giovedì 30 aprile 2009

Crisi economica: il falso ottimismo contraddetto dai dati reali

Negli ultimi giorni è in corso un tentativo, piuttosto in sordina e quindi disperato, di spargere ottimismo sul futuro che attende in particolar modo l'Europa e gli USA.

Ieri ad esempio ci è stato detto che ad aprile, per la prima volta dal maggio 2008, la fiducia di imprese e consumatori europei è tornata a salire. Ciò è quanto emergerebbe dagli indicatori della Commissione Ue (Bci ed Esi) che per Bruxelles però restano comunque ad un livello "molto basso", anche in seguito al vero e proprio crollo registrato nel mese di febbraio.
Tra gli Stati membri che guidano il rimbalzo ci sarebbe l'Italia, insieme con Regno Unito, Olanda e Spagna; mentre un aumento della fiducia molto più moderato si registra in Francia e Germania.

Sul fronte del Bci, l'indicatore che misura le aspettative dei manager delle imprese della zona euro, la Commissione Ue sottolinea come, nonostante i timidi segnali di ripresa, ad aprile si faccia sentire ancora il peso della crescita negativa della produzione industriale a marzo, dopo il crollo di febbraio. Produzione industriale che per Bruxelles "dovrebbe rimanere chiaramente bassa" anche in aprile.
Quindi non si capisce su che basi dovrebbe giustificarsi questo cosiddetto "aumento della fiducia".

Ma per Bruxelles il rimbalzo del Bci riflette comunque "un miglioramento della situazione generale", anche se in realtà sembrerebbe esserci solo un po' meno pessimismo tra i manager, che d'altronde non stanno ancora rischiando ne' il licenziamento nè la cassa integrazione e il lauto stipendio continuano a prenderlo.

Per quanto riguarda invece l'Esi, che misura la fiducia di imprese e consumatori di tutti e 27 i Paesi dell'Ue, l'aumento registrato in aprile (3 punti e mezzo in Eurolandia e 2 punti e mezzo nell'Ue-27) sarebbe di fatto il primo risultato di segno positivo dopo due anni, se si esclude un timidissimo aumento registrato nel maggio 2008.

Sprizza ottimismo anche l'indicatore che misura la fiducia nel settore dei servizi finanziari, che "è fortemente migliorato" sia nella zona euro che nell'intera Ue, rispettivamente con un balzo di ben 16 ed 11 punti.

Si tratta comunque di messaggi che sperano di infondere ottimismo facendo leva esclusivamente sulla psiche umana, essendo infatti contraddetti dai dati reali.

Ad esempio, è notizia di ieri che l'economia USA si è contratta più del previsto nel primo trimestre. Il Pil arretra del 6,1%, contro un'attesa contrazione del 4,9%.
Anche l'export USA è in forte calo e scende del 30% rispetto al quarto trimestre, l'arretramento più forte dal 1969, dopo il -23,6% dei precedenti tre mesi. Gli investimenti aziendali tracollano del 37,9% e quelli in immobili residenziali calano del 38%. Salgono invece i consumi, ma di un timido 2,2%, dopo essere crollati nel secondo semestre del 2008.

Per la FED le previsioni economiche sono migliorate da marzo, ma continueranno a restare deboli ancora per i mesi a venire. La FED infatti ha deciso di lasciare invariato il livello dei tassi d'interesse, compresi nel range tra lo zero e lo 0,25%, e resteranno bassi ancora per un lungo periodo. Ha confermato inoltre il piano di riacquisto di titoli di Stato USA per complessivi 300 miliardi di dollari, sperando così di garantire liquidità al sistema economico.

E' chiaro quindi che si sta cercando in tutti i modi d'infondere ottimismo nella mente delle persone, ma i dati reali dicono l'opposto.

A proposito, oggi l'Istat ha comunicato che "a febbraio l'occupazione nelle grandi imprese ha registrato una variazione negativa dell'1% al lordo della Cassa integrazione guadagni e del 3,2% al netto della Cig". Il raffronto è sullo stesso mese del 2008.
Quindi, senza la cassa integrazione aumentata del 320% su base annua, l'occupazione è calata del 3,2%. Il calo tendenziale più forte dal gennaio 2001.

E sempre secondo l'ISTAT, "la retribuzione lorda per ora lavorata nel totale delle Grandi imprese ha registrato a febbraio un aumento congiunturale (al netto della stagionalità) dell'1,2% rispetto al mese precedente ed un calo tendenziale, misurato sull'indice grezzo, del 2,7%".
Traduzione in soldoni: sono diminuiti i salari.

Ricapitolando: cresce la disoccupazione, diminuiscono i salari ma l'ottimismo e la fiducia sarebbero in crescita.

Qualcosa non torna...

FMI: quelle tre parole che smontano l'illusione di una ripresa a portata di mano

di Emilio Colombo - www.ilsussidiario.net - 30 Aprile 2009

Il Fondo Monetario Internazionale ha appena rilasciato due importanti rapporti. Il World Economic Outlook e il Global Financial Stability Report. Essi analizzano in modo approfondito lo stato dell’economia mondiale e dei mercati finanziari e formulano importanti previsioni a medio termine.

Nonostante gli argomenti trattati siano numerosi possiamo dire che dai due rapporti emergono tre considerazioni generali.

1) La dimensione e la profondità della crisi economica sono superiori alle aspettative. Le stime di crescita formulate meno di tre mesi fa dallo stesso Fmi per quasi tutti i paesi avanzati e non, sono state fortemente ridotte. In Italia è prevista una contrazione del Pil nel 2009 del 4,4%, solo tre mesi fa la stima era di -2,1%; in modo analogo la crescita prevista per la Germania passa da -2,5 a -5,6%, per il Giappone da -2,6 a -6,2%, per gli Usa da -1 a -2,8%. Allo stesso tempo è prevista una timida ripresa dell’economia mondiale nel 2010, ma anche in questo caso le stime di crescita sono fortemente ridimensionate e sono inferiori all’1% in tutti i paesi avanzati.

2) Il costo diretto dell’aggiustamento del sistema è estremamente rilevante. La stima di 4.000 miliardi di dollari è circa 4 volte la stima iniziale effettuata alla fine dello scorso anno. Il valore è enorme: per dare un ordine di grandezza è pari a circa il 6,5% del Pil mondiale. Solo negli Stati Uniti il costo delle svalutazioni degli asset tossici e delle ricapitalizzazioni bancarie ammonta a quasi il 20% del Pil.

3) Il combinato disposto dell’aggiustamento dei mercati finanziari e della recessione avrà un impatto sulle finanze pubbliche dei paesi avanzati e non senza precedenti. Nel 2009 gli Usa si stima avranno un deficit di bilancio superiore al 13% del Pil, il Regno Unito di quasi il 12% . Ancora più preoccupanti sono le implicazioni per il debito pubblico. Tra il 2007 e il 2014 il debito dei paesi avanzati aumenterà di circa il 30%. Negli Usa passerà dal 63 al 99%, nel Giappone dal 195 al 223% in Italia dal 105 al 120%. In media nell’area dell’Euro il rapporto debito/PIL passerà dal 65,8% del 2007 al 91,4% del 2014.

Nonostante nel nostro paese il sistema bancario sia stato colpito in misura meno rilevante dalla crisi, colpisce la forte crescita del debito italiano, che è interamente da imputare alla profonda contrazione economica da una parte e al peso sulle finanze pubbliche degli ammortizzatori sociali fortemente sollecitati in occasione di prospettive economiche così cupe (il tasso di disoccupazione è atteso salire dal 6 al 10% nell’arco di tre anni).

Lo scenario tratteggiato dal Fmi è dunque assai preoccupante e contrasta con i timidi segnali positivi che sono emersi negli ultimi giorni dai mercati finanziari. Molti infatti sostengono che la fase di turbolenza critica dei mercati finanziari è oramai alle spalle e che si iniziano ad intravedere i segnali di ripresa. I rapporti del Fmi ci riportano invece a una realtà ben più dura. Il vero problema che si presenta ora è che, una volta passata la paura del collasso del sistema finanziario internazionale, dobbiamo fronteggiare i costi dell’aggiustamento, realmente ingenti.

I dati citati precedentemente sono eclatanti: i paesi avanzati hanno pagato il costo della crisi emettendo una quantità enorme di debito. Le implicazioni di tutto ciò sono molteplici; mi limiterò ad accennarne a due, rilevanti per il nostro paese.

In primo luogo la forte domanda di liquidità e la scarsissima propensione al rischio che caratterizza oggi gli investitori è destinata nei prossimi mesi a esaurirsi. Quando ciò avverrà nel mercato vi sarà un considerevole eccesso di offerta di titoli di debito. Il mercato inizierà ad essere maggiormente selettivo e ad attribuire prezzi diversi ai diversi titoli.

Per un paese come l’Italia le implicazioni non sono irrilevanti: dovremo infatti collocare il nostro debito in un mercato in cui vi sarà una offerta molto più elevata di titoli di qualità quali quelli emessi dal governo tedesco, inglese o americano. Il rischio di essere penalizzati da spread crescenti non può essere trascurato.

In secondo luogo occorre considerare che il debito non costituisce altro che un trasferimento intergerenazionale di risorse. In un paese come il nostro caratterizzato già da un elevato livello di indebitamento, da un rilevante problema pensionistico e da un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa non possiamo non porci il problema dell’onere che stiamo mettendo sulle spalle delle generazioni future.

Sostenere i costi della crisi emettendo nuovo debito non può non essere accompagnato da una riflessione forte e chiara su quali siano le politiche più idonee ed efficaci per mettere le generazioni future nelle migliori condizioni per far fronte agli oneri che gravano su di loro. La soluzione della crisi passa dunque anche da politiche quali la riforma scolastica e universitaria e soprattutto da un sistema fiscale che non penalizzi le famiglie come quello attuale.

È forte la tentazione di pensare che le misure tampone dettate dell’emergenza finanziaria possano aver risolto il problema. In realtà occorre rendersi conto che hanno sì evitato il collasso del sistema finanziario, ma ne hanno anche differito i costi nel tempo. Il vero esame di maturità sarà costituito dalle politiche strutturali che riusciremo a implementare per gestire la seconda fase della crisi. Se ci riusciremo potremo veramente dirci un paese avanzato.


Ripresa e ottimismo? C'è chi dice no...

di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 28 aprile 2009

Ci mancava solo il timore per una pandemia globale di influenza suina a deprimere ulteriormente le Borse e i mercati, spaventati dal fatto che questa emergenza sanitaria possa rivelarsi un terrificante volano per le incertezze che ancora regnano sovrane rispetto alle cifre e allo stato di salute reale di istituzioni finanziarie e governi.

Già, perché se il Fondo Monetario Internazionale ha detto molto, bisogna ammettere che non ha detto tutto. Ci ha detto, ad esempio, che le perdite totale dovute all’infezione di subprime e assets tossici vari toccheranno i 4mila miliardi di dollari (dopo stime iniziali che parlavano di 300, poi 600, poi timidamente 1000 e via in un crescendo quasi da rabdomante). Bene, ammesso che quella cifra non debba essere ulteriormente rivista al rialzo.

Non ci dice, però, che un fondo speculativo di prim’ordine come Hayman Advisers sta scommettendo proprio in questi giorni - e pesantemente, molto pesantemente - su un’ondata di bancarotte e ristrutturazioni di Stati come non si vedeva dal 1934, quasi tutte concentrate in Europa, il vero fulcro del leverage dissennato e dei conti fuori controllo. A rischio sono quegli Stati che non possono stampare moneta, che non hanno una moneta propria (l’Irlanda in testa, ma anche il disastrato Club Med di cui fa parte anche l’Italia) e l’Europa dell’Est, aree in cui si sono concentrate in massa i prestiti dei paesi dell’eurozona.

Per la divisione studi di Commerzbank, «ogni asta di bond in Europa si sta tramutando in un evento a rischio». D’altronde lo Stato dell’arte globale è sotto gli occhi di tutti, anche se il Fmi tende a nascondere certe cifre scomode. Gli assetti sono cambiati, Cina, Russia, i paesi produttori di petrolio e gli emerging markets asiatici non hanno più - come avevano negli anni della bolla - 1.3 miliardi di dollari di riserve da riciclare in buoni del tesoro Usa o bond europei.

Le banche centrali hanno perso 248 miliardi di reserve scendendo a quota 6.7 trilioni negli ultimi sei mesi. Il Venezuela, da solo, ha visto dimezzare le proprie reserve di un terzo a causa del crollo del prezzo del petrolio. La Cina, poi, ha deciso di investire il suo surplus mensile di 40 miliardi di dollari in infrastrutture interne pesanti - leggi miniere - invece che nell’enorme mercato del debito Usa.

Insomma, qualcuno vorrebbe danzare al ritmo della musica di sempre anche se questa è cambiata trasformandosi da un walzer e un de profundis. A New York si scommette sui default e si punta il dito sul cocktail formato da alto debito pubblico e dalle debolezze ancora da emergere di istituti come Royal Bank of Scotland, Hypo Real e Fortis, sigle che vedono giacere nei propri libri prestiti sovrani di ultima istanza.

Insomma, c’è ben poco da stare allegri. Tanto più che nel silenzio pressoché generale in America ben 20 banche non hanno superato gli stress-test imposti dalla Fed e anche le grandi istituzioni che invece lo hanno fatto non hanno messo a disposizione del pubblico alcuni particolari interessati riguardo reale leva di leverage, contenuto nei book, assets diversificati e - come nel caso di Goldman Sachs - il fatto di aver cambiato regime fiscale essendosi tramutata in banca ordinaria e non più d’affari quindi legittimata a non ascrivere a bilancio le perdite pregresse.

Insomma, occorre tenere gli occhi aperti e informarsi il più possibile attraverso fonti indipendenti. Le migliori sembrano essere gli ex economisti del Fmi, i quali sono diventati tali proprio perché tendevano a non mascherare o imbellettare le cifre e dire la verità. Uno di questi è Ken Rogoff, ex economista del Fondo, secondo il quale siamo alla vigilia di «uno spasmo di default» ciclico, quasi schumpeteriano, dovuto alla perdita totale di fiducia dei detentori di bond: fu così nel 1830, fu così nel 1930. Insomma, per molti analisti non a libro paga di istituzioni statali o finanziarie siamo alla vigilia di una bancarotta globale che cambiare del tutto gli equilibri, come quella di Filippo II di Spagna che spianò la strada al potere finanziario olandese e orangista.

Nessuno però sembra dare troppo credito a questa interpretazione e ancora si eccita con i piani di Obama, le promesse ridicole del G20 o l’euforia isterica della Borsa: attenzione, perché il mondo rischia di trasformarsi in un G2 formato da Usa e Cina e questo duopolio appare pacifico solo per convenienza reciproca nel breve termine. Poi sarà Guerra. Senza esclusione di colpi, da nessuna delle due parti. Ormai, la crisi è geopolitica.


La Cina prepara la sua fuga dal dollaro?

di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 29 Aprile 2009

La crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti ha provocato e continuerà a provocare il crollo degli indici azionari. Nonostante la perdita massiccia di milioni di posti di lavoro e di una quantità ancora non quantificabile di valori monetari, le follie di Wall Street potrebbero, tuttavia, provocare danni geopolitici ancora maggiori. Tutto ruota intorno alla gigantesca esposizione del governo cinese nei confronti del sistema statunitense: ammontano infatti a ben 1.946 trilioni di dollari le riserve estere della Cina, la maggioranza delle quali è denominata in dollari. All’incirca mille sono poi i miliardi di dollari prestati dalla Cina agli Usa, in qualità di primo sottoscrittore di buoni del Tesoro americani. Queste sono le cifre che raccontano di un’economia americana in mano alla volontà cinese: se fosse infatti richiesta al Ministero del Tesoro americano la restituzione dell’intero prestito fatto, il paese sarebbe in bancarotta.

Fino ad oggi una simile ipotesi non sarebbe stata in piedi, vista l’incondizionata fiducia nutrita dai governi di tutto il mondo nel dollaro e nella sua solidità. La situazione, tuttavia, è cambiata irrimediabilmente. Parlando delle dinamiche economiche inerenti alla crisi dei mercati azionari, infatti, quello che volutamente non si considera è la dimensione numerica del problema. Secondo la Banca per i Regolamenti Internazionali, al 31 dicembre 2007, il valore nominale di tutti i contratti derivati era di 596.004 miliardi di dollari e, ad oggi, sulla base delle dinamiche di crescita esponenziale degli ultimi anni, tale valore si stima presumibilmente non inferiore ai 700.000 miliardi di dollari.

Una cifra incomprensibile per qualunque persona che si guadagni da vivere onestamente. Partendo da questo dato ben si comprende come già i 700 miliardi di dollari del piano Paulson prima e le vagonate di miliardi del piano Obama adesso siano ben poca cosa. In pratica nulla di più che un disperato tentativo di svuotare il mare con un secchiello.

Se da una parte, infatti, tutti i soldi messi sul piatto rappresentano un’enormità rispetto ad altre voci di spesa del bilancio americano, ad esempio se paragonate al totale del deficit del bilancio federale americano del 2007 (“appena” 162 miliardi di dollari, l’1,2 % del Pil Usa), dall’altra, nonostante tutto, il mare di miliardi di dollari stanziati sono, allo stesso tempo, un’inezia rispetto alla valanga di carta straccia in circolazione. Solo i famigerati CDS (credit default swap: assicurazioni sulle insolvenze di credito. ndr) alla fine dello scorso anno ammontavano a 57.894 miliardi di dollari, circa il 120 % di tutto il Pil mondiale, secondo i dati della Banca Mondiale. La valanga di liquidità cartacea è dunque più alta della montagna d’acqua di uno tsunami. Come il maremoto del 26 dicembre 2004, anche gli avvenimenti di questi giorni travolgeranno molti e porteranno distruzione. Questo è quanto desiderava chi ha fomentato o anche solo evitato di lanciare l’allarme per l’imminente catastrofe finanziaria.

Fino a qui la storia. Quello che ora interessa, tuttavia, sono le conseguenze che una simile situazione provocherà negli equilibri geopolitici internazionali, considerando che il dollaro è stata, fino ad oggi, la valuta di riserva mondiale, la moneta, cioè, attraverso la quale si rendeva possibile lo scambio di beni e servizi tra tutti i paesi rientranti nell’area d’influenza anglo-americana. Quello che si è definito - a ragione - come l’impero monetarista americano, l’imperialismo del dollaro.

Questo sistema, che ha permesso agli Stati Uniti di vivere secondo standard qualitativi ben al di là delle possibilità della nazione perché ben al di là dell’umana ragionevolezza, ora sta implodendo su se stesso. Più dollari vengono stampati per svuotare l’oceano della crisi, infatti, meno varranno i dollari in circolazione e gli altri attori della scena mondiale non si possono più permettere di stare a guardare perché in ballo vi è il futuro dei rapporti commerciali internazionali. Da qui l’interrogativo: cosa mai potrebbe sognare la Cina, catturata - a sentire Washington - nella trappola del dollaro?

Se ascoltiamo i leader americani e le loro schiere di esperti dei media, la Cina sogna non solo di restare prigioniera, ma anche di intensificare la durezza della sua condizione di prigionia acquistando sempre più T-Bonds (i titoli del debito americano) e dollari. In realtà, tutti sanno cosa sognano i prigionieri. Sognano di fuggire, naturalmente: di uscire dalla prigione.

Gli uomini del gruppo Europe2020, nell’ultimo numero del loro report (GEAB 34 parte I) non hanno dubbi: Pechino sta ora costantemente cercando di trovare il modo di liberarsi, prima possibile, della montagna di assets "tossici" che sono ora diventati i T-Bond e i dollari. Va detto, per onestà del vero infatti, che in un qualsiasi racconto avente ad oggetto una fuga, i prigionieri non passano certo il loro tempo annunciando che si stanno preparando per l’evasione. In realtà, al contrario, tendono ad evitare di sollecitare la vigilanza delle loro guardie.

In questa prospettiva, secondo il team LEAP/Europe2020, la dichiarazione cinese del 24 Marzo, che chiedeva la sostituzione del dollaro con una valuta di riserva internazione, era da interpretarsi sia come un "saggiare il terreno" sia come un avvertimento: un sondaggio per valutare le forze in campo, in particolare all'interno del G20, quando si tratta di spostarsi nell'era post-dollaro, ed un avvertimento costruttivo o distruttivo (in funzione della reazione all'idea precedente) inviato ai vari protagonisti globali.

“Un giocatore responsabile (e Pechino è uno di questi) deve inviare - si legge nel report - segnali silenziosi agli altri giocatori che potrebbero seguirlo o aiutarlo a pianificare il lavoro. La preparazione e l'implementazione di una Grande Fuga richiede la collaborazione di molti partner, e nessuno di quelli che sarebbero stati disponibili a collaborare deve finire nei guai perché non è stato informato”. Come sempre nulla da eccepire. “In ogni caso - si continua a leggere nel report - grazie alla saggiatura del terreno da parte della Banca Centrale Cinese, le autorità cinesi hanno la conferma dei seguenti punti:

1. Una buona fetta degli altri membri del G20 è chiaramente favorevole ad un passaggio rapido all'era post-dollaro, in particolare Russia, India, Sudafrica, Argentina e Brasile. Pechino, dunque, non sarà sola quando avverrà il grande salto.
2. USA e UK hanno rifiutato di considerare qualsiasi mossa nella direzione dell'era post-dollaro.
3. L'Europa non è in grado di prendere nessuna decisione veramente ferma riguardo al suo vecchio protettore, gli USA”.

Pechino si sta quindi dedicando ad annunci sempre più chiari e netti, sempre in modo graduale, a volte anche seguiti da vaghe smentite, provenienti da fonti meno importanti, ma che circolano ampiamente e rapidamente grazie ai media finanziari. Sta dunque aumentando la sua libertà di espressione senza danneggiare particolarmente il valore dei T-bonds o del dollaro. Quest'ultimo aspetto è effettivamente la necessità assoluta del governo cinese: evitare in qualunque modo un crollo del valore dei T-Bond e del dollaro prima che sia fuggita dalla prigione del dollaro.

LEAP/Europe2020 ritiene che, nei prossimi mesi, la Cina rivelerà l'esatto significato di queste esigenze; un fine o una necessità? Se si tratta di un fine, allora Washington, Londra e i media internazionali della finanza hanno ragione: Pechino seguirà i passi di Washington, cercando di aumentare la sua influenza nelle decisioni americane. Se è una necessità, allora il nostro team ha ragione e i leader cinesi si daranno da fare per vendere i loro T-bonds ed i loro dollari scegliendo il miglior prezzo possibile, sempre evitando di generare scompensi volti a ridurre il valore di questi beni il più a lungo possibile.

Tuttavia, è difficile immaginare, in contrasto con la prima opzione, un’America pacificamente ostaggio della volontà cinese. Si potrebbe mettere in relazione questa situazione finanziaria tra Usa e Cina con le forti critiche sul Tibet e con la tensione creata volutamente dalla marina americana verso quella cinese nel Mare Cinese Meridionale.

Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l’inizio di una strategia della tensione per portare a qualche “incidente” capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l’esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese. E’ probabile, infatti, che oggi, per i circoli della destra repubblicana, del Pentagono e della lobby israeliana, sia insopportabile l’idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino.

L’antico e collaudato metodo di ricorrere alla forza per cambiare questa situazione è, purtroppo, nella storia americana passata e recente. Non si creda, infatti, che i Rumsfeld e i Cheney siano diventati tranquilli pensionati intenti alle cure dei nipotini. Oggi è in ballo la fine dell’egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine.

Obama sembra molto popolare ma le forze a lui ostili sono in grado di organizzare un “casus belli” prescindendo dalla volontà della sua amministrazione, contando su pezzi di servizi segreti, su molti generali del Pentagono, su tutta la lobby economica del complesso militare-industriale statunitense. Sono poteri forti in grado di colpire, e il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l’enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa. C’è da sperare, naturalmente, che ciò non accada. Ma se la crisi americana non arretra, la voglia di uscirne a spese degli altri, fidandosi della forza militare, potrebbe non essere cosa così remota.


L'oro di riserva
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 28 Aprile 2009

Mille e cinquantaquattro tonnellate di oro possono essere un sogno per i comuni mortali, oppure ordinaria amministrazione per le riserve di uno Stato come gli Usa, che ne possiedono una quantità otto volte superiore; persino l'Italia ne ha di più. Per la Cina, però, sono improvvisamente tante. Nei giorni scorsi Pechino ha annunciato di aver portato a tale ammontare le sue riserve auree, quasi raddoppiandole negli ultimi anni. Confermando di voler gradualmente smarcarsi dalla dipendenza dall'economia americana, che lei stessa ha contribuito a creare finanziando per anni l'indebitamento di Washington.

Acquistando in particolare metallo prezioso prodotto in patria, la Cina ha così messo da parte oro come una formichina. La quantità attualmente nei suoi forzieri rimane trascurabile: rappresenta l'1,6 percento delle sue enormi riserve in valuta straniera, che ammontano a 2.000 miliardi di dollari di cui circa due terzi proprio in biglietti verdi, grazie all'acquisto massiccio di Bot americani.

Ma, messo insieme a dichiarazioni e altri fatti degli ultimi mesi, il quasi raddoppio delle riserve auree del gigante asiatico contribuisce a rendere evidente la volontà politica di raggiungere una serie di obiettivi a lungo termine: accrescere l'autonomia della Cina sulla scena economica globale, stimolare la domanda interna e ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni, fare dello yuan una valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale. Il problema è che Pechino ha le mani legate, perché nel perseguire questi scopi rischia di veder svalutare il suo investimento multimiliardario in dollari.

Per anni, la Cina ha accumulato dollari mantenendo basso - secondo Washington troppo basso - il valore dello yuan, e favorendo così la crescita delle sue esportazioni. I risparmi dei cinesi finanziavano i consumi oltre le proprie possibilità degli americani, dando vita allo squilibrio reso evidente dall'attuale crisi. Negli ultimi tre anni, da quando Pechino ha abbandonato il cambio fisso tra la sua moneta e il biglietto verde, lo yuan si è leggermente rivalutato.

E se prima erano gli Usa a fare pressioni sulla Cina, ora è Pechino a mostrarsi baldanzosa: a marzo il direttore della Banca centrale cinese ha buttato lì l'idea che il dollaro non debba più essere la valuta mondiale di riferimento, e successivamente il premier Wen Jiabao ha auspicato una maggiore supervisione internazionale delle scelte economiche degli Stati Uniti. Proprio perché da esse dipende anche il benessere della Cina.

Tali preoccupazioni, alimentate dal fervore nazionalistico che accompagna l'ascesa del gigante asiatico, in Cina sono sentite non solo dagli economisti: nell'ultimo anno, un libro complottistico dal titolo "Currency Wars" (Guerre valutarie) ha venduto oltre un milione di copie. La tesi principale è che l'Occidente trama per frenare lo sviluppo cinese; da questo punto di vista, gli Usa avrebbero interesse a svalutare il dollaro non solo per rilanciare la propria economia travolta dalla crisi, ma anche per far perdere valore alle riserve di Pechino.

In realtà, gli Stati Uniti e il mondo hanno un tremendo bisogno della Cina, come si è visto anche dai sempre più frequenti auspici di vedere i cittadini cinesi aumentare i propri consumi, per rimpiazzare quelli degli americani. Sono movimenti tettonici che prenderanno decenni, ma è vero che Pechino sembra avere intenzione di percorrere questa strada: i suoi piani di stimolo all'economia premono proprio su questo tasto, sul progressivo potenziamento della domanda interna, e sulla diversificazione della sua politica monetaria. Far calare bruscamente le sue riserve in dollari sarebbe controproducente: se ne mettesse sul mercato una quantità consistente, il biglietto verde diventerebbe carta straccia, le esportazioni cinesi crollerebbero e le riserve cinesi in dollari brucerebbero gran parte del loro valore. Ma a lungo termine, l'obiettivo è comunque di farle lentamente scendere. E cominciare ad accumulare oro contribuisce allo scopo.



Le Borse? Lasciamole perdere, teniamo d'occhio le materie prime
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 17 Aprile 2009

Guardo i listini di Borsa e mi pongo delle domande. A metà della giornata di contrattazioni le piazze europee nella seduta del 16 aprile correvano trainate da Nokia e dai titoli bancari: Ubs guadagna il 5 per cento, Deutsche Bank e Credit Suisse il 4,6, Barclays e Unicredit il 3,5 per cento. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Fine del sogno. I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità calata ai minimi da mesi - l’indice Vix è sceso a 38 dopo aver toccato anche 75 - pompano entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo.

Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi - e quindi dover rendere conto delle loro operazioni - e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di procedura di infrazione presso le varie centrali rischi che dopo novanta giorno intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa è folle, le piazze oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve: l’economia reale, invece, affonda giorno dopo giorno.

Ma volendo volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner.

La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo ora, in questi giorni. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi il prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi.

Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio.

Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiale rari come il titanio, l’indio – utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia - , il rodio – fondamentale per i convertitori catalitici – e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame in febbraio, 375mila in marzo. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento a 4.925 dollari la tonnellata quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.

Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisse – come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard – lo strapotere del dollaro e prevenisse gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e ovviamente si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense.

Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo possibile manipolazione valutarie, garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio e permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire.

Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.