domenica 28 febbraio 2010

Afghanistan: nessuna via di uscita per la NATO, ma per l'eroina tante...

Un aggiornamento sulla guerra in corso in Afghanistan, dove oggi è morto il 101esimo soldato della NATO dall'inizio del 2010.

Niente male come media in due soli mesi...


"Lasciateci in pace"
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 26 Febbraio 2010

LASHKARGAH - In una guerra è sempre difficile raccontare la verità, riuscire a separare la realtà dei fatti dalla propaganda dell'una e dell'altra parte.

L'unico modo per tentare di capire cosa stia veramente succedendo in questi giorni qui in Helmand, nel sud dell'Afghanistan, teatro della più grande offensiva militare dall'inizio di questa guerra, è quello di parlare con la popolazione civile, con la gente di Marjah che riesce ad arrivare qui a Lashkargah per mettersi in salvo o portare nel capoluogo i parenti feriti nei combattimenti.

Molti di loro sono ricoverati all'ospedale di Emergency: unica struttura sanitaria di alta qualità (e gratuita) di questa polverosa città rurale e dell'intera provincia di Helmand, divenuta ormai l'epicentro del conflitto tra le forze d'occupazione straniere e la resistenza talebana.

Oggi è giornata di visite. I familiari dei feriti ricoverati affollano le corsie, il porticato d'ingresso e i giardini, dove decine di uomini in turbante siedono in capannelli riscaldandosi al tepore del sole e chiacchierando a bassa voce. Ogni tanto un boato lontano interrompe i loro discorsi e li fa voltare verso l'orizzonte, al di là del quale i caccia alleati che sibilano in cielo senza sosta continuano a bombardare i loro villaggi.

Sad Maluk, 60 anni, turbante bianco e barba grigia, è appena arrivato da Marjah per far visita al nipote ricoverato con una brutta ferita da pallottola. "Non so chi gli ha sparato, ma poco importa. Questa nuova operazione sta causando tante vittime innocenti, troppe. Dicono che hanno ucciso per errore solo pochi civili, ma la verità è che hanno ucciso pochi talebani. Io vivo vicino al bazar di Marjah, e vi posso assicurare che nei primi giorni le bombe sganciate dagli aerei e i missili lanciati dagli elicotteri hanno distrutto molte abitazioni. Da sotto le macerie abbiamo tirato fuori finora circa duecento cadaveri di civili, ma ci sono ancora un centinaio di dispersi sepolti sotto i resti delle case colpite. Ieri ne abbiamo trovati altri cinque. Queste cose non le racconta nessuno, ma vi giuro che è così perché l'ho visto con i miei occhi. Lo abbiamo visto tutti". Gli uomini intorno a lui scuotono silenziosamente il turbante in segno di assenso.

"Da un paio di giorni a Marjah non si spara più - continua Sad Maluk - ma questo non significa che i talebani se ne siano andati o siano stati sconfitti: hanno solo smesso di combattere, per ora. I talebani sono ancora a Marjah perché i talebani sono anche gente del posto. Non sono forestieri venuti da fuori come si vuol far credere: ci sono anche tanti di noi che stanno con i talebani. E sapete perché? Perché in questi ultimi anni con loro non abbiamo mai avuto problemi: finché a Marjah comandavano loro, tutto andava bene, tutto era tranquillo. Non vogliamo altro, non vogliamo intrusioni da parte degli stranieri o del governo. Vogliamo solo essere lasciati in pace, così come siamo".

Mormorii di consenso percorrono il pubblico di curiosi che si è formato attorno a noi. Uno di loro, un giovane di Marjah di nome Zia Ulaq, interviene per spiegare le parole del 'baba', come vengono chiamati gli anziani in segno di affettuoso rispetto.

"Ora a Marjah è tornata a comandare la polizia afgana, come prima che arrivassero i talebani. Noi più che degli americani abbiamo paura dei poliziotti afgani, di questi criminali che girano con i fuoristrada verdi e si comportano da padroni: rubano le nostre cose, ci estorcono denaro e chi si ribella viene arrestato e denunciato come talebano. E fanno anche di peggio, come rapire i nostri bambini per poi abusare di loro".

"Da quando, oltre due anni fa, Marjah è passata sotto il controllo dei talebani - prosegue Zia Ulaq - tutto questo non è più successo. Loro ci rispettavano e rispettavano le nostre proprietà e le nostre usanze. Garantivano la sicurezza, amministravano la giustizia con i 'qazi' (i giudici delle corti islamiche, ndr) e facevano rispettare le nostre leggi islamiche. E noi stavamo bene perché ci sentivamo sicuri: non subivamo più i furti e gli abusi di quei banditi in divisa. Se i nuovi governanti di Marjah faranno altrettanto, se rispetteranno la nostra gente e la nostra religione lasciandoci vivere e lavorare in pace, a noi andrà benissimo. Ma ora che sono tornati gli uomini sui fuoristrada verdi abbiamo molta paura".


Dentro Marjah

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 23 Febbraio 2010

Qais Azimy è un giornalista televisivo afgano che lavora per Al Jazeera che in questi giorni si trova in Helmand per seguire l'operazione militare Moshatarak.
Nei giorni scorsi è riuscito a entrare nella città di Marjah, epicentro dell'offenisva.
Peacereporter lo ha intervistato.

Come è arrivato a Marjah e cosa ha visto in città?
Sono arrivato a Marjah a bordo di un elicottero governativo, accompagnato da ufficiali dei Marines e dell'esercito afgano, oltre che dal governatore di Helmand, Gulab Mangal.
Siamo atterrati a poche centinaia di metri dal bazar di Marjah, che abbiamo raggiunto percorrendo a bordo di un blindato una strada che costeggia il canale. Sul bordo di questa strada un ufficiale dei Marines mi ha indicato delle buche: le trincee degli insorti. Poi abbiamo attraversato il canale su un ponte di ferro posato dai Marines durante l'attacco: quello vero è minato, troppo pericoloso.

Come le apparsa la città? Cosa ha visto?
Il bazar di Marjah consiste in una lunga fila di edifici diroccati, semidistrutti, che costeggiano su ambo i lati la strada che corre lungo il canale. Quasi tutte botteghe vuote e evidentemente abbandonate in fretta e furia da chi ci lavorava. I Marines mi hanno detto che la distruzione che vedevo non è stata causata da loro, ma dai bombardamenti dell'artiglieria britannica durante l'offensiva dell'estate scorsa.

E che aria tira in città? Le truppe Usa la controllano come dicono?
Non abbiamo fatto molta strada nel bazar. I soldati si muovevano con molta circospezione: non si fidano. Si sentivano continue sparatorie, molto vicine. E' evidente che, nonostante i proclami, nemmeno il bazar è sotto il pieno controllo delle forze americane e governative.

E la gente? La popolazione civile?
Siamo stati avvicinati da alcuni abitanti che supplicavano il governatore di fare qualcosa per loro, per la popolazione civile rimasta intrappolata a Marjah. Hanno detto che in città non c'è più niente da mangiare, che i soldati obbligano tutti a stare chiusi in casa e impediscono a chiunque di entrare e uscire dalla città e quindi non c'è modo di procurarsi provviste. Il governatore ha promesso loro che nei prossimi giorni arriveranno aiuti alimentari.
Il personale locale della Croce Rossa Internazionale mi ha riferito che i civili sono bloccati a Marjah sono tra i 40 e i 50 mila.

E per quanto riguarda le vittime civili di questa operazione?
Gli ufficiali americani mi hanno spiegato che il problema fondamentale di questa operazione militare - e non solo di questa - è distinguere tra civili e insorti, perché gran parte di questi ultimi coincidono con la popolazione, sono gente di qui, gente di Marjah. Il rischio di confonderli e commettere errori è molto alto, come dimostrano le testimonianze che abbiamo raccolto tra gli sfollati rifugiatisi a Lashkargah, che ormai sono circa 3.500 famiglie (oltre 20 mila persone, ndr). Alcuni di loro ci hanno raccontato di contadini uccisi nei campi perché scambiati per insorti.


Italia, il partito della guerra

da Peacereporter - 24 Febbraio 2010

Approvato in Senato il rifinanziamento alla missione militare in Afghanistan. Coi voti dell'opposizione

Il Senato ha convertito poco fa in legge il decreto 1° gennaio 2010, contenente il rifinanziamento del primo semestre 2010 della missione italiana in Afghanistan.

Nel precedente passaggio del provvedimento legislativo alla Camera di pochi giorni fa vi era stata una assoluta unita' d'intenti tra maggioranza e opposizione. Il 'partito unico della guerra' aveva scelto in blocco (con l'eccezione di otto parlamentari) di legittimare quella che avrebbe dovuto essere una missione di pace e ricostruzione e che oggi ha rivelato in pieno il suo carattere incostituzionale.

A favore hanno votato tutti i gruppi parlamentari tranne l'Idv che si e' astenuto, cosi' come si sono astenuti i senatori radicali Marco Perduca e Donatella Poretti. Il provvedimento torna ora alla Camera dei Deputati per la terza lettura. Tra le modifiche introdotte l'invio di 130 carabinieri ad Haiti.

Il ministro della Difesa Ignazio la Russa ha invece deciso di ritirare l'emendamento che avrebbe creato la mini naja (corsi di tre settimane nelle Forze Armate per giovani volontari.

Il gruppo dell'Italia dei Valori, diversamente da quanto avvenuto alla Camera, della seduta, si è astenuto. Contattato da PeaceReporter, Antonio di Pietro non ha spiegato il perche' del cambiamento di rotta, ma ha dichiarato che il suo partito "si e' trovato combattuto tra la necessita' di garantire protezione, assistenza ed equipaggiamento alle nostre truppe e l'incostituzionalita' della missione. Siamo contro questa spesa non tanto per i costi, seppur altissimi, dell'impresa ma per il rischio continuo di vite umane; uomini mandati lì per un obiettivo che è contrario alla nostra Costituzione. Quella in Afghanistan è una guerra a tutti gli effetti".

Per i primi sei mesi del 2010 sono stati stanziati 308 milioni di euro (51 milioni al mese) che serviranno per mantenere operativi sul fronte afgano 3.300 soldati, 750 mezzi terrestri (tra carri armati, blindati, camion e ruspe) e 30 velivoli (4 caccia-bombardieri, 8 elicotteri da attacco, 4 da sostegno al combattimento, 10 da trasporto truppe e 4 droni).

Il decreto in discussione stanzia fino al 31 giugno altri 4,3 milioni di euro per altre spese di carattere militare (2 milioni a sostegno dell'esercito afgano, altrettanti per l'addestramento della polizia afgana, e 367 mila euro per il personale militare della Croce Rossa Italiana che assiste le nostre truppe).

La cifra di 308 milioni non copre il preannunciato invio in Afghanistan di altri mille soldati che il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha ribadito oggi avverra' dopo l'estate e che riguarderà quindi il rifinanziamento del secondo semestre 2010.


Ecco la guerra afghana vista con gli occhi dei giovani talebani
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 27 Febbraio 2010


Prima della grande offensiva nell’Helmand, roccaforte talebana nel sud dell’Afghanistan, iniziata il 13 febbraio, il generale americano Stanley McChristal aveva annunciato in pompa magna la nuova strategia della Nato: "clear, hold, build", vale a dire ripulire il territorio cioè ammazzare più guerriglieri possibile, occuparlo stabilmente, ricostruire, facendovi un po’ di sano business, ciò che nell’offensiva era stato distrutto.

La strategia, chiamata "surge", aveva alcuni corollari: non fare vittime civili, proteggere la popolazione (non si capisce bene da chi), coinvolgerla nel "progetto di costruzione del futuro Afghanistan".

Bene, in una sola settimana, i bombardieri e i missili americani hanno ucciso, il 14 febbraio a Mariah, 12 civili, tutti membri della stessa famiglia, e pochi giorni dopo altri ventisette, cioè alcune famiglie che con tre minibus cercavano di fuggire dalla regione messa a ferro e fuoco dalla Nato.

Gli americani li avevano scambiati per talebani. Come ciò sia stato possibile è difficile da capire: non si sono mai visti guerriglieri talebani viaggiare in minibus come delle tranquille famigliole afghane in gita di piacere.

Questo è il "proteggere la popolazione" secondo il generale McChristal e i suoi alleati, fra cui ci siamo anche noi italiani, sia pur trincerati in una zona relativamente più sicura perché abitata da hazara e non da pashtun.

Nel frattempo, in un’altra regione, nei pressi di Kunduz, i missili americani avevano centrato un convoglio che trasportava del militari afghani loro alleati, uccidendone sette, notizia che non è passata sui media occidentali come mille altre che riguardano le nefandezze che gli occupanti stanno perpetrando in quel Paese.

Qualche giorno fa una piccola rete televisiva americana ha mandato in onda un servizio in cui, per la prima volta, si è guardata questa tragedia "con gli occhi dell’altra parte". Un giornalista afghano è stato per due settimane con i Talebani.

Ciò che si vede, si sente e si ricava è che si tratta di ragazzi giovanissimi (ma essere giovani e rivoltosi a quanto pare non è un titolo di merito in Afghanistan, a differenza, poniamo, dell’Iran), che si muovono tranquillamente fra la popolazione, che evidentemente li conosce, li protegge e li condivide, che non sono, come sempre vengono descritti, delle bestie feroci, ma dei ragazzi che sognano per il loro Paese un futuro diverso da quello progettato per loro, e in nome loro, dall’Occidente.

Non vogliono fare nessuna "guerra santa", wahabita, terrorista, al mondo occidentale, vogliono solo reimpadronirsi del proprio Paese e del proprio destino.

Sono tutte cose che, isolati, abbiamo scritto tante volte, ma che non possono non essere note a chi abbia seguito con un minimo di attenzione le vicende afghane e, naturalmente, agli inviati occidentali.

Ma nei nostri media non se ne parla. Deve prevalere la vulgata che noi siamo là solo per aiutare amorevolmente gli afghani e che i Talebani sono solo dei criminali.
Col Vietnam era diverso. Allora esisteva l’Unione Sovietica e, di conseguenza, un’intellighenzia europea di sinistra (all’epoca l’intellighenzia era solo di sinistra) che protestava contro quella guerra.

Ma gli afghani non appartengono nè alla sinistra nè alla destra, sono un antico popolo tradizionale, come i curdi, e hanno il torto di non essere nè cristiani, nè ebrei e nemmeno arabi.

E così si può fare di loro carne di porco, in una guerra vigliacca come poche, macchina contro uomini, che non ha alcuna ragion d’essere se non nella nostra arrogante e sanguinaria pretesa di omologare l’intero esistente a noi stessi.



Afghanistan: operazione impossibile
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 24 Febbraio 2010

Lo slogan della nuova strategia Usa è “Clear, Hold, Build”: liberare, mantenere, costruire. Ma in Afghanistan il massiccio coinvolgimento delle truppe occidentali e il crescente numero di vittime civili rivelano le difficoltà di un conflitto sempre più complesso e la cui fine appare ogni giorno più lontana.

L’ennesima dimostrazione arriva dalla zona di confine tra le province di Uruzgan e Dai Kondi - dove domenica scorsa trentatre civili hanno perso la vita a causa di un missile sparato aereo Nato - e dalle difficoltà incontrate dai militari della coalizione nell’operazione Moshtarak, la campagna militare intrapresa a metà febbraio nella provincia meridionale di Helmand.

Per cercare di domare la resistenza dei circa 800 talebani rimasti a guardia della città di Marjah, principale centro urbano del distretto di Nad Ali dove vivono 120 mila persone abbandonate al loro destino, l’Isaf (International Security Assistance Force) ha infatti schierato 15 mila soldati; militari americani, afgani, britannici e canadesi che hanno operato con il supporto ravvicinato dell’aviazione, di elicotteri da combattimento e di droni equipaggiati per azioni di attacco.

Vero è che dopo una settimana di combattimenti le forze alleate sono riuscite ad assumere il controllo di gran parte della città e questo a permesso il rischieramento di circa 600 poliziotti della Gendarmeria afgana che ora sorvegliano il centro e le vie di accesso al capoluogo, ma l’operazione si sta rivelando più complessa e lunga del previsto e in molte zone della provincia si continua ancora a combattere.

Nonostante i talebani abbiano deciso di arretrare, la tensione rimane infatti altissima e, anche se non si può parlare di strage, il numero dei così detti “danni collaterali” continua a crescere.

Proseguite per alcuni giorni, le deflagrazioni delle bombe sganciate dagli aerei ed dagli elicotteri della coalizione si sono sentite fino a Lashkar-gah, a 30 km di distanza, e dall’inizio dell’operazione tra i civili si contano già più di 20 vittime e decine di feriti, incluso l’uomo ucciso da una pattuglia dell’Isaf per non essersi fermato all’alt dei militari che si erano insospettiti per la presenza di una scatola lasciata sul bordo della strada, involucro che al contrario non è risultato essere un ordigno, e il ragazzo di 9 anni ferito gravemente alla testa mentre da dietro la finestra guardava incuriosito i mezzi blindati che passavano davanti casa.

La morte di civili è uno dei temi più delicati nei rapporti tra Kabul e le truppe Isaf e il bombardamento di Uruzgan, nel quale sono stati colpiti tre minibus a bordo dei quali viaggiavano solo donne e bambini, non fa altro che esacerbare l’animo di una popolazione ormai esasperata.

Sabato scorso il presidente Hamid Karzai aveva affermato che «le iniziative militari creano ancora troppe vittime civili» e, mostrando la foto di una bambina di 8 anni, aveva esclamato: «Questa è l'unica persona rimasta a raccogliere i cadaveri dei suoi familiari, uccisi da un missile della Nato che giorni fa ha sbagliato il bersaglio».

E le stesse frasi sono state ripetute lunedì, dopo che i generali americani si erano scusati dicendo che il convoglio di civili era stato colpito per un errore di mira. Parole che suonano beffarde per chi vive tutti i giorni il dramma della guerra e si vede uccidere la famiglia da chi dovrebbe portare pace e stabilità.

Annunciata come la più grande offensiva militare dai tempi del rovesciamento del regime talebano, l’operazione Moshtarak va considerata come un test fondamentale della nuova strategia Usa, una condotta volta a stanare e cacciare i guerriglieri da quelle roccaforti che fino ad ora sembrano essere inaccessibili.

Ma l’assalto a Marjah, che il capo del comando centrale Usa, Generale David Petraeus, considera coma la prima fase di una campagna che durerà tra i 12 e i 18 mesi, viene anche utilizzato dall’amministrazione Obama per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica americana verso la decisione della Casa Bianca di aumentare in Afghanistan il livello delle truppe Usa fino a quasi 100 mila unità.

L’obiettivo è dimostrare, prima del 2011, data prevista per il definitivo ritiro, che le forze Isaf sono in grado di riprendere il controllo del territorio, soprattutto nelle provincie più densamente abitate, e che il governo afgano è in condizione di affermare e mantenere la sua autorità: proteggere la popolazione locale ed ottenere il suo sostegno in cambio di infrastrutture e servizi quali strade, acqua potabile, elettricità, sanità, istruzione e giustizia.

Come ogni piano, anche quello militare in Afghanistan ha però i suoi punti deboli. Innanzitutto, come sostiene il Generale Nick Carter, comandante Nato nel sud del Paese, «non è tanto la fase della liberazione che è decisiva. Lo è invece la fase del mantenimento delle posizioni».

Le truppe della coalizione possono infatti allentare la morsa talebana nel sud del Paese, dove i ribelli godono comunque del sostegno della comunità pashtun, ma devono continuare a mantenere anche una sostanziale presenza nelle aree dove i fondamentalisti sono ancora temuti.

In secondo luogo, le vere roccaforti talebane non si trovano in Afghanistan ma appena al di là del confine pakistano e la perdita di posizioni quali Marjah potrebbe essere considerata una sconfitta accettabile, soprattutto in vista del ritiro americano che dovrebbe avvenire entro la fine del prossimo anno.

C’è poi un problema legato alla capacità delle autorità afgane di far fronte alle profonde divisioni etniche e settarie che dividono i pashtun dai tagiki, così come gli uzbeki dagli hazara e dai turcomanni.

E vanno infine prese in considerazione le reali difficoltà incontrate fino ad ora nell’assicurare la presenza sul terreno di funzionari incorruttibili e competenti, strada che fino ad ora si è dimostrata praticamente impercorribile, e nell’organizzare una forza armata addestrata e ben equipaggiata.

L’Afghanistan è un paese fondamentalmente povero e il bilancio del governo dipende dagli aiuti stranieri, cosa che di fatto rende difficile organizzare una struttura efficiente ed affidabile: pur essendo particolarmente temuta, la polizia afgana è infatti considerata dai civili come un’organizzazione corrotta e violenta.



Afghanistan: “nuovo modello di guerra” per l’offensiva Nato nella provincia di Helmand
di Alessio Stilo - www.eurasia-rivista.org - 24 Febbraio 2010

L’offensiva militare delle truppe Nato prosegue nell’Helmand, provincia meridionale dell’Afghanistan confinante con il Pakistan, considerata una roccaforte talebana.

L’operazione, denominata Moshtarak – “insieme” in lingua dari – è concentrata nel distretto di Marja ed è volta, a detta dei vertici Nato, a “permettere al governo afghano di affermare la propria autorità sul territorio ed impedire che Helmand diventi un paradiso per gli insorti”.

L’offensiva, a guida anglo-americana, costituisce una nuova fase del disegno statunitense di coinvolgere il limitrofo Pakistan nel tentativo di impedire il ritorno dei Talebani. Questi ultimi, per la verità, hanno risposto picche alle reiterate proposte del presidente Karzai di entrare a far parte di un governo di coalizione, ritenendo altresì impraticabile il cammino per la soluzione della crisi tracciato nella Conferenza di Londra, ovvero lo stanziamento di 500 milioni di dollari da offrire all’opposizione afghana, una sorta di “contentino” per spingere i ribelli a trattare.

L’operazione, sebbene sia sostenuta dai reparti Usa e britannici dell’Isaf, coinvolge le truppe di Kabul e impiega 15 mila uomini (dei quali 3500 marines, 2000 soldati britannici, 1500 afghani, dotati di 500 IAV Stryker, più 7500 militari coinvolti in manovre di sostegno e logistica) con il dichiarato intento di fare “pulizia” dei bastioni talebani al confine col Pakistan.

L’intervento era stato preceduto dall’invito, rivolto agli oltre 100 mila abitanti del luogo, a rifiutarsi di dare rifugio ai talebani. La nuova offensiva, tuttavia, segna l’avvento di un “nuovo modello di guerra” – come riferisce il New York Times – basato non soltanto sulla conquista del territorio, ma con lo scopo prioritario di ottenere il sostegno della popolazione locale e conseguentemente insediare un’amministrazione afghana stabile.

I marines sono sbarcati nella zona limitrofa alla cittadina di Marja, supportati dall’avanzata dei reggimenti britannici, i quali hanno attaccato la zona settentrionale del circostante distretto di Nad Alì.

Gli analisti valutano le battaglie nell’Helmand come le più decisive per gli sviluppi del conflitto, oltreché le più grandi dall’inizio delle attività belliche. Il tutto prevede, nelle intenzioni dei vertici del Pentagono, la disfatta della resistenza talebana e l’ottenimento di una evidente vittoria militare tale da indurre gli insorti a deporre le armi e accettare il dialogo con il governo.

Nonostante i comandanti dell’Isaf confermino la “grande riuscita”, l’attacco ha trovato una ferrea opposizione talebana che ha provocato la perdita di un numero imprecisato – nell’ordine della decina – di militari Nato.

I generali atlantisti hanno afferrato la complessità delle operazioni in una zona geograficamente impervia, la cui popolazione è sempre più riluttante all’idea di doversi sottomettere agli invasori, ancorché sarebbe opportuno – nell’ottica Nato – sottrarre ai talebani l’appoggio tacito degli autoctoni locali. “La popolazione non è il nostro nemico, è il nostro premio”, sintetizza il generale Larry Nicholson, comandante dei marines americani nell’Afghanistan meridionale.

A suggellare la nuova strategia americana sono pronti, nelle retrovie, numerosi funzionari amministrativi e 1900 poliziotti afghani, preparati ad insediarsi ed assumere in pieno le funzioni una volta cessate le ostilità.

Il fatto che l’offensiva ad ampio raggio stia incontrando parecchie resistenze ha spinto il generale Petraeus, comandante delle forze Usa in Iraq e Afghanistan, a puntualizzare che l’operazione Moshtarak è solo “l’inizio di una campagna che durerà 12-18 mesi”, ribadendo la necessità di ottenere l’appoggio della popolazione per sottrarla al raggio degli insorti e dei signori della guerra locali, se necessario “conquistandoli” col denaro.

In questo quadro si nota come la situazione stia volgendo a sfavore delle forze alleate, considerando l’incremento della ribellione agli attacchi aerei che colpiscono i civili, con il conseguente ecumenico rancore – se non vera e propria ostilità – verso la presenza straniera.

La scelta di inviare in Afghanistan un ulteriore contingente di 40.000 soldati è da inquadrare nella dottrina obamiana, che l’ha fatta propria dal suo mentore Brzezinski, secondo la quale è di vitale importanza effettuare il massimo sforzo bellico nell’Asia Centro-Meridionale piuttosto che nel Vicino Oriente – congelando momentaneamente la questione israelo-palestinese – con l’obiettivo di assicurarsi l’importante corridoio geostrategico nella prospettiva di un accerchiamento della Russia, vero spauracchio di Brzezinski.

Se la strategia si dovesse rivelare inefficace sarebbe dunque un grosso smacco per la presidenza Obama che, in politica estera, ha puntato tutte le proprie carte sull’enclave sud-asiatica.

Il complesso scacchiere asiatico è pregno di una composita schiera di “nemici” o potenziali tali, quantomeno nella visione statunitense: vi sono i Pashtun talebani (divisi in fazioni), i “signori della guerra”, come Abdul Rashid Dostum (momentaneamente al soldo della Nato) o Gulbuddin Hekmatyar, i Tagiki, gli Hazara, gli Uzbeki, gli Aimak, i Turkmeni, i Baluci, i clan del Waziristan pakistano, i qaedisti di Bin Laden e via dicendo.

Il punto cruciale, secondo gli analisti atlantici, è l’incapacità degli Alleati di rompere il circolo vizioso tra i talebani, i contadini e le piantagioni di papavero da oppio. Lo stesso distretto di Marja, teatro dell’ultima offensiva su larga scala, è stato a lungo una zona di reclutamento per talebani nonché un’area di coltivazione del papavero da oppio, indi per cui gli strateghi di Washington stanno pensando di controllare le rotte del narcotraffico afghano e colpire i nascondigli dei ribelli al confine col Pakistan.

La politica di Islamabad, alleato di Washington, è alquanto ambigua: nonostante riceva i finanziamenti da oltreoceano per stanare le ridotte talebane, parte dei suoi servizi segreti (ISI) proteggono tacitamente i ribelli afghani, considerandoli una risorsa per contrastare l’influenza dell’arcinemica India in Afghanistan. Peraltro il focolaio al confine pakistano comporta la consequenziale strategia attendista di Islamabad, legata al mantenimento della propria stabilità interna.


Gli americani sono profondamente coinvolti nel commercio di droga afghano
di Glen Ford - www.blackagendareport.com - 24 Novembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Andrea B.

Gli Stati Uniti hanno preparato il terreno per la guerra afghana (e pakistana) otto anni fa, quando permisero il traffico di droga ai signori della guerra sul libro paga di Washington. Ora gli americani, agendo come il Capo dei Capi, hanno compilato liste nere dei rivali, i signori della guerra “talebani”. “È un’occupazione di bande, nella quale i trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere le attività di polizia e controllo dei confini”.

“I trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere attività di polizia e di controllo dei confini, mentre i loro rivali sono stati inseriti in liste nere americane”.


Se state cercando il capo del traffico di eroina in Afghanistan, esso è rappresentato dagli Stati Uniti. La missione americana si è evoluta in un’organizzazione di tipo mafioso che avvelena ogni alleanza militare e politica introdotta dagli USA e dal proprio governo fantoccio di Kabul.

È un’occupazione di bande, in cui i trafficanti di droga alleati degli Stati Uniti sono incaricati di svolgere attività di polizia e di controllo dei confini, mentre i loro rivali sono stati inseriti in liste nere americane, destinati alla morte o alla cattura. Come risultato di ciò, l’Afghanistan è stato trasformato in una piantagione di oppio che fornisce il 90 percento dell’eroina mondiale.

Un articolo nel numero attuale di Harper’s magazine esplora i meccanismi profondi dell’occupazione statunitense infestata dalla droga, si tratta di una dipendenza quasi totale sulle alleanze costruite con gli attori del traffico di eroina. L’articolo si focalizza sulla città di Spin Boldak, al confine sudorientale con il Pakistan, porta d’accesso ai campi di oppio delle province di Kandahar ed Helmand.

Il signore della guerra afghano è inoltre a capo dei controlli ai confini e della milizia locale. L’autore è un giornalista infiltrato residente negli USA, che è stato assistito dai più importanti collaboratori del signore della droga ed ha incontrato i funzionari statunitensi e canadesi che collaborano quotidianamente con il trafficante di droga.

L’alleanza è stata costruita dalle forze americane durante l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, ed è perdurata e cresciuta sin da allora. Il signore della droga, ed altri come lui in tutto il paese, non è solo immune da serie interferenze americane, ma è stato rafforzato attraverso denaro ed armi di origine statunitense per consolidare i propri affari nel settore della droga a spese degli altri trafficanti rivali delle altre tribù, costringendo alcuni di loro ad allearsi con i Talebani.

Nell’Afghanistan di lingua Pashtun, la guerra è in gran parte tra eserciti guidati da trafficanti di eroina, alcuni schierati con gli americani, altri con i Talebani. Sembra che i Talebani stiano avendo il sopravvento in questa guerra tra bande mafiose, le cui origini trovano le proprie radici direttamente nelle politiche degli Stati Uniti.

“È una guerra il cui ordine di battaglia è ampiamente definito dal commercio di droga”.

C’è da sorprendersi, quindi, se gli Stati Uniti compiono così spesso attacchi aerei contro le feste di nozze dei civili, cancellando gran parte delle numerose famiglie dello sposo e della sposa? I trafficanti di droga alleati dell’America hanno spiato i clan e le tribù rivali utilizzando gli americani come supporto tecnologico nei loro feudi mortali.

Ora gli americani ed i loro alleati occupanti europei hanno istituzionalizzato le regole della guerra tra bande con liste nere di trafficanti di droga da uccidere o catturare a vista, liste compilate da altri signori della droga affiliati con le forze di occupazione.

Questa è la “guerra di necessità” che il Presidente Barack Obama ha abbracciato come propria. È una guerra il cui ordine di battaglia è largamente definito dal commercio di droga. I generali di Obama fanno richiesta di decine di migliaia di nuove truppe nella speranza di diminuire la loro dipendenza dalle milizie e dalle forze di polizia attualmente controllate dai trafficanti di droga alleati degli americani.

Ma, naturalmente, questo spingerà gli alleati afghani dell’America tra le braccia dei Talebani, che otterranno un accordo più vantaggioso. Allora i generali sosterranno di aver bisogno di ulteriori truppe statunitensi.

Gli americani hanno creato questo inferno saturo di droga, e la loro occupazione è ora dominata da quest’ultimo. Sfortunatamente, nel frattempo hanno anche dominato milioni di afghani.