mercoledì 3 febbraio 2010

Berlusconi in Israele: come si blandisce un auditorio

Si conclude oggi la visita di tre giorni in Israele del cosiddetto premier, che si è fatto come sempre notare per le sue solite battute del calibro di "Israele rappresenta il più grande esempio di democrazia e di libertà nel Medio Oriente, se non l'unico esempio. Un esempio che ha radici profonde nella Bibbia e nell'ideale sionista", o "Grazie a Israele di esistere", oppure "Sogno Israele nell'Unione Europea", o ancora "Le leggi razziali furono un'infamia. L'Italia trovò la forza di riscattarsi da quell'infamia attraverso la lotta di liberazione dal nazifascismo".

Quest'ultima poi è veramente incredibile. Per la prima volta ha reso omaggio ai partigiani pur di blandire il parlamento israeliano.
Ma d'altronde è risaputo quanto Silvio ami farsi amare, dichiarando tutto e il contrario di tutto a seconda di chi lo sta ascoltando.

E infatti ha pure definito come "una giusta reazione" l'operazione israeliana "Piombo Fuso" del gennaio 2009, che ha semidistrutto Gaza e provocato circa 1400 morti tra i palestinesi.
L'Italia si era già opposta al rapporto Onu redatto da Goldstone nell'ottobre scorso.

Tra l'altro proprio oggi il quotidiano britannico The Independent, citando le dichiarazioni di un alto ufficiale dell'esercito israeliano, scrive che nel corso dell'operazione "Piombo Fuso" l'esercito israeliano ha violato le proprie regole di ingaggio in materia di protezione dei civili.

Non sarebbe stato applicato il principio secondo il quale un bersaglio debba avere un'arma e l'intenzione di usarla per poter essere legittimamente colpito. Una revisione delle regole intesa a ridurre il più possibile i rischi per i militari.

E infatti Israele ha avuto un totale di circa 20 vittime durante "Piombo Fuso", e quasi tutti soldati.
Mentre la maggioranza delle vittime palestinesi sarebbe stata peraltro colpita da aerei teleguidati (i droni) su ordine diretto del quartier generale, e non dai militari dispiegati sul terreno.

Ma non è bastato tutto ciò per blandire il suo auditorio israeliano.
Berlusconi si è anche scagliato duramente contro l'Iran affermando che "In una situazione che può aprirsi alla prospettiva di nuove catastrofi, l'intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire, con parole chiare, univoche e unanimi, che non è accettabile l'armamento atomico a disposizione di uno stato i cui leader hanno proclamato "apertamente" la volontà di distruggere Israele ed hanno negato insieme la Shoah e la legittimità dello stato ebraico [...] Occorre ricercare la più ampia intesa a livello internazionale per impedire e sconfiggere i disegni pericolosi del regime iraniano [...] La via da percorrere è quella del controllo multilaterale sugli sviluppi militari del programma nucleare iraniano, quella del negoziato risoluto, quella delle sanzioni efficaci: bisogna esigere garanzie ferree dal governo di Teheran, impegnando in modo determinato l’Agenzia internazionale per l’energia atomica al controllo ispettivo ed alla verifica continua dei progressi del negoziato [...] E' un dovere sostenere ed aiutare la forte opposizione in Iran".

Ovviamente dall'Iran sono subito giunte reazioni negative.
Kazem Jalali, portavoce della Commissione affari esteri e sicurezza nazionale del Parlamento iraniano ha dichiarato infatti che "Sono dichiarazioni che non potranno aiutare a risolvere i problemi, ma al contrario li renderanno piu' complicati e suonano come un'interferenza negli affari interni di un Paese indipendente".

Ma sicuramente Silvio quando in futuro si troverà di fronte a politici e businessmen iraniani pronuncerà parole completamente diverse...


P.S. Uno spassionato consiglio a Silvio: riveda il suo repertorio di barzellette oppure la smetta di raccontarle. L'ultima in Israele faceva veramente cagare.


Tre giorni in Terra Santa
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 1 Febbraio 2010

Per molti è la più importante visita ufficiale dell'Italia in Israele dal dopoguerra ad oggi. Sicuramente la tre giorni che vede impegnato Silvio Berlusconi in Terra Santa può essere considerata una delle missioni diplomatiche più importanti della sua carriera politica.

Tant'è vero che il presidente del Consiglio è arrivato all'aeroporto di Tel Aviv accompagnato da sei dei suoi ministri: degli Esteri, Franco Frattini; della Difesa, Ignazio La Russa; degli Interni, Roberto Maroni; della Salute, Ferruccio Fazio; dei Trasporti, Altero Matteoli e dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Ad attendere la delegazione italiana c'era il premier israeliano Benjamin Netanyahu che, alla vigilia dell'incontro, aveva dichiarato ai giornalisti: "Israele non ha un amico più grande di Berlusconi nella comunità internazionale".

Le parole del lider di Likud non hanno stupito nonostante l'intervista, ovvia, rilasciata dal Cavaliere al quotidiano Haaretz due giorni prima della sua partenza: «La politica della colonizzazione - ha chiosato il premier - è errata. Israele deve ritirarsi dal Golan». Esternazioni chiare di condanna nei confronti delle misure di allargamento israeliano nei territori palestinesi che ricalcano la linea critica dell'Unione Europea ma che non sembrano, per il momento, aver intaccato i buoni auspici del pre-summit. L'Italia è amica d'Israele, "la migliore che si possa trovare in Europa", e con questi buoni propositi si andrà avanti nel dialogo.

Sul tavolo delle trattative, oltre nuovi negoziati di pace con i palestinesi - che Berlusconi vorrebbe trasferire nella cittadina siciliana di Erice e guidare come mediatore storico - ci sono anche le relazioni economiche tra Roma e Tel Aviv. Negli ultimi anni il partenariato bilaterale ha fatto registrare un giro d'affari di 2 miliardi di euro, ben al di sotto dei 7 miliardi che circolano fra Italia e Iran (terzo nostro partner commerciale).

Un dato, questo, che gli "amici" vorrebbero modificare a loro vantaggio, e farlo al più presto, tanto per ottenere un oggettivo vantaggio monetario quanto per scongiurare un potenziamento smisurato della Repubblica Islamica che attualmente rappresenta lo Stato "anti-ebraico" per antonomasia.

Su questo punto il presidente del Consiglio è stato perentorio e ha auspicato un rafforzamento delle sanzioni Onu se l'Iran non dovesse desistere dai suoi propositi in materia di energia nucleare.

Dopo aver sceso le scalette dell'aereo che l'ha portato in Terra Santa il premier ha tenuto un breve discorso nel quale ha ribadito: "il nostro amore verso Israele. Abbiamo l'orgoglio di essere noi con la cultura giudaico-cristiana, alla base della civiltà europea". Poi il presidente si è lanciato a favor di fotografi in un caloroso abbraccio con Netanyahu: "caro Silvio - ha detto il premier israeliano- siamo molto felici di averti a Gerusalemme".

Il cavaliere, per tutta risposta, ha sfoderato una delle boutade che l'hanno reso famoso a tutta la stampa internazionale: "Ho un sogno - ha affermato davanti a flash e microfoni - che è quello vedere Israele fra i paesi dell'Unione Europea".

L'invenzione mediatica, riportata dai giornali di tutto il mondo, non impedirà comunque al primo ministro italiano di glissare sui delicati dialoghi con la controparte mediorientale. Al già citato consolidamento economico con Israele nella sua agenda degli incontri Berlusconi dovrà affrontare la spinosa questione della collaborazione tra l'agenzia spaziale iraniana e la compagnia italiana 'Carlo Gavazzi' per la costruzione del satellite Mesbah 2. Un punto, questo, che il governo di Tel Aviv non è intenzionato a tralasciare.

Il Mossad, sicuro che il il congegno spaziale che Teheran manderà in orbita servirà a spiare Israele, sta infatti esercitando pressioni su Netanyahu affinchè si faccia chiarezza sulla natura della collaborazione fra gli ingegneri dell'intelligence del presidente Mahmud Ahmadinejad e la ditta Gavazzi.

"Fingendo di ignorare il lato oscuro delle relazioni estere di Berlusconi - ha scritto il giornale specializzato Debka file - il premier israeliano non fa favori alla sua credibilità e a quella di Israele in patria o all'estero".


Tra Israele e Iran
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 2 Febbraio 2010

Le dichiarazioni politiche di Berlusconi e Frattini a Gerusalemme e gli affari italiani con Teheran. I punti caldi sottolineati dalle veline del Mossad

"La sicurezza d'Israele prima di tutto". Questa la linea unica della rappresentanza italiana in Israele dopo la prima giornata di lavori a Gerusalemme. Lo ha detto, con esplicito riferimento alla Repubblica Islamica dell'Iran, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: "Il problema della sicurezza in Israele è fondamentale. Ora ancor di più perché c'è uno Stato che prepara l'atomica, uno Stato che ha una guida che ricorda personaggi nefasti del passato".

L'accostamento storico fatto dal Cavaliere è quello fra la Germania nazista di Adolf Hitler e l'Iran di Mahmud Ahmadinejad. Poco prima delle dichiarazioni del premier il suo ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva rassicurato tutti dai microfoni de La7: "Bloccheremo nuovi investimenti con l'Iran. Non abbiamo segreti con i nostri amici israeliani - ha spiegato il capo della Farnesina - daremo loro tutti i dati del nostro interscambio con l'Iran".

La presa di posizione del governo di Roma arriva dopo le critiche sul giro d'affari che legano l'Italia al paese degli ayatollah: pari a circa 7 miliardi di euro e più del triplo rispetto a quelli con Israele (2 miliardi).

La manovra sotto la luce dei riflettori è, ancora, quella fra Teheran e l'italiana Carlo Gavazzi Space per la costruzione del satellite Mesbah (lanterna) che secondo l'intelligence israeliana servirebbe all'Iran per spiare lo stato ebraico.

Una vicenda chiarita dalla stampa italiana già qualche mese fa dopo la lettera inviata da Roberto Aceti, General Manager di Gavazzi, al Corriere della Sera e volta a pronunciare l'estraneità dell'azienda riguardo al possibile uso militare del vettore spaziale commissionato dall'Iran.

Il 10 novembre scorso Aceti scriveva al quotidiano di Via Solferino che il Mesbah è "destinato ad un uso esclusivamente civile ed in particolare alla distribuzione di messaggistica SMS in banda VHF/UHF nelle aree del paese non coperte da infrastrutture di telecomunicazioni terrestri" precisando che "il satellite si trova presso Carlo Gavazzi Space". Tutto pacifico e nessuna manovra che possa far pensare a una politica estera italiana dalla doppia faccia.

Ma tutto ciò agli israeliani non sembra bastare. Anzi, stando a quanto pubblicato, proprio alla vigilia della visita diplomatica, dal quotidiano Debka File (vicino agli ambienti del Mossad), sembrerebbe proprio che i servizi segreti più famosi al mondo non credano assolutamente all'intero affaire e continuino a sostenere non solo la tesi del satellite spia di fabbricazione iraniana ma anche quella di una serie di legami commerciali pericolosi fra Italia e Iran.

Prima dell'arrivo di Berlusconi in Terra Santa il quotidiano ha pubblicato un report esclusivo dal titolo "Il commercio tra Italia e Iran prospera, e sostiene il programma nucleare di Teheran".

Nell'articolo il Debka poggia la propria teoria del "lato oscuro della politica estera di Berlusconi" su sette pilastri politici e commerciali. Primo fra tutti quello espresso davanti all'Unione Europea dallo stesso ministro Frattini.

Sull'allargamento delle sanzioni all'Iran, il responsabile della Farnesina - scrive il sito israeliano - ha consigliato a Bruxelles di "non bruciare ogni ponte perchè l'Iran è una figura chiave e noi dobbiamo evitare queste [sanzioni] che sono connesse all'orgoglio nazionale iraniano".

Un proclama che Debka fa risalire all'inizio dell'anno e che sembra, ora, completamente ribaltato da quanto sostenuto dal capo della nostra diplomazia a Gerusalemme.

Il Mossad ha svelato, poi, alcuni importanti collegamenti fra oltre 1000 aziende italiane, incoraggiate da Roma a investire in Iran, e la Repubblica Islamica. "Fra queste - continua il rapporto - è incluso il gigante energetico Eni, la Fiat Ansaldo, la Danieli-Dufuerco e la Maire Technimont [...] che solo nell'ultimo mese ha firmato un contratto da 220 milioni di euro per l'acquisto di gas dall'Iran". Tra gli altri l'Iveco, gruppo Fiat, starebbe "rifornendo l'esercito Iraniano e la Guardia rivoluzionaria con una flotta di camion pesanti".

Per ora l'Italia ha promesso un blocco su nuovi possibili investimenti - che comunque non intaccheranno i sette miliardi assicurati - e dato del nazista al presidente iraniano, non certamente famoso per la sua diplomazia.
Almeno a parole la delegazione governativa di Roma prospetta un cambio di rotta improvviso. Ma resta ancora da vedere se alle parole seguiranno i fatti.


Il Kissinger di Arcore
di Zvi Shuldiner - www.ilmanifesto.it - 2 Febbraio 2010

Arriva un vero amico del governo di Israele, come ribadisce in una lunga intervista pubblicata da Haaretz. Uno screditatissimo premier italiano che sarà ricevuto da uno screditatissimo ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, e poi incontrerà a Gerusalemme uno screditato premier israeliano, Benjamin Netanyahu.

Andiamo con ordine. Sono screditati - forse - sulla scena internazionale e in larghi settori dell'opinione pubblica liberale. Ma in realtà arriva qui un popolarissimo premier italiano, di un'Italia in cui si manifestano sintomi espliciti di razzismo e fascismo che hanno portato di recente a diversi incidenti a sfondo xenofobo.

Lo riceverà un ministro degli esteri molto popolare e molto razzista che lo condurrà a un molto popolare primo ministro che abbonda in dichiarazioni demagogiche mentre si fa sempre più grave l'occupazione israeliana, continua la costruzione di insediamenti coloniali e il processo di pace, al di là delle dichiarazioni di facciata, è paralizzato. Arriverà in una Gerusalemme dove il governo israeliano va avanti con la sua politica di spoliazione dei palestinesi che perdono le loro case per far posto ai coloni ultrà.

Nella situazione internazionale assai nebulosa in cui ci troviamo, può essere che Berlusconi appaia come uno statista equilibrato che arriva dopo aver fatto alcune dichiarazioni che di certo non sono piaciute ai suoi amici nel governo israeliano.

Berlusconi ha risposto per iscritto alle domande di Haaretz, il più serio e prestigioso quotidiano di Israele. Dopo che sono state pubblicate sul numero di domenica, lunedì il giornale ammoniva il governo israeliano «ad ascoltare i consigli di un amico». Berlusconi arriva preceduto da alcune affermazioni che fanno ricordare i suoi predecessori democristiani e Bettino Craxi.

Mentre la sinistra italiana non è entrata nella storia per la sua politica estera e ha cercato di tergiversare sui problemi reali, la Dc, Craxi e ora Berlusconi si dimostrano più coscienti degli ampi interessi reali dell'Italia in Medio Oriente e per questo, in generale, hanno adottato una politica più equilibrata.

Negli ultimi anni il commercio italiano con l'Iran ha superato gli otto miliardi di euro. Più di mille compagnie italiane fanno affari con la Repubblica islamica, ciò che converte l'Italia nel primo partner commerciale europeo dell'Iran.

La Fiat (attraverso la Iveco), l'Eni, l'Ansaldo e molte altre sono una realtà che di certo non può essere trascurata dal capo del governo italiano, che per di più vanta una rapporto molto amichevole con il russo Vladimir Putin, altro esponente di una linea che non è necessariamente quella di Barack Obama nella regione.

Le dichiarazioni di Berlusconi hanno avuto qui una grande ripercussione perché non si è limitato a riferirsi ai palestinese ma ha anche toccato alcune vacche sacre di Israele.
Con grande erudizione Berlusconi cita Kissinger, che disse che la guerra in Medio Oriente non è possibile senza l'Egitto e la pace senza la Siria.

Per cui il premier italiano si approssima ai francesi e ai turchi e afferma esplicitamente che per arrivare alla pace siro-israeliana bisogna restituire le alture del Golan alla Siria.

Come se non bastasse, Berlusconi dice agli israeliani, «con una mano sul cuore, come un amico sincero», che la politica di Israele rispetto agli insediamenti è sbagliata e costituisce un serio ostacolo al processo di pace. Che dirà l'«amico di Israele» sull'Iran di Ahmadinejad?

In questi giorni tristi per le prospettive di una soluzione pacifica del conflitto, le parole di Berlusconi suonano un poco meglio di quelle, ad esempio, di un Tony Blair.

Tuttavia è necessario leggerle in un contesto più generale, pieno di florilegi retorici. Berlusconi, come Blair, vuole mostrare di essere cosciente e impegnato nella grande lotta contro il terrorismo internazionale, di capire il passato e Auschwitz (deve esseresi dimenticato dei suoi positivi commenti sul passato italiano: «con Mussolini non ci furono esecuzioni di ebrei»..., vero, perché il buon Duce li spedì ad Auschwitz).

Berlusconi sembra avere altrettanto bisogno di questa visita in Israele quanto ne aveva a suo tempo Gianfranco Fini. Fini si appoggiò alla visita in Israele per liberarsi del suo passato fascista e recuperare una collocazione internazionale più accettabile.

Berlusconi, lo stesso che ha parlato di un Obama «abbronzato», che ha perso ogni credito per via della corruzione e dei presunti vincoli con la mafia, delle note storie sulle sue feste, le prostitute e gli scandali, di un dominio senza precedenti in Occidente sui mezzi di comunicazione, ha forse la necessità di ripulire la sua immagine e crede di poter ottenere in Israele - dove inizierà la sua visita con una puntata a Yad Vashem, il museo dell'olocausto - un visto di buona condotta per poi potersi muovere più a suo agio negli Stati uniti e in una Europa che lo vede più come un pagliaccio molesto che come uno statista rispettabile.

In questi tre giorni di visita, sarà interessante vedere dove si collocherà il punto di equilibrio fra le sue parole di questi ultimi giorni e la discussione che avrà con un governo israeliano sempre più impegnato ad appesantire le pressioni su un importantissimo partner commerciale dell'Italia qual è l'Iran di Ahmadinejad.


L'asse Roma-Teheran
di Giulio Meotti - http://online.wsj.com - 14 Gennaio 2010

Quando si tratta di placare la Repubblica Islamica, nessun'altra nazione occidentale si china in giù quanto l'Italia.

Tra l'indignazione internazionale sulle brutalità del regime iraniano al proprio popolo, il Ministro degli Esteri Italiano Franco Frattini, ammonisce l'Europa: " Non si devono chiudere i ponti con l'Iran che è una figura chiave nella regione".

Affinché si respinga ogni azione militare per fermare il programma dell'armamento nucleare di Teheran, Frattini ha esortato l'Occidente ad “evitare quelle sanzioni che colpiscono l’orgoglio nazionale degli iraniani”.

Quel che può sembrare un ingenuo appello per una più riuscita diplomazia, può essere facilmente interpretato come un invito a salvaguardare gli interessi lucrativi delle imprese.

Per comprendere le preoccupazioni di Frattini sull’orgoglio nazionale iraniano si deve sapere che dopo la Germania – dove queste false polemiche contro le sanzioni economiche hanno grande successo – l’Italia è il più importante partner commerciale Europeo dell’Iran.

La lista delle circa 1000 compagnie italiane attive in Iran include nomi del calibro di Eni – il gigante energetico è il più grande partner commerciale Europeo dell’Iran, secondo la Camera di Commercio italo-iraniana – nonché FIAT, Ansaldo, Maine Tecnimont, Danieli e Duferco.

Le compagnie italiane non si occupano solo dei settori civili o energetici (la Maine Tecnimont ha appena concluso un affare di 200 milioni di euro per le forniture di gas in Iran) ma riforniscono il regime militare, hanno contribuito al satellite dell’Iran e forse anche al programma delle armi nucleari.

Prendiamo il caso della Carlo Gavazzi Space. Questa compagnia italiana ha contribuito con l’Iran per il suo programma di satelliti Meshab per le telecomunicazioni. “I satelliti per le telecomunicazioni” possono essere facilmente deviati per scopi militari e usati, per esempio, come satelliti spia o più minacciosamente, per favorire la localizzazione di attacchi nucleari.

Nonostante questo rischio, il progetto Mesbah ha avuto il sostegno politico di Roma, come La Stampa ha riportato in questi giorni. L’ambasciatore italiano a Teheran di allora, Riccardo Sessa, era presente alla cerimonia della firma dell’affare nel 2003, secondo l’agenzia ANSA.

Secondo i termini dell’accordo, la Carlo Gavazzi Space, non solo vende il prodotto finito, ma anche il trasferimento di tecnologie e know-how.

In una relazione del progetto Meshab, pubblicata su internet nel 2005, L. Zucconi, dirigente della Carlo Gavazzi Space, spiega che la sua compagnia “ha lavorato in stretta cooperazione con l’ ITRC (Iran Communications Research Center)/IROST (Iranian Reseach Organization for Science and Tecnology) nella progettazione, nello sviluppo e nella produzione del sistema MESBAH...il Modello di Volo è stato prodotto in parte in Italia e in parte in Iran, con il piano della suddivisione del lavoro definito con ITRC/IROST…Il satellite Mesbah sarà controllato da una Ground Station situata a Teheran, gestita dal personale dell’ ITRC/IROST. I 1000 terminali usati per il sistema verranno prodotti dalle industrie iraniane”.

“Avendo iniziato il progetto Mesbah, la Repubblica Islamica dell’Iran ha acquisito strutture e capacità spaziale, facendo dell’Iran un nuovo protagonista della comunità spaziale pronto ad affrontare nuovi e impegnativi progetti.” Carlo Gavazzi Space “guarda avanti ad una futura cooperazione”.

Due mesi fa, il Generale Mahdi Farahi, dirigente dell’Industria Iraniana Aereospaziale, disse che la Carlo Gavazzi Space vorrebbe contribuire al lancio nello spazio del modello successivo, il Mesbah-2. La compagnia italiana ha però smentito.

Chiedendogli dei loro affari iraniani, il direttore generale della Carlo Gavazzi Space, Roberto Aceti, mercoledì mi disse che la sua azienda si fida delle “informazioni Iraniane a proposito dell’utilizzo finale del nostro satellite” , scartando ogni possibilità di un uso militare del loro “hardware”.

Un altro esempio è l’IVECO, succursale della FIAT. La truckmaker, fin dai primi anni 90, ha consegnato in Iran migliaia di veicoli, e sul suo sito web si vanta della linea di assemblaggio joint-venture in Iran.

Il problema è che alcuni di questi camion, come mostrato nella foto a qui vicino [accanto al titolo N.d.r.], possono essere anche usati per il trasporto dei missili iraniani.

I membri dell’Opposizione Iraniana dicono che questi camion vengono usati anche per altri scopi sinistri: le pubbliche impiccagioni degli omosessuali e dissidenti. Io ho visto una foto che mostra queste esecuzioni su un camion IVECO, durante una mostra a Roma nell’ottobre 2007, organizzata dalla più grande organizzazione italiana contro la pena di morte, “Nessuno tocchi Caino”.

Maurizio Pignata, direttore dell’ufficio stampa dell’IVECO, mercoledì mi assicurò che i loro veicoli, come quello nella foto con il missile a Teheran, “sono venduti per scopi civili”. Aggiunse tuttavia che la compagnia “non può sapere gli ulteriori utilizzi dei suoi camion. La fotografia del carro con il missile mostra un veicolo IVECO convertito per scopi differenti. In Cina usano i nostri camion per le pubbliche esecuzioni dei prigionieri. Quindi noi non possiamo sapere se i nostri veicoli vengono usati in Iran per scopi militari o repressivi”.

Anche la Guardia Rivoluzionaria – il cui ruolo è quello di proteggere il regime e formare i terroristi – beneficia dell’ingegneria italiana. Le forze di sicurezza paramilitari acquistarono i progetti del pattugliatore “Levriero” della compagnia italiana FB Design nel 1998.

Quando i media italiani riportarono questo e altri affari che questa compagnia concluse con gli Iraniani, il fondatore e proprietario della FB Design, Fabio Buzzi, fu sorprendentemente franco: “E’ vero, non è un mistero, ho venduto barche e tecnologie agli iraniani”, disse all’ANSA nel 2008.

“Noi vendiamo regolarmente progetti e tecnologie ai servizi segreti iraniani”, ammise. Buzzi disse poi nella stessa intervista che interruppe gli affari con gli iraniani solo dopo che dei funzionari degli USA lo interrogarono, nel 2005 sulle forniture alla Guardia Rivoluzionaria”.

Citando fonti del Pentagono, Emanuele Ottolenghi scrisse nel suo libro del 2009, “Under a Mushroom Cloud: Europe, Iran and the Bomb”, che la copia iraniana del Levriero dell’FB Design faceva parte della flotta della Guardia Rivoluzionaria e sembrava intenzionato a provocare uno scontro con tre navi da guerra statunitensi, due anni fa. Nel gennaio del 2008, nello stretto di Hormuz, queste barche si avvicinarono pericolosamente ai vascelli americani, minacciandoli via radio.

Gli italiani potrebbero avere, anche se inconsapevolmente, contribuito a proteggere il programma nucleare dell’Iran. Un portavoce della Sali la settimana scorsa mi disse che l’impresa stava lavorando a diversi progetti di tunnel da costruire in Iran, dal valore di oltre 220 milioni di euro, inclusa la metropolitana di Teheran e la galleria idraulica nel Nasud e nel Kerman.

Il sito web della compagnia dice che una delle trattative si è appena conclusa, inclusa anche la vendita di attrezzature e assistenza tecnica alla compagnia iraniana Ghaem, una ditta delle Guardie Rivoluzionarie, secondo il Tesoro degli Stati Uniti.

Il know-how tecnico e i macchinari per la costruzione dei tunnel sono ovviamente risorse fondamentali per gli sforzi del regime per nascondere gli impianti nucleari.

“I rapporti dei servizi segreti hanno più volte suggerito che gran parte del programma nucleare clandestino si sta attuando sotto terra, nei bunker che sono accessibili attraverso i tunnel – tunnel che solo con la tecnologia come quella fornita dalla [società tedesca] Wirth e Seli si possono costruire”, un rapporto del 2008 del Centro Studi Strategici israeliano Begin-Sadat..

Quando gli chiesi dei suoi affari iraniani, il presidente della Seli, Remo Grandori , mi disse mercoledì che “le nostre macchine e le nostre abilità non vengono usate per scopi militari, altrimenti non avremmo avuto l’autorizzazione dal Ministro degli Esteri Italiano”.

Poi lo pressai un po’ e riconobbe che “i tunnel Seli sono come larghe miniere. L’Iran può di certo usare quei tunnel per nasconderci le armi, ma non sono a conoscenza di questo”.

Grandori aveva anche intuizioni interessanti nel sostegno di Roma per le aziende italiane che cercavano dei contratti con gli iraniani. “L’ambasciata italiana a Teheran ci fa da intermediario per gli affari, ci aiuta a riempire l’ampio divario di attrezzature creato dalle restrizioni degli Stati Uniti. C’è inevitabilmente un ruolo politico nei nostri affari”.

Nonostante le sanzioni internazionali contro l’Iran, le esportazioni italiane verso la Repubblica Islamica sono aumentate nel 2008 del 17% con 2.17 miliardi di euro secondo l’Ufficio Statistico Italiano.

Nello stesso anno, il commercio globale è aumentato anch’esso del 17% con 7 miliardi di euro, rappresentando così più di un quarto del totale degli scambi dell’UE con l’Iran. Negli ultimi tre anni l’Italia è stato il partner commerciale europeo N°1 dell’Iran.

“L’Iran e l’Italia sono stati grandi rivali e due grande potenze nei tempi antichi, ma nel mondo contemporaneo sono grandi partners”, la Camera di Commercio italo-iraniana proclama con orgoglio sul suo sito web.

Creata nel 1999 in seguito a un accordo di cooperazione italo-iraniano firmato tre anni prima dal precedente Primo Ministro Romano Prodi, la Camera di Commercio italo-iraniana oggi è la più grande delle camere bilaterali in Italia.

Trai suoi membri principali non ci sono solo imprenditori, ma anche funzionari di alto rango del governo di entrambi le parti, tra cui Cesare Ragaglini, ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Alberto Bradanini, ambasciatore italiano a Teheran, Amedeo Teti, direttore delle politiche commerciali presso il Ministero per lo Sviluppo Economico, e Fereidoun Haghbin, ambasciatore iraniano a Roma, che serve come presidente onorario del consiglio.

Il complesso politico-industriale italo-iraniano fu messo in piena mostra durante una parata militare a Teheran nel 2008, in cui lo slogan “Israele deve essere cancellata dalla carta geografica” fu scritto sui missili Shihab-3, che possono raggiungere lo stato ebraico.

A differenza di altri paesi dell’Unione Europea che hanno evitato di mandare emissari in questo raduno dell’odio, Vittorio Maria Boccia, addetto militare dell’Italia a Teheran, era seduto giusto in mezzo tra gli Ayatollah e i generali iraniani. Un altro diplomatico occidentale che ha assistito allo spettacolo è stato un collega del signor Boccia. Lo chiamano l’asse Roma-Berlino-Teheran.

Il robusto legame tra l’Italia e l’Iran ha infastidito anche l’amministrazione Obama. Alla domanda sui rapporti di Roma con Teheran, David Thorne, l’ambasciatore statunitense a Roma, ha detto ai giornalisti – dopo che ha assunto l’incarico di ambasciatore due mesi fa – che “ci sono alcune posizioni dell’Italia in politica estera che continuano a preoccuparci”.

La politica di Roma verso l’Iran, tuttavia, continua a seguire un antico proverbio romano. “Pecunia non olet”, o “i soldi non hanno odore”. Quando gli si chiede dei suoi affari con l’Iran, l’amministratore delegato dell’ ENI, Paolo Scaroni ha detto alla rivista Forbes nel 2007: “Ho intenzione di rispettare le leggi italiane ma non quelle americane. Il petrolio non si trova in Svizzera”.

L’Italia è come le due facce del Dio romano Giano. Retoricamente, Roma fa parte del fronte occidentale contro il regime iraniano. Berlusconi ha anche definito Ahmadinejad “Hitler”. Ma quando si tratta di tradurre questa retorica in politica estera, gli interessi dei business vincono su tutto il resto.

Il mese prossimo, Berlusconi, che afferma di essere un grande amico dello stato ebraico, parlerà al parlamento israeliano.

Potrebbe essere una buona occasione per lui di dimostrare la sua amicizia annunciando finalmente dure sanzioni economiche contro l’Iran.


Iran, Cosa vogliono gli ebrei iraniani
di Roger Cohen - www.khaleejtimes.com - 27 Febbraio 2009
Traduzione a cura di UNIMED-IlChiosco


L’Iran è una realtà complessa, fatta di numerose etnie e minoranze religiose, che hanno vissuto storie di convivenza accanto a episodi di brutale repressione. La realtà degli ebrei iraniani, una comunità antichissima tuttora vitale in Iran, fra millenaria tolleranza e ostilità recenti, viene raccontata da Roger Cohen, noto commentatore del New York Times

ESFAHAN - In Piazza Palestina, dal lato opposto della moschea chiamata al-Aqsa, vi è una sinagoga dove gli ebrei di questa antica città si riuniscono all’alba. Sopra l’ingresso vi è uno striscione che dice: “Congratulazioni per il 30° anniversario della Rivoluzione Islamica dalla comunità ebraica di Esfahan.”

Gli ebrei dell’Iran si tolgono le scarpe, avvolgono cinghie di pelle attorno alle braccia per allacciare i filatteri, e prendono posto. Presto il sinuoso mormorio delle preghiere ebraiche attraversa la sinagoga stipata, con i suoi deliziosi tappeti e le sue misere piante. Soleiman Sedighpoor, un vecchio commerciante con un negozio pieno di tesori, dirige la funzione dal podio sotto al lampadario.

Ero stato a trovare Sedighpoor, un uomo di 61 anni dagli occhi vivaci, il giorno precedente nel suo piccolo negozio polveroso. Mi aveva venduto, con un po’ di riluttanza, un braccialetto di madreperla ornato con miniature persiane. “Il padre compra, il figlio vende”, aveva borbottato prima di invitarmi alla funzione.
Accettando, gli avevo chiesto cosa pensasse dei cori “morte a Israele” - “Marg Bar Esraeel”- che accompagnano la vita in Iran.

“Lasciategli dire ‘morte a Israele’”, ha detto, “sono in questo negozio da 43 anni e non ho mai avuto un problema. Ho visitato i miei parenti in Israele, ma quando vedo cose come l’attacco a Gaza, anche io manifesto come un iraniano.”
Il Medio Oriente è un quartiere scomodo per le minoranze, persone la cui stessa esistenza è un rimprovero alle definizioni contrapposte di identità nazionali e religiose. Eppure sono forse 25.000 gli ebrei che vivono in Iran, Paese che ne ospita la comunità più grande, insieme alla Turchia, nel Medio Oriente musulmano.

Ci sono più di una dozzina di sinagoghe a Tehran; qui a Esfahan una manciata di esse accoglie circa 1.200 ebrei, superstiti di una comunità antica più di 3.000 anni. Nel corso dei decenni, fra la nascita di Israele nel 1948 e la Rivoluzione Islamica nel 1979, il numero degli ebrei iraniani è diminuito di circa 100.000 persone. L’esodo è stato però molto meno completo rispetto a quello dai Paesi arabi, dove risiedevano più di 800.000 ebrei al momento della nascita di Israele.

In Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, e Iraq – Paesi in cui vivevano più di 485.000 ebrei prima del 1948 – ne rimangono meno di 2.000. L’ebreo arabo è ormai scomparso. L’ebreo persiano se l’è passata meglio. Di sicuro, il ciclo di guerre (a quanto pare non ancora conclusosi) di Israele è avvenuto con gli arabi, non con i persiani, e ciò spiega alcune delle discrepanze.

Eppure, c’è un mistero che ancora aleggia sugli ebrei d’Iran. È importante decidere cosa sia più significativo: le invettive di annientamento anti-israeliane, la negazione dell’Olocausto e altre provocazioni iraniane – o la presenza di una comunità ebraica che vive, lavora, e pratica la propria religione in relativa tranquillità.

Forse ho una preferenza per i fatti rispetto alle parole, ma penso che la realtà della civiltà iraniana nei confronti degli ebrei ci dica di più sull’Iran – sulla sua raffinatezza e cultura – di quanto non lo faccia tutta la recente incendiaria retorica. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che io sono un ebreo e non sono mai stato trattato con tanto calore come in Iran. O forse sono rimasto impressionato dal fatto che tutta la furia su Gaza, sbandierata ai quattro venti sui manifesti e sulla televisione iraniana, non è mai degenerata in insulti o violenze verso gli ebrei.

O forse ancora, perché sono convinto che la caricatura da “folli Mullah” che viene fatta dell’Iran, e il fatto di paragonare ogni eventuale compromesso con Tehran a quello di Monaco nel 1938 (che portò all’annessione alla Germania hitleriana dei Sudeti appartenenti alla Cecoslovacchia, nell’ambito della cosiddetta ‘politica di appeasment’, la politica condiscendente adottata da Francia e Germania nei confronti del regime nazista durante gli anni ’30 (N.d.T.) ) – una presa di posizione popolare nei circoli ebrei americani – siano fuorvianti e pericolosi.

So bene che, se molti ebrei hanno lasciato l’Iran, ciò è avvenuto per una ragione. L’ostilità esiste. Le accuse di spionaggio a favore di Israele inventate contro un gruppo di ebrei di Shiraz nel 1999 hanno mostrato il lato peggiore del regime. Gli ebrei eleggono un rappresentate in parlamento, ma possono votare per un musulmano se preferiscono. Un musulmano, tuttavia, non può votare per un ebreo. Tra le minoranze, il trattamento riservato ai Bahai – sette dei quali sono stati recentemente arrestati con l’accusa di spionaggio per Israele – è brutale.

Ho chiesto a Morris Motamed, che è stato membro ebreo del Majlis (il parlamento iraniano (N.d.T.) ), se si sentisse usato – un collaborazionista iraniano. “No”, ha risposto. “In realtà avverto una profonda tolleranza, qui, nei confronti degli ebrei”. Mi ha detto che i cori di “morte a Israele” lo infastidiscono, ma poi ha continuato criticando “i due pesi e le due misure” che permettono a Israele, al Pakistan, e all’India di avere una bomba atomica, ma non all’Iran.

Questo doppio standard non funziona più; il Medio Oriente è diventato troppo complesso. Le volgari filippiche anti-israeliane dell’Iran possono essere viste come una provocazione per far concentrare l’attenzione della gente sulle testate nucleari israeliane, sulla sua occupazione della Cisgiordania che si protrae da 41 anni, sul suo rifiuto di Hamas, sul suo continuo uso della forza. Il linguaggio iraniano può essere detestabile, ma ogni tentativo di pace in Medio Oriente – e ogni coinvolgimento di Tehran – dovrà tenere presenti questi punti.

Il complesso da “Zona Verde” – l’insistenza di basare la politica del Medio Oriente sulla costruzione di mondi immaginari – non ha portato da nessuna parte.

Il realismo nei confronti dell’Iran dovrebbe tener conto dell’ecumenica Piazza Palestina a Esfahan. Alla sinagoga, Benhur Shemian, 22 anni, mi ha detto che Gaza dimostra che il governo israeliano è “criminale”, ma che comunque lui spera nella pace. Alla moschea di al-Aqsa, Morteza Foroughi, 72 anni, ha indicato la sinagoga e ha detto: “Loro hanno il loro profeta, noi abbiamo il nostro. E va bene così.”


Roger Cohen è un noto commentatore del New York Times e dell’International Herald Tribune. In precedenza aveva lavorato come corrispondente estero per l’agenzia Reuters, e poi per il Wall Street Journal.