venerdì 21 marzo 2008

Genova 2001: per una memoria di ferro

Sulle gravi responsabilità penali delle forze dell’ordine per quanto accaduto durante il G8 di Genova nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz, il muro di silenzio eretto dalla gran parte dei mainstream media – per non parlare poi della classe politica - è purtroppo risaputo e vergognoso.

In attesa delle sentenze di condanna emesse dal tribunale di Genova, se si eviterà la prescrizione che scatterà nel gennaio 2009, un piccolo squarcio è stato aperto negli ultimi giorni grazie ad alcuni articoli degni di tale nome firmati da Revelli su Il Manifesto e D’Avanzo su La Repubblica.

Qui di seguito i testi integrali.


Il Manifesto, 13 Marzo 2008

La disumana non-notizia
di Marco Revelli

La parola impronunciabile - quella che dovrebbe far scattare chiunque, con un senso di allarme istintivo - è stata pronunciata, in un'aula di tribunale. E non dagli avvocati: dai Pubblici ministeri. Connessa a fatti specifici. A ben individuati imputati. Documentata. Certificata da testimonianze giurate e giudicate vere da una magistratura di solito avara, quando si tratta di «organi dello Stato».

«La tortura è stata molto vicina a Bolzaneto - ha detto la Pm Petruzziello - In quelle ore si è verificata una grave compromissione dei diritti umani». Nel nostro paese sono state praticate, a livello di massa, su oltre 200 persone, con continuità e ostentazione, sevizie, umiliazioni, crudeltà che rientrano tra gli atti previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Non è una notizia, questa?No, a leggere i grandi quotidiani italiani. L'ho cercata a lungo, quasi incredulo, quella notizia - almeno un titoletto, qualche riga, un corsivo, un piccolo editoriale... - sulle prime pagine del Corriere e di Repubblica, che pure, il giorno prima, in un'anticipazione della requisitoria (a pagina 16!) aveva parlato di «trattamenti inumani e degradanti...., dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate sulle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio di capelli, volti spinti nella tazza del water...».

E che mercoledì non ne parla più - un compito già svolto, un fatto già archiviato -, mentre il Corriere la confina a pagina 23, come se si trattasse di cronaca nera, e la Stampa a pagina 20 (con almeno un piccolo richiamo in prima). Per i giovani di Bolzaneto, per i loro oltraggi subìti, non si scomodano gli opinion leader, i Panebianco, i Galli della Loggia, e nemmeno gli Scalfari o le Annunziata. De minimis non curat praetor. È più importante il gossip su Ciarrapico (prima pagina di tutti), sulle squillo del governatore di New York (in prima di Repubblica), sulla moglie di Mastella ...

Non è nemmeno un fatto politico? Ancora una volta no, a porgere l'orecchio al brusio che viene da questa orribile campagna elettorale, tutta all'insegna della virtualità e della simbolizzazione. Evidentemente quei corpi umiliati, quei ragazzi profanati alla loro prima esperienza d'impegno pubblico, non sono simboli sufficientemente maneggiabili, né utili nello spazio degradato della competizione senza principii.

Meglio il faccione di Calearo, i fogli bianchi strappati da Berlusconi, le boutades sulla castrazione chimica di Veltroni, la rincorsa ai santini distribuiti da Ruini. Fanno più colore. «Funzionano», «tirano», come si dice adesso.Qualcuno ha sentito un solo fiato, al centro o da quello che si chiamava fino a ieri il centro-sinistra (lasciamo andare la destra, che quelle torture le ha favorite, le ha prodotte e le ha coperte...), sullo scandalo di Bolzaneto? Sul nostro senso civile finito sotto i tacchi degli anfibi dei medici aguzzini e dei secondini sadici, in una caserma della Repubblica? Quegli stessi che ancora pochi mesi fa guidavano la caccia ai mendicanti e ai lavavetri in nome della legalità, e si stracciavano le vesti di fronte a un migrante privo di permesso di soggiorno, hanno obiettato qualcosa per quegli uomini in divisa che colpivano le ferite aperte, minacciavano di stupro ragazzine minorenni, piegavano a colpi di bastone adolescenti ridotti all'impotenza?Eventi come questi non sono indolori. Scavano un solco. Tracciano un confine. D'ora in poi sarà sempre più difficile mantenere anche solo un terreno di discorso possibile, e aperto, tra queste due Italie: quella piccola, esile, minoritaria fin che si vuole, che non ci sta a digerire tutto, anche il disumano, e quella disposta ormai a passare su tutto e che tutto accetta come «normale». Sarà sempre più difficile continuare a credere anche solo a una riga delle infinite colonne di piombo, e delle stucchevoli prediche sulla nostra bella democrazia, che ci ammanniscono sui giornali. Sarà sempre più difficile, quasi impossibile, continuare ad affidare anche solo un brandello dei nostri progetti e delle nostre speranze a un qualche settore di questo ceto politico indifferente a tutto tranne che a se stesso.

Insomma, sarà sempre più difficile sentirsi parte, anche piccola, di un medesimo paese.Saremo apolidi, forse. O esuli mentali. Può darsi che sia questo l'estremo approdo del bradisismo che si è innescato in questa tormentata transizione italiana: la fuoriuscita dell'Altra Italia dall'Italia ufficiale.

La chiusura definitiva del ciclo apertosi col 1945, e protrattosi per oltre un sessantennio. Non lo so. Ma una cosa è certa: d'ora in poi nessuno si permetta più di farci, dall'alto di un qualche luogo «istituzionale» o da qualche organo di stampa, la predica sul «bene comune», sull'«impegno civile», e della «buona cittadinanza». Perché ogni legittimazione è finita.


La Repubblica, 17 Marzo 2008

Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
di Giuseppe D'Avanzo

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna.

Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta. Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto...». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia. È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa».

La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati. In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno.

Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».

Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?


La Repubblica, 19 Marzo 2008

I silenzi sul Garage Olimpo di Bolzaneto
di Giuseppe D’Avanzo

Il processo per i fatti di Bolzaneto, scrivono i pubblici ministeri nella memoria consegnata ieri al tribunale di Genova, è «un processo dei diritti». Le testimonianze, le fonti di prova raccolte, le timide ammissioni degli imputati, la ricostruzione di quel che è accaduto in una caserma italiana diventata, per tre giorni, un argentino Garage Olimpo parlano della dignità della persona umana, della libertà fisica e morale del cittadino detenuto. Ci ripetono che anche una democrazia è capace di torturare. Che anche la nostra giovane democrazia può avvitarsi, senza preavviso, in una spirale autoritaria, e non solo i regimi che si nutrono dell´annientamento dell´altro per sopravvivere.Ci ricordano che l´umiliazione di un uomo prigioniero e indifeso, abbandonato a un deserto di regole, garanzie e umanità apre un solco profondo tra il cittadino e lo Stato. Ci annunciano come può collassare la cultura stessa della nostra convivenza civile. L´indignazione non può bastare per quel che accaduto a Genova Bolzaneto. Non è sufficiente un sentimento.

Occorrono ragione e intelligenza delle cose. E´ necessario interrogarci con radicalità sulla debolezza delle nostre istituzioni; sui deficit culturali di chi - in alto o in basso - li rappresenta; sulla qualità delle prassi di governo e comando di quelle istituzioni; sulla peculiarità dei meccanismi di selezione dei ceti dirigenti di quelle amministrazioni, sulla loro permeabilità a una volontà - politica, burocratica - che può capovolgere i valori costituzionali. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno ragione i pubblici ministeri di Genova. E´ «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell´uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».

I magistrati sembrano chiedere ascolto, più che al tribunale, a chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia. Bolzaneto, sostengono, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l´ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». E´ un´invocazione, ci pare. Quei magistrati, con misura e rispetto, dicono alla politica, al Parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti».

E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria perché quando si mette in moto è troppo tardi. La violenza già c´è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri - dove i corpi vengono rinchiusi - dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza - e non è il nostro caso - fosse effettiva. L´invito della magistratura di Genova dovrebbe indurre tutti - e soprattutto le istituzioni - a guardarsi da ogni minima tentazione d´indulgenza, da ogni relativizzazione dell´orrore documentato dal processo.

Ora se si prova a esaminare gli umori delle amministrazioni dello Stato, coinvolte nel plumbeo affresco di violenze ricostruito a Genova, si raccoglie soltanto un imperturbabile disinteresse. Non un fiato. Al più, spallucce. In qualche caso, un sorrisetto di disprezzo. Quel che, a buona parte dell´opinione pubblica, appare a ragione una lesione e una grave ipoteca, non lascia traccia nelle istituzioni. Non è nemmeno un amaro ricordo. E´ soltanto un nulla di cui non vale più la pena occuparsi. Non deve essere nemmeno un fatto politico, una questione pubblica - come si doleva qualche giorno fa Marco Revelli - perché la politica guarda da un´altra parte. Distratta? Complice? Inconsapevole? Senza dubbio sorda ai coerenti argomenti di Valerio Onida: «Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedirne reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici».

Forse non si possono usare formule più preoccupate, e tuttavia anche le parole del presidente emerito della Corte costituzionale sono cadute nel vuoto. Il governo in carica tace come se l´affare non lo interpellasse e riguardasse gli altri che governavano nel 2001. Tace il centro-destra, dimentico che quelle violenze si consumarono nel giorno in cui si presentò alla scena del mondo mentre un vice-presidente del Consiglio (Fini) era ospite della "sala operativa" in questura e un ministro di Giustizia (Castelli), nel cuore delle notte, visitava la caserma di Bolzaneto bevendosi la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne. Tace Bertinotti, tace Veltroni come se la promessa di un´Italia «nuova» potesse fare a meno di chiedersi: perché c´è stato l´inferno di Bolzaneto? E quale garanzie abbiamo che non accada più?