giovedì 13 marzo 2008

La farsa del Tribunale ONU per i crimini dei Khmer Rossi

12 Novembre 2007

Dopo quasi trenta anni dalla fine del regime di Pol Pot e dopo circa otto anni di trattative tra il governo cambogiano e le Nazioni Unite per la formazione di un Tribunale internazionale sui crimini commessi dai khmer rossi – è stato istituito nel 2006 ed è composto da 17 giudici cambogiani e 13 stranieri – solo nel giugno scorso si è trovato un accordo in merito alle regole procedurali sugli standard giudiziari minimi da imporre durante le udienze.

Era questo il problema centrale che, dopo anni passati nel tentativo di risolvere una cronica carenza di fondi per la creazione del tribunale, bloccava da mesi la partenza del processo che però comincerà solo agli inizi del 2008, cioè a più di un anno e mezzo dal giuramento ufficiale dei giudici nel palazzo reale della Pagoda d’Argento di Phnom Penh, alla presenza di due monaci buddisti. Riducendo così il mandato triennale del Tribunale internazionale a due soli anni.

Ma, oltre alla necessità dei fondi per implementare il processo (56 milioni di dollari circa chiesti dalla Cambogia alla comunità internazionale), la questione principale era la mancanza di una reale volontà politica da parte del governo cambogiano a perseguire i crimini commessi tra il 1975 e il 1979 dal regime di Pol Pot.
C’era infatti il timore che venissero coinvolti l’attuale primo ministro Hun Sen, al potere dal 1985 ed ex khmer rosso passato poi con i vietnamiti poco prima della loro invasione/liberazione della Cambogia nel 1979, l’ex Re Norodom Sihanouk, che ha abdicato nel 2004 in favore del figlio Norodom Sihamoni, e anche alcuni attuali consiglieri di Hun Sen.
Per anni infatti il primo ministro Hun Sen ha invocato la sovranità nazionale per impedire la costituzione del Tribunale internazionale.

Nel frattempo Pol Pot è morto nel 1998 e Ta Mok, ex capo di stato maggiore dell’allora regime, lo ha seguito nel 2006.
Un altro alto responsabile tra le fila dei khmer rossi, Kaing Khek Ieu, più noto col nome di battaglia Duch, a capo di uno speciale reparto della polizia segreta e direttore della terribile prigione di Toul Sleng dove sono state torturate e uccise circa 15mila persone, era stato arrestato nel 1999 ed è in attesa del processo insieme agli altri due detenuti eccellenti finiti in galera da poco: l’82enne Nuon Chea, “il fratello numero 2” considerato l’ideologo del regime e il 78enne Ieng Sary, l’ex numero 3, all’epoca vice-primo ministro e ministro degli esteri.
Entrambi hanno vissuto in libertà per tutti questi anni e sono invecchiati nelle loro case rispettivamente a Paillin, situata nel nord del Paese al confine con la Thailandia e roccaforte dei khmer rossi importante anche per il traffico di pietre preziose e armi, e a Phnom Penh.

Ora tra i leader dell’ex regime ancora in vita manca all’appello Khieu Samphan, 75 anni, che è stato presidente dell’allora Repubblica democratica di Khampuchea. Si dice che sia scomparso da casa già da più di un anno.

Ma a sparire sono anche i testimoni, come hanno avuto modo di constatare gli avvocati che stanno raccogliendo le prove dei crimini commessi. Molti risultano introvabili, temendo forse di trasformarsi in imputati.
Sono decine di migliaia infatti gli ex khmer rossi di basso e medio livello che tentano di farsi passare per vittime del regime pur avendo partecipato ai crimini. Ci può essere però anche la paura di parlare.
D’altronde non è mai stato avviato un programma di protezione per i testimoni, così come non è stata garantita la sicurezza delle vittime sopravvissute che intendono deporre in tribunale in un Paese il cui governo è tuttora presieduto dall’ex khmer rosso Hun Sen.
A ciò si aggiunga il fatto che i 17 giudici cambogiani sono controllati dal governo e inoltre si dubita della loro preparazione professionale e integrità morale, dal momento che alcuni di essi sembra siano stati coinvolti in passato in indagini per corruzione.

Quindi l’ONU, dopo essere scesa a compromessi con il corrotto sistema giudiziario cambogiano per avere accettato il diktat governativo che ha imposto la nomina di giudici cambogiani all’interno di un Tribunale che per essere veramente internazionale sarebbe dovuto essere composto solo da giudici stranieri, sta in pratica finanziando profumatamente un programma che viene utilizzato dal governo di Phonm Penh per "piazzare" i suoi lacchè nei posti chiave.
Un fatto che non si era verificato ad esempio per l’istituzione dei tribunali per i genocidi in Sierra Leone e a Timor Est, dove tutto l'apparato giudiziario era finito in mano a giudici internazionali

Ma a rendere questo Tribunale e il suo relativo processo una farsa non sono solo gli ostacoli frapposti in passato dal governo cambogiano, i suoi riusciti diktat all’ONU e l’età più che avanzata degli imputati da processare.

Lo sconcertante e farsesco ritardo nell’accertamento della verità chiama in causa infatti anche attori più potenti, come gli Stati Uniti, la Cina e molti Paesi occidentali che per lunghi anni hanno dato, direttamente o clandestinamente, il loro appoggio ai khmer rossi in chiave antivietnamita e quindi antisovietica, poichè Mosca era lo sponsor principale del governo di Hanoi.
Inoltre tutti costoro, fino ai primi anni ’90, hanno fatto in modo che la “polpottiana” Repubblica democratica di Khampuchea conservasse il suo seggio alle Nazioni Unite.

A questo punto è veramente difficile affermare cosa sia più giusto per il popolo cambogiano: ottenere la condanna di qualche ottantenne attraverso un processo farsa compiuto con colpevole ritardo e con la consapevolezza che molti altri criminali e carnefici vivono e continueranno a vivere fianco a fianco alle vittime oppure dimenticare il passato e guardare invece solo al futuro?

Ma soprattutto, dopo questa farsa la sua ferita si chiude definitivamente o si riapre?