del popolo iracheno”, diceva Raad Saghir, 28 anni, che vive a Kut, nel sud-est del Paese.

Ammar Mahdi, un altro dei manifestanti, 23enne, raccontava di aver fatto 8 chilometri a piedi per unirsi al corteo, per chiedere “il ritiro immediato dei soldati Usa che hanno portato distruzione all’Iraq invece della libertà".

Obeidi, il portavoce di Sadr, ha detto che i toni del messaggio sono un’apertura verso il nuovo presidente Usa, che aveva criticato l’invasione dell’Iraq nel 2003, e ha promesso di ritirare le truppe entro il 2011 – come del resto prevede il cosiddetto “accordo di sicurezza” firmato da Washington e Baghdad a fine 2008.

Assad al-Nassiri, un altro collaboratore del leader sciita, ha detto alla folla che Obama deve "stare dalla parte del popolo iracheno" e porre fine alla presenza militare Usa in Iraq “per realizzare le promesse che ha fatto al mondo".




Iraq, Gli Usa affondano sempre più nella lotta tra sunniti e sciiti
di Gareth Porter -
Asia Times Online - 3 Aprile 2009
Traduzione di Mauro Sacco per www.osservatorioiraq.it

Quando i soldati statunitensi e gli elicotteri Apache si sono uniti alle forze irachene per reprimere una sollevazione da parte dei ‘Figli dell’Iraq’ sunniti nel centro di Baghdad lo scorso weekend, ciò ha rappresentato un'anteprima del tipo di conflitto che le forze armate Usa probabilmente si troveranno sempre più di fronte nei prossimi tre anni, a meno che non venga presa una decisione politica a Washington volta a evitare tale situazione.

Nonostante l’arresto di un leader sunnita del "Consiglio del risveglio" e di sette dei suoi vice, che ha scatenato la rivolta, sia stato fatto passare sia dal Primo Ministro Nuri al-Maliki che dal comando statunitense come un’operazione antiterrorismo piuttosto che per repressione confessionale, si è trattato in effetti di una fase della lotta a lungo termine per il potere tra il governo iracheno dominato dagli sciiti e i sunniti, che sono stati politicamente emerginati.

La battaglia di Fadhil di domenica scorsa ha rappresentato un segnale di avvertimento del fatto che il comando Usa si è fatto trascinare dentro una campagna da parte di Maliki per togliere di mezzo alcuni comandanti dei gruppi che garantivano la sicurezza del quartiere sunnita, composti da ex-insorti. L'arresto di un popolare comandante sunnita potrebbe aver scatenato un processo in cui una larga parte del movimento sunnita dei "Consigli del risveglio", che dovrebbe essere sul libro paga del governo, è ritornata a combattere nelle fila della rivolta clandestina.

La sollevazione di Fadhil rappresenta la prima volta in cui unità dei "Consigli del risveglio" hanno reagito con la forza a una campagna repressiva da parte del governo rivolta nello specifico contro alcuni leader della milizia sunnita, iniziata già nella primavera del 2008.

Nonostante gli sforzi che gli Usa starebbero facendo per rassicurare i sunniti che non li si sta abbandonando nelle mani della repressione del governo sciita, l'operazione condotta con l'appoggio statunitense contro i miliziani sunniti che protestavano contro l’arresto di Adel al-Mashhadani nel quartiere di Fadhil ha già fatto sì che alcuni comandanti delle milizie sunnite di altri quartieri abbiano minacciato di tornare alla resistenza armata.

Alcuni esperti di affari militari iracheni dicono che, dato il modo in cui gli Stati Uniti definiscono attualmente la loro missione in Iraq, è probabile che le forze Usa vengano coinvolte direttamente in altre operazioni di questo tipo contro i miliziani sunniti.

I "Consigli del risveglio", o Sahwa, che i funzionari delle forze armate statunitensi hanno chiamato generalmente ‘Figli dell’Iraq’, sono stati creati nel 2007 attraverso accordi raggiunti dalle Forze Multinazionali in Iraq con i capi tribali sunniti e alcuni comandanti dei gruppi della resistenza armata, sulla base dei quali ex-insorti sunniti sono diventati membri pagati delle forze di sicurezza locali nei quartieri di Baghdad, così come nella vicina provincia di Diyala e nella provincia a maggioranza sunnita di al Anbar.

Tuttavia Maliki non ha mai nascosto la sua ostilità nei confronti dello schema Usa di creare unità sunnite di sicurezza di quartiere. “Queste persone sono come un cancro, e dobbiamo rimuoverle”; così avrebbe detto l'estate scorsa un generale iracheno citato da Shawn Brimley e Colin Kahl, del Center for New American Security.

Le unità dell’esercito iracheno e le forze speciali controllate direttamente da Maliki hanno cominciato ad arrestare i leader dei ‘Figli dell’Iraq’ a Diyala e a Baghdad, e gli arresti sono continuati per tutto l’autunno.

Nonostante fosse palese che Maliki aveva intenzione di distruggerli, lo scorso ottobre gli Stati Uniti hanno accettato di trasferire il controllo di tutti i 90mila membri dei "Consigli del Risveglio" agli iracheni. Il governo ha concordato, a sua volta, di continuare a pagare le forze di sicurezza di quartiere sunnite 300 dollari al mese.

Tuttavia, i pagamenti sono stati bloccati più di un mese fa – uno sviluppo che i funzionari Usa hanno attribuito a un piccolo inconveniente burocratico piuttosto che a una politica deliberata.

John McCreary, un analista dell’intelligence in pensione esperto di Medio Oriente, ha detto in un’intervista che l'arresto e la successiva battaglia di Fadhil “è solo il primo round” di una nuova fase della campagna di Maliki volta a eliminare i "Consigli del risveglio", considerati come una potenziale minaccia al suo regime, prima che le truppe Usa completino il loro ritiro nel 2011.

“Deve neutralizzare i suoi nemici finché ci sono ancora gli americani che lo aiutano a mantenere il potere”, dice McCreary.

Maliki ha intelligentemente sfruttato la partnership tra le forze armate Usa e l'esercito iracheno per coinvolgere gli Stati Uniti in questa campagna. Una delle caratteristiche di tale relazione consiste nel fatto che il comando militare statunitense è molto riluttante a essere separato operativamente o politicamente dalle sue controparti irachene.

Benché il comando Usa sia insoddisfatto della politica di Maliki verso i "Consigli del risveglio", esso non si è opposto all’arresto e alla detenzione di Mashhadani, apparentemente perché il governo ha insistito sul punto che a essere presi di mira non sono stati i "Consigli del risveglio" in quanto tali, ma solo un singolo che aveva commesso dei reati.

Questa tattica era stata usata sia dal comando statunitense che da Maliki nel colpire i comandanti dell’Esercito del Mahdi a Sadr City e in altre zone nel 2007-2008.
Il portavoce delle forze armate Usa Bill Buckner ha giustificato la detenzione di Mashhadani citando un mandato d’arresto del dicembre 2008 che elencava sette presunti reati, fra i quali estorsione, bombe collocate sul ciglio della strada il cui obiettivo erano le forze irachene, e legami con al-Qaeda.

Ma la ragione reale dell'arresto di Mashadani apparentemente stava nel fatto che egli aveva abbracciato apertamente l’ideologia ba'athista. Un portavoce di Maliki ha accusato alcuni leader dei "Consigli del risveglio" di Fadhil di aver formato una cellula segreta per appoggiare il partito Ba'ath. In realtà, questo non è illegale in base all’attuale legge irachena, tuttavia, secondo il quotidiano Azzaman, il partito di Maliki, al Da’wa, ha chiesto di criminalizzare il partito Ba'ath, che un tempo aveva decretato l'appartenenza ad al Da'wa punibile con la pena di morte.

A sottolineare ulteriormente la natura confessionale della più ampia repressione dei comandanti sunniti che è in corso, il 24 marzo i soldati iracheni avevano catturato senza dare troppo nell'occhio Raad Ali, un comandante sunnita nel quartiere di Ghazaliya, nella parte ovest di Baghdad, come riportato lunedì da Ned Parker e Qasar Ahmed del Los Angeles Times. Al contrario dell’apertamente ba'athista Mashhadani, Ali non aveva mai espresso fedeltà al Ba’ath e aveva sottolineato la sua rinuncia all’insurrezione.

McCreary ha detto di non vedere alcuna prova del fatto che gli Stati Uniti stiano “sostenendo una epurazione” delle milizie sunnite, ma, ha aggiunto, “sono costretti a lavorare con l’uomo che abbiamo aiutato a salire al potere”. La volontà di sostenere Maliki, perfino quando le sue politiche sono considerate ostinatamente sbagliate, è in funzione del desiderio di “lasciarci dietro un governo il più possibile stabile”, dice l'esperto.

L’ex analista della Defense Intelligence Agency crede che la necessità di sostenere il governo dominato dagli sciiti durante l’ultima fase della presenza militare Usa significhi che non è più possibile che gli Stati Uniti rimangano neutrali nella lotta confessionale per il potere. “Non siamo più in condizioni di tenere il piede in due staffe”, ha detto. “Non possiamo appoggiare sia i sunniti che gli sciiti”.

Secondo McCreary, questa realtà influenzerà il tipo di combattimento in cui saranno coinvolte le forze armate Usa. “Si troveranno a collaborare nel pianificare e sostenere operazioni che potrebbero trovare disgustose”, dice. “Funziona così”.

Stephen Negus, che è stato corrispondente in Iraq per il Financial Times dal 2004 al 2007, e che ora è un visiting scholar al Woodrow Wilson Center di Washington, dice che le unità delle forze armate Usa in Iraq dovranno appoggiare le unità irachene alle quali sono collegate, in qualsiasi battaglia, a prescindere da come possa essere iniziata. “Se hai un alleato a cui sparano, devi rispondere”, dice Negus.

A meno che l’amministrazione Obama non adotti una politica esplicita che tenga le truppe Usa al di fuori della lotta confessionale per il potere, i soldati parteciperanno a molti altri combattimenti contro i sunniti, ai quali Maliki ha lasciato poche opzioni se non quella di resistere.


Gareth Porter è uno storico e giornalista investigativo specializzato in politiche della sicurezza nazionale statunitense. L'edizione economica del suo ultimo libro, Perils of Dominance: Imbalance of Power and the Road to War in Vietnam, è stata pubblicata nel 2006.




Iraq, Maliki a Mosca, la Russia punta al petrolio iracheno
da www.osservatorioiraq.it - 9 Aprile 2009

L'energia è il piatto forte nella visita del Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki, giunto oggi a Mosca dove incontrerà il collega Vladimir Putin e sarà ricevuto al Cremlino dal presidente della Federazione Russa Dmitri Medvedev.

"La prima visita in Russia del capo di governo iracheno è destinata ad aprire una nuova pagina nello sviluppo delle relazioni bilaterali, tradizionalmente amichevoli, molteplici e reciprocamente vantaggiose", spiega una fonte del Cremlino. Specificando che "durante i colloqui al più alto livello", si punta principalmente sull'energia e sulle occasioni per Mosca in Iraq.

Nei colloqui con la presidenza, "particolare importanza” - secondo quanto Apcom apprende dalla fonte – “avrà la questione di una maggiore partecipazione delle compagnie russe nella realizzazione di importanti progetti relativi al settore petrolifero e del gas, energia elettrica e altri settori, tenendo conto della ricca esperienza di cooperazione, maturata negli anni passati".

Intanto "la Russia ha rafforzato la sua presenza diplomatica in Iraq", e sostiene un "dialogo politico regolare".

Il Ministro degli Esteri di Baghdad, Hoshyar Zebari, era stato in visita a Mosca dall’11 al 13 febbraio 2008, mentre nel gennaio era arrivata a Baghdad una delegazione russa, composta da rappresentanti del Parlamento della Federazione russa e dalla leadership dell'Unione dei produttori petroliferi dell'Aquila Bicipite, guidata dal Primo Vice Presidente del Consiglio federale della Federazione, Torshin.

E dal Cremlino oggi si precisa che molte compagnie russe sono "pronte a lavorare sul mercato iracheno": Lukoil, Zarubezhneft, Stroytransgas, Technopromexport, Tatneft, SoyuzNefteGaz, e le altre principali società russe.

Da notare che una major come Lukoil è già in prima fila, e parteciperà alle gare in Iraq per i nuovi progetti di sviluppo del settore energetico. E sarebbe in pole position per il giacimento petrolifero di West Qurna.

E’ chiaro che le compagnie russe sono ansiose di riprendere il lavoro in Iraq: terzo Paese al mondo per riserve di greggio. Nel 1997, ai tempi di Saddam Hussein, proprio il gigante energetico russo Lukoil aveva firmato un accordo da 4 miliardi di dollari per esplorare i due giacimenti petroliferi di West Qurna: un contratto successivamente annullato, e che le nuove autorità di Baghdad non hanno voluto riconfermare.

Ma a parte l'oro nero, sono molti i dossier di interesse bilaterale. Inoltre, lo "scambio di opinioni" tra Medvedev e al Maliki sulle "questioni internazionali" dovrà "considerare la stabilizzazione della situazione in Iraq, così come nella zona del Golfo Persico nel suo insieme, tenendo conto del concetto di sicurezza della Russia nelle zone di pace, e di altre questioni regionali".

La visita inizia oggi e proseguirà sino a sabato. Si tratta del primo viaggio a Mosca del premier iracheno.




Iraq, Delegazione britannica a caccia d'affari
da www.osservatorioiraq.it - 6 Aprile 2009

E' arrivato a Baghdad alla testa di una nutrita delegazione di imprese, e, senza scomporsi, nel giorno in cui nella capitale irachena sei autobomba uccidevano 34 persone, ferendone quasi altre 140, ha minimizzato, sottolineando che questo non deve oscurare le potenzialità di fare affari in Iraq.

Un mostro? No, Peter Mandelson, ministro britannico delle Attività produttive, che ha detto ai giornalisti che l'arrivo della delegazione da lui guidata "segna il fatto che l'Iraq si è trasformato da un luogo di conflitto in una terra di opportunità".

Secondo il ministro, gli attentatori di oggi "sono vigliacchi", che non riusciranno nel loro intento di invertire la tendenza in Iraq "che va verso la pace e la stabilità".

E di pace e stabilità hanno bisogno sicuramente, oltre agli iracheni, BP, Shell, HSBC, Glaxosmithkline, e Rolls-Royce, alcune delle compagnie britanniche rappresentate nella delegazione, la prima di questo genere ad arrivare in Iraq da oltre 20 anni.

Mandelson, che ha incontrato il Primo Ministro Nuri al-Maliki, ha detto che il suo obiettivo è quello di creare "una nuova partnership per una nuova era", ora che la missione militare di Londra in Iraq volge al termine.

"Non abbiamo fatto questo viaggio in Iraq per ragioni di protocollo, questo possiamo lasciarlo ai diplomatici", ha sottolineato il ministro. "Siamo qui con un desiderio pragmatico e un impegno a sostenere la ripresa dell'Iraq".

Ripresa a cui il governo di Londra non ha mai fatto mistero di essere interessato, e molto. E non solo nel settore petrolifero – che certamente fa gola.

Dal canto suo, il ministro iracheno del Commercio, Abdel Falah al-Sudani, ha definito gli attentati di oggi "episodi isolati", insistendo che l'ambiente è ormai "favorevole" agli investimenti da parte delle compagnie straniere.

Dopo la tappa a Baghdad, Mandelson e la delegazione che lo accompagnava si sono diretti a Bassora, nel sud. Da qui, secondo fonti dell'ambasciata britannica nella capitale irachena, proseguiranno per il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti.




Iraq, Vice di Saddam apre a Obama: pronti a stabilire buoni rapporti, dopo il ritiro delle truppe
da www.osservatorioiraq.it - 7 Aprile 2009

L'ex vice di Saddam Hussein usa toni concilianti verso gli Stati Uniti, con i quali dice di voler stabilire buoni rapporti, ma solo dopo che le loro truppe avranno lasciato l'Iraq.

Izzat Ibrahim al-Duri, tuttora in libertà e uno dei leader della resistenza armata sunnita, in un messaggio audio registrato trasmesso dalla TV araba al Jazira, ha detto che un nuovo governo iracheno sarà pronto "a costruire le migliori relazioni con il popolo americano e la nuova amministrazione" guidata da Barack Obama.

Un nuovo governo, appunto. Il leader ba'athista, sulla cui testa pende una taglia di 10 milioni di dollari, ha esortato i suoi seguaci a rovesciare il governo del Primo Ministro Nuri al Maliki dopo il ritiro delle truppe Usa dall'Iraq.

Alla nuova Amministrazione Usa al Duri chiede di "voltare la pagina del passato", lanciando a Obama il messaggio di voler costruire "nuove, ampie relazioni basate sul reciproco rispetto e interesse" fra Stati Uniti e Iraq.

Il messaggio registrato è stato mandato in onda in occasione del 62esimo anniversario della fondazione del partito Ba'ath, messo fuori legge nel "nuovo Iraq" uscito dall'invasione guidata dagli Usa del marzo 2003 e dalla successiva occupazione.

"La liberazione dell'Iraq e la formazione di un governo indipendente è la strada che porta allo stabilire relazioni con l'amministrazione Obama", ha detto al Duri. "Il grande popolo dell'Iraq è capace di dimenticare quello che è successo, e di instaurare le migliori e più ampie relazioni con il popolo americano e la sua nuova Amministrazione. Legami basati sul reciproco rispetto e sul comune interesse".

Sul fronte interno, oltre all'invito a rovesciare il governo Maliki, il leader ba'athista, per la prima volta, ha voluto lanciare anche un messaggio conciliatorio, dicendosi disposto a "fare una revisione storica sull'esperienza del partito" per favorire "un largo fronte d'intesa" con le altre forze politiche in Iraq.




Per liberare l'Iraq, la resistenza deve colmare lo spartiacque confessionale
di Seumas Milne - The Guardian - 19 Marzo 2009
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it

Come riconoscono i leader che lottano contro l'occupazione, gli Usa potrebbero ancora sfruttare le loro divisioni nel tentativo di compensare la propria sconfitta strategica

In un tentativo estremo di salvare una qualche minima credibilità dalla guerra più catastrofica fra quelle combattute dall'Occidente nell'epoca moderna, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sta prendendo piede la storia secondo cui, dopo sei anni di orrore, l'Iraq si sta finalmente avviando sulla buona strada. Questa interpretazione favorevole degli eventi è diventata così rapidamente verità accettata che adesso politici ed esperti insistono regolarmente nel dire che, se solo al Generale Petraeus verrà consentito di operare la magia della sua surge sull'Afghanistan, tutto potrebbe andar bene anche in quella terra sopraffatta dalle tenebre. Un articolo pubblicato di recente sul Sunday Telegraph è arrivato a sostenere che i 4.000 soldati britannici che ancora sono a Bassora vengono considerati "eroi e liberatori" dagli iracheni, ora che la loro missione da 8 miliardi di sterline è stata finalmente "compiuta".

Mentre domani inizia il settimo anno dell'occupazione dell'Iraq guidata dagli Usa, i fatti sul terreno raccontano una storia molto diversa. La settimana scorsa, più di 60 persone sono state uccise in due attacchi suicidi contro obiettivi della polizia e dell'esercito iracheni a Baghdad, mentre tre giorni fa una ragazzina di 12 anni è stata colpita a morte da soldati americani in un incidente a un checkpoint nella provincia di Ninive. E' vero che la violenza è notevolmente diminuita rispetto al suo picco sanguinoso di un paio d'anni fa, e che la fornitura di energia elettrica si sta avvicinando – al livello che gli Stati Uniti avevano promesso di raggiungere cinque anni fa, circa il 50% della domanda. Ma in media un giorno sì e uno no viene ucciso un soldato Usa, poliziotti e soldati iracheni muoiono a un ritmo assai più elevato, e le morti di civili iracheni di cui si viene a sapere viaggiano sulle oltre 300 al mese.

Ma il discorso sul successo e la diminuzione graduale [delle truppe] verso il ritiro si è talmente radicato, che di tali eventi si parla a malapena nei Paesi occupanti. I media occidentali per lo più si sono stancati da molto tempo dell'Iraq e delle sue tribolazioni inflitte dall'Occidente. Nel frattempo, gli Stati Uniti e il governo iracheno alle loro dipendenze tengono tuttora in carcere decine di migliaia di prigionieri senza processo; corruzione e tortura dilagano; la condizione delle donne si è nettamente deteriorata sotto la tutela statunitense e britannica; e oltre 4 milioni di rifugiati iracheni sono tuttora impossibilitati a tornare a casa – o a votare nelle elezioni non proprio libere.

Non c'è da stupirsi che, secondo gli ultimi sondaggi di opinione, la maggior parte degli iracheni non condivida la visione rosea del Sunday Telegraph sul ruolo delle truppe britanniche; i risultati mostrano inoltre che gli iracheni continuano a opporsi all'invasione originaria e vogliono che tutte le truppe straniere se ne vadano. Tuttavia, secondo il piano del presidente Obama, il ritiro statunitense è tutt'altro che sicuro: fino a 50.000 soldati rimarranno dopo l'agosto del prossimo anno (senza contare i contractor e i mercenari), e non esiste alcuna garanzia di un ritiro totale nemmeno entro fine 2011. E, anche se gli attacchi della resistenza sono diminuiti – in parte per effetto della creazione delle milizie sunnite dei Consigli del risveglio appoggiate dagli Usa, in parte a causa della riduzione dei pattugliamenti statunitensi, e in parte per la smobilitazione dell'Esercito del Mahdi sciita – molti prevedono che la diminuzione sia transitoria.

Alcuni giorni fa, in Medio Oriente, ho incontrato il leader, o "emiro", di uno dei maggiori gruppi della corrente principale della resistenza irachena, l'Esercito Islamico, in prevalenza sunnita. Nella sua prima intervista con un giornalista occidentale, lo sceicco Abu Yahya sosteneva che gli Usa hanno "subito una sconfitta storica in Iraq, non solo sotto l'aspetto militare, ma anche sotto quello politico e morale". E' fuori discussione, diceva, che la resistenza segua la strada della collaborazione intrapresa dagli estremamente instabili Consigli del risveglio, i cui membri per la maggior parte si sono arruolati solo a causa della povertà e della disoccupazione: "Continueremo a combattere finché l'ultimo soldato americano lascerà l'Iraq, a prescindere dal tempo che sarà necessario".

Tuttavia ha ammesso che la guerra confessionale totale scatenata nel 2006-7, di cui attribuisce la responsabilità a Stati Uniti e Iran, ha indebolito la resistenza e "diminuito la portata" della sconfitta americana. "La pulizia confessionale reciproca è avvenuta solo dopo l'arrivo di Negroponte", diceva Abu Yahya, riferendosi all'ambasciatore Usa in Iraq dal 2004 al 2005, che deve la sua pessima reputazione al ruolo di inviato in Honduras durante la sporca guerra contro i Sandinisti negli anni '80. "Riteniamo che quando gli Usa non sono riusciti a sconfiggere la resistenza sunnita, hanno deciso di lasciare che gli sciiti ci facessero la guerra per neutralizzare la minaccia".

Descrivendo come i soldati Usa arrivavano in una roccaforte della resistenza, cercavano armi, circondavano la zona con i carri armati, e poi permettevano alle milizie sciite armate dal governo di infiltrarsi e uccidere, Abu Yahya sottolineava: "Quando è iniziato il jihad, combattevamo solo gli americani – quando però sono arrivate le milizie, abbiamo dovuto combattere su due fronti". La creazione dei Consigli del risveglio ha provocato problemi ancora maggiori "perché venivano dall'interno ed erano in grado di passare particolari sulla resistenza".

La verità è che gli Usa hanno giocato la carta confessionale fin dai primi giorni dell'occupazione, creando una amministrazione e una Costituzione basate su una ripartizione etnica e confessionale dei posti di governo sul modello libanese - che, nel contesto del tessuto sociale iracheno complesso e già danneggiato, ha posto le basi per un vortice nazionale. Questo è stato alimentato dal brutale settarismo anti-sciita di al-Qaeda, portata in Iraq grazie all'invasione statunitense. Il virus dello scontro sunniti-sciiti successivamente si è diffuso in tutta la regione, alimentando la "guerra fredda" araba che ora divide libanesi, palestinesi, e Stati da un capo all'altro del Medio Oriente.

Si è trattato di una classica strategia divide et impera di tipo coloniale che ha fatto guadagnare tempo all'occupazione Usa e portato sofferenza agli iracheni. Adesso ci sono segnali che la febbre confessionale e inter-etnica in Iraq sta calando. Nelle elezioni regionali parziali di gennaio, diversi fra i partiti più confessionali e federalisti – come il Consiglio Supremo islamico di Abd al-Aziz al Hakim appoggiato dagli Usa e dall'Iran – sono stati ridimensionati, mentre le forze laiche e nazionaliste hanno fatto progressi significativi.

Tuttavia, come altri gruppi della resistenza, l'Esercito Islamico di Abu Yahya non parteciperà a un processo politico che considera "illegittimo e corrotto", a meno che non vengano riformate le strutture confessionali come parte di un ritiro Usa negoziato. Finora, gli Stati Uniti mostrano scarso interesse nel ricompensare quelli che li hanno combattuti fino ad arrivare a una impasse negli ultimi sei anni – ma qualsiasi ritiro senza un accordo di questo tipo è una ricetta per la ripresa del conflitto.

E' incontestabile che gli Stati Uniti abbiano subito una sconfitta strategica in Iraq. Lungi dal fare del Paese una base di partenza per la trasformazione della regione sul modello occidentale, esso è diventato una dimostrazione globale dei limiti della potenza militare americana. Ma l'incapacità della resistenza a colmare lo spartiacque confessionale e a diventare un vero movimento nazionale è, come riconosce Abu Yahya, un tallone d'Achille che potrebbe ancora consentire agli Usa di recuperare vantaggi a lungo termine dai rottami. Se l'Iraq deve riacquistare la sua sovranità e il controllo delle sue risorse, e gli Stati Uniti devono lasciare completamente il Paese, questa debolezza dovrà essere superata.