mercoledì 24 febbraio 2010

Iran-Occidente: prove tecniche di guerra?

Torniamo ancora sull'Iran, il suo sacrosanto diritto di sviluppare energia nucleare per scopi civili e le prospettive di ulteriori sanzioni ONU che penalizzeranno però solo la popolazione e ne rafforzeranno il suo consenso verso il governo del presidente Ahmadinejad.

Ma non è affatto esclusa l'opzione di un attacco militare che però ieri lo stesso capo di Stato maggiore delle Forze Armate Usa, l'ammiraglio Michael Mullen, ha bollato come "non decisivo" per arginare il programma nucleare della Repubblica islamica.

"Nessun attacco, qualunque sia la sua efficacia, sarebbe decisivo da solo", ha detto l'ammiraglio Mullen che appoggia invece il ricorso a pressioni diplomatiche ed economiche nei confronti dell'Iran.

Ma che ne diranno in Israele o al Pentagono dove ieri il Segretario alla Difesa americano Robert Gates ha dichiarato che "l'antimilitarismo europeo è passato dall'essere una benedizione nel 20esimo secolo ad un impedimento per raggiungere una pace durevole nel 21esimo"?
In pratica, la guerra è pace o viceversa...


Le quattro calunnie sul caso Iran
di Franco Cardini - www.diorama.it - 22 Febbraio 2010

Qualcosa di molto grave si sta profilando in Occidente: qualcosa che forse minaccia il mondo. E’ uno scenario che purtroppo abbiamo già visto. Tra 2002 e 2003 i governi statunitense e britannico inscenarono una pietosa e vergognosa commedia cercando di far credere al mondo che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di pericolose armi segrete di distruzione di massa.

Era incredibile: e infatti chi aveva capacità di comprendere e di assumere informazioni precise si rese subito conto che si trattava di una colossale e infame menzogna. Ma i mass media insistevano, i politici – anche italiani – erano già decisi a seguire il sentiero tracciato del sinistro signor Bush: il risultato fu la guerra e un’occupazione che perdura e dalla quale gli stessi italiani non sanno come far a uscire.[1]

Sette anni dopo, siamo alle solite: analogo scenario, analoghe sfrontate bugie. La vittima designata, ora, è l’Iran. Auguriamoci che le dissennate dichiarazioni dei politici e dei mass media non preludano a qualcosa di simile al pasticcio irakeno: stavolta sarebbe molto più grave.

La Repubblica Islamica dell’Iran è una società molto complessa,[2] che non è certo retta da un regime totalitario, bensì da un sistema assembleare per certi versi paragonabile a una repubblica protosovietica controllata da un “senato” di teologi-giuristi.

Nata da uno strappo violento che ha sottratto trent’anni fa agli USA il suo più sicuro e fedele alleato-subordinato e che ha fatto tabula rasa d’importanti interessi petroliferi occidentali, è strutturalmente avversaria della superpotenza americana: dal momento che essa individua in Israele il principale supporto della politica statunitense nel Vicino Oriente, essa avversa radicalmente anche quest’ultimo.

Non c’è dubbio che il governo iraniano attuale abusi dei suoi poteri, a cominciare da quello che gli consente di comminare pene capitali, e che non rispetti alcuni diritti della persona umana.

Non è l’unico a far certe cose (tali diritti non sono rispettati nemmeno nell’illegale campo di detenzione di Guantanamo, tenuto aperto dalla Prima Democrazia del mondo): ma le fa, e ciò dev’essere denunziato con deciso rigore.

Ciò non toglie che sull’Iran il mondo occidentale in genere, italiano in particolare, sia malissimo informato. Esaminiamo sinteticamente i quattro fondamentali capi d’accusa che vengono ormai rivolti abitualmente al governo di Ahmedinejad: si sarebbe reso responsabile di gravi brogli elettorali durante le ultime elezioni e di una pesante repressione delle proteste da parte dell’opposizione; minaccerebbe e programmerebbe un attacco contro Israele, con intenzione di distruggerlo; starebbe fabbricandosi un potenziale nucleare militare; sarebbe candidato a cedere in quanto isolato internazionalmente.

Si tratta sostanzialmente di quattro calunnie, per quanto ciascuna di essi riposi su un qualche elemento di verità. Vediamole in ordine.

Prima. In una recente intervista consultabile nella versione telematica di “Panorama” del 30.12.2010 una delle maggiori esperte di cose iraniane, Farian Sabahi,[3] non ha escluso che vi siano stati brogli elettorali, ma ha sottolineato che essi non possono aver falsato sostanzialmente il responso delle urne che è stato comunque con certezza largamente favorevole ad Ahmadinejad in quanto egli, a differenza dei suoi elettori, ha saputo guadagnarsi la fiducia della maggioranza degli iraniani non grazie alle sue tracotanti minacce contro Israele, bensì con una politica sociale che ha costantemente messo a disposizione dei ceti più deboli una massa ingente di pubbliche risorse, ha consentito a 22 milioni d’iraniani di accedere a efficaci cure mediche gratuite, ha aumentato molti stipendi (p.es. del 30% quello degli insegnanti), ha aumentato del 50% ‘entità delle pensioni.

Al contrario i suoi avversari, pur abilissimi a mobilitarsi su Twitter e forti nei ceti medi specie della capitale, hanno fatto ben poca breccia nei centri minori e praticamente nessuna nelle campagne.

I nostri mass media insistono sui deliri oratori hitleriani di Ahmedinejad (che peraltro riassumono sistematicamente, senza darci modo di capire che cosa effettivamente egli dica, e a chi, e in quali contesti), ma non c’informano per nulla della sua politica sociale, impedendoci di farci un’idea di che cosa realmente sia l’Iran di oggi.[4]

Seconda. Quanto all’atteggiamento di Ahmedinejad contro Israele, è indubbiamente una maldestra e odiosa misura propagandistica da parte sua la contestazione della shoah; ma, quanto alle minacce, chi non si limita al materiale scaricato da Twitter si è reso facilmente conto che il presidente iraniano non ha mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale è evidentemente insostenibile in quanto costituisce una contraddizione in termini.

Da ciò Ahmedinejad non deduce che lo stato d’Israele vada distrutto dall’esterno, ma che esso non potrà mai mantenersi sulla base dei principi proclamati.

Oltretutto, nell’ormai radicato immaginario occidentale Ahmadinejad starebbe minacciando di distruzione nucleare Israele: ora, si domanda come può il leader di uno stato che non è ancora arrivato nemmeno al nucleare civile minacciare di distruzione nucleare un paese che invece dispone sul serio di un nucleare militare.

Tutto ciò è assurdo. E non è difatti mai accaduto. Ahmedinejad si limita a dire che la convivenza di ebrei e di palestinesi dovrà essere rifondata su basi diverse da quelle dell’attuale stato d’Israele se vorrà avere qualche probabilità di sopravvivere.

Terza, la questione nucleare. Qui siamo al ridicolo e all’infamia al tempo stesso. L’11 febbraio scorso, trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa.

Visto il momento “caldissimo” nell’opinione pubblica, si potrebbe supporre ch’essa è stata presa d’assalto dai media. Macché. Né un TG importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo.

Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’AIEA, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Germania) nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia incaricato di restituirlo all’Iran.

Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvengo in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al 20%.

Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come “non interessante” una proposta del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e semplice cessione del minerale, senza contropartite né garanzie.

Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non averle accettate. Bisogna al riguardo tener presente due cose: primo, per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili.

E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (gli unici tre stati che non hanno firmato sono Israele, India, Pakistan). Il punto è che sembra proprio che i soggetti occidentali più importanti (quindi il governo statunitense e la NATO, che da esso è largamente controllata) siano ben decisi a procedere su una strada pregiudizialmente tracciata.

In un’intervista concessa a Luigi Offeddu del “Il Corriere della Sera”, e pubblicata il 29.2.2010, Adres Fogh Rasmussen, segretario generale della NATO dall’agosto 2009, ha proferito affermazioni allucinanti nella sostanza non meno che nel tono: “Al momento dovuto, noi prenderemo le decisioni necessarie per difendere i paesi della NATO”, ha dichiarato.[5]

Ha parlato di un sistema missilistico difensivo, risultato di una triplice collaborazione tra USA, NATO e Russia, fingendo di non sapere che in Realtà la Russia è preoccupata delle installazioni missilistiche USA-NATO in Romania e in Polonia, non è soddisfatta dei chiarimenti fornitile (secondo i quali esse sarebbero dirette contro la minaccia iraniana) e la sua richiesta di “collaborazione a tale sistema è, in realtà, una richiesta di controllo.

Rassmunsen, ignorando del tutto le proposte iraniane, continua a proporre un diktat: l’Iran consegni tutto il suo uranio che verrà arricchito all’estero, senza alcuna possibilità di controllarne il destino, senza alcun controimpegno e senza alcuna contropartita. C’è da chiedersi chi mai potrebbe accettare imposizioni del genere.

Quarto. Si continua acriticamente a ripetere, da noi, che ormai l’ONU sarebbe pronta a inasprire l’embargo all’Iran e che lo stesso consiglio di Sicurezza sarebbe d’accordo: si tratterebbe solo di convincere la Cina a non usare il suo diritto di veto e a studiare sanzioni che colpiscano il governo iraniano, ma non la popolazione.

Quest’ultimo proposito è manifestamente ipocrita: le sanzioni colpiscono sempre le popolazioni, e in genere rinsaldano la loro solidarietà con i loro governi (a parte l’ipocrisia del governo italiano, che sostiene di preoccuparsi per ragioni umanitarie mentre in realtà è in ansia per il grosso business iraniano dell’ENI, che potrebb’essere compromesso dalle sanzioni con un forte danno agli interessi italiani).

Ad ogni modo, le sanzioni contro l’Iran non funzioneranno, perché il governo iraniano è a vari livelli in contatto positivo con molti paesi e ha stipulato o sta stipulando accordi non solo con Cina e Russia, ma anche con la Siria, col Venezuela e con la Turchia.

E’ del 19.2., stando a due “lanci” AGI, la dichiarazione del viceministro degli Affari Esteri Serghiey Ryabkov, secondo la quale non solo la Russia è contraria a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e indisponibile ad appoggiarle, ma si conferma intenzionata a fornire all’Iran i sistemi antiaerei S-300, come si era impegnata a fare.

Insomma, il regime iraniano può non piacere: ma non ha la possibilità e forse nemmeno l’intenzione di costruire armi nucleari e non si trova affatto in una posizione di assoluto isolamento diplomatico.

Ma allora perché gli USA sembrano preoccuparsi dell’Iran di Ahmedinejad al punto di arrivare alle esplicite minacce? L’atomica, i diritti umani e le minacce a Israele non c’entrano.

C’entra invece il modesto isolotto di Kish sul Golfo Persico, che gli iraniani hanno scelto a sede di una futura rete di scambi petroliferi mirante alla costituzione di un “cartello” che si fonderebbe sull’unità monetaria non più del dollaro, bensì dell’euro. Questa è la bomba nucleare iraniana che davvero gli americani temono.

E allora, immaginiamoci un possibile e purtroppo piuttosto probabile futuro. La guerra, lo sanno tutti, è un gran ricco business: vi sono cointeressate potentissime lobbies industriali e finanziarie internazionali; è rimasta l’unica attività produttiva statunitense che davvero “tiri”; le commesse vanno rinnovate e gli arsenali debbono essere vuotati se si vogliono riempire di nuovo; poi ci sono i generali (non solo i generaloni del Pentagono, quelli che ostentano nomi da conquistatore romano, tipo Petreus; ma anche i generalucci della NATO e i generalicchi italiani, per tacer degli strateghi-peopolitici da TV…); inoltre c’è il sacrosanto spiegamento dei fondamentalisti cristiani, ebrei e musulmano-sunniti che non vedono l’ora di saltar addosso al demonio sciita; infine ci sono i poveri cristi che aspettano di venir ingaggiati come in Afghanistan e in Iraq, la folla dei portoricani in caccia della magica green card che fa di loro dei quali cittadini statunitensi, i sottoproletari che sognano di ascendere al rango di contractors. Tutte insieme, queste forze sono – non illudiamoci – potentissime.

Se non ci salva il duplice “veto” russo-cinese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (ma anche quello non sarà sufficiente: basterà la NATO, come in Afghanistan nel 2001: poi, l’ONU sarà costretta ad avallare…), oppure, meglio ancora, un deciso “no” degli israeliani che - a differenza del loro governo - non hanno perduto il ben dell’intelletto e la voce dei quali potrebbe contare moltissimo dinanzi all’opinione pubblica mondiale , l’aggressione all’Iran probabilmente si farà.

E’ molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il sunnita e “laico-progressista” Saddam poteva contare su molti amici negli USA, in Europa e nel mondo musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne dispone. Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba nucleare proprio l’Iran non ce l’aveva e nemmeno i terribili missili puntati contro l’Occidente; qualcun altro sgamerà, altri ancora si rifugeranno nell’amnesia.

Frattanto, nella migliore dell’ipotesi, ci saremo infilati in un pantano sanguinoso e costoso, peggiore di quelli afghano e irakeno messi insieme: un pantano nel quale sguazzeranno allegramente solo le anatre e le rane tipo gli imprenditori, i militarastri e i sottoproletari del “finché-c’è-guerra-c’è-speranza”, che ciascuno al suo livello ci guadagneranno (“produzione e consumo” in alto, patacche e promozioni a mezza tacca, “posti di lavoro” in basso) , o tipo La Russa, che già ora s’inorgoglisce dei suoi picchetti d’onore e delle sue finte uniformi militari. Se non altro, tutto ciò darà una nota comica alla vicenda. Ma non illudiamoci: quella sarà soltanto la migliore fra le ipotesi.


NOTE:


[1] I media ci hanno poi informati che le armi di distruzione di massa non c’erano: ma nessun governante nessun politico di quelli che a suo tempo avevano stragiurato sulla loro esistenza, nessun intellettuale o pubblicista di quelli che immaginavano scenari festosi (tipo i liberatori che arrivano a Baghdad in mezzo ai fiori e alle bandiere del popolo irakeno liberato…), nessun mezzobusto televisivo-opinion maker ha fatto ammenda dell’errore in cui aveva tentato d’indurci, o meglio della menzogna proferita. Anzi, a dimostrazione della longevità dei falsi miti, Tony Blair, nel corso della sua pietosa autocritica che sigilla il fallimento della sua carriera di politico (dopo i danni che ha fatto, e che purtroppo paghiamo e pagheremo noi) è tornato sulle armi di distruzione saddamiste come se fossero davvero esistite, “dimenticando” al figuraccia sua e di altri.

[2] Cfr. L’iran e il tempo. Una società complessa, a cura di A. Cancian, Roma, Jouvence 2008; A.Negri, Il turbante e la corona. Iran trent’anni dopo, Milano, Tropea, 2010.

[3] Di cui cfr. F.Sabahi, Storia dell’Iran 1890-2008, Milano, Bruno Mondadori, s.d.

[4] Cfr. il lucido commento di M.Tarchi, La lezione iraniana, “Diorama letterario”, 296, ott.-dic. 2009, pp. 1-3.

[5] L.Offeddu, “L’iran si fermi sul nucleare o la NATO dovrà difendersi”, “Corriere della Sera”, 20.2.2010


Iran, venti di guerra
di Christian Elia - Peacereporter - 22 Febbraio 2010

Israele vara il drone più grande del mondo e blocca la vendita di missili russi a Teheran

Segnatevi questo nome: The Heron Tp, detto anche Heron 2 e Eitan. E' il più grande drone (aereo senza pilota) mai costruito. L'hanno realizzato i ricercatori dell'Israel Aerospace Industries e l'aviazione militare d'Israele l'ha presentato ieri, domenica 21 febbraio 2010, alla stampa.

Arma micidiale. Grande come un Boeing 737, un'apertura alare di 26 metri, una quota di volo fino a 12mila metri e oltre 20 ore di autonomia. "Con l'inaugurazione dell'Heron Tp realizziamo un sogno", ha commentato durante la cerimonia di presentazione il brigadiere generale dell'aviazione israeliana Amikam Nortin, comandante della base che ospita il drone, con l'eccitazione che alcuni uomini e alcuni militari provano di fronte a strumenti di morte sempre più sofisticati.

L'Heron Tp, di sicuro, inaugura una nuova fase nel suo genere. "Può fare tante missioni. Può fare anche un certo tipo di missioni speciali che nessun altro Ual - Unmanned Aerial Veihcle - (aerei senza pilota) può realizzare", ha commentato il tenente colonnello Eyal Asenheim, che fa parte dello staff che ne curerà le azioni.

Azioni, in vero, di tutti i tipi. Dal rifornimento in volo, all'intercettazione e all'oscuramento delle comunicazioni del nemico, fino a un vero e proprio attacco missilistico su un obiettivo.

L'autonomia di volo, poi, permette di colpire ben oltre il Golfo Persico. Nessuno dei militari presenti alla cerimonia dell'Heron Tp ha risposto in modo diretto alle domande dei giornalisti, ma è non è certo un segreto che il destinatario della nuova arma israeliana è l'Iran.

Conto alla rovescia? Il 16 febbraio scorso, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad l'ha detto senza mezzi termini: "Sono convinto che l'entità sionista sta cercando di dare avvio a una guerra, in primavera o in estate, ma credo anche che non sia stata ancora presa una decisione definitiva".

Da Mosca, dove si è recato in visita ufficiale, gli ha risposto il premier israeliano Benjamin Netanhyau: "Non esiste alcun piano militare contro l'Iran. Sono le solite manipolazioni di Ahmadinejad, che alza la tensione in vista delle nuove sanzioni a Teheran. Sanzioni per le quali non dovremmo perdere tempo, aspettando il via libera del Consiglio di Sicurezza". Netanyahu ha le idee chiare: l'Onu è un inutile perdita di tempo.

Lo dimostra la storia stessa dello Stato d'Israele, che viola tutte le risoluzioni del Palazzo di Vetro dal 1948. Inoltre, in passato, i vertici politico - militari di Tel Aviv non hanno esitato ad agire da soli: nel 1981 venne bombardato il sito di Osirak, in Iraq, dove il regime di Saddam sviluppava il suo programma nucleare.

Lo stesso è accaduto nel 2007, in Siria. Nell'attesa di sapere se accadrà di nuovo, ora che all'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (Aiea) non c'è più il segretario generale El Baradei e il nuovo corso dell'ente dell'Onu si annuncia meno morbido con Teheran, il governo di Ahmadinejad ha incassato un brutto stop.

Corsa agli armamenti. Alexander Fomine, vicedirettore del Sistema Federale russo di cooperazione tecnico - militare, ha dichiarato il 17 febbraio scorso che la fornitura di missili all'Iran è sospesa a tempo indeterminato.

"Il rinvio è dovuto a problemi tecnici, la fornitura verrà effettuata quando saranno risolti", ha detto all'agenzia Interfax il dirigente russo, che ha escluso qualsiasi coincidenza tra questa decisione e la visita del premier israeliano Netanyahu a Mosca. In realtà un nesso c'è, visto che il sistema terra-arai S-300 è ritenuto di vitale importanza dal regime degli ayatollah per difendere i siti del suo programma nucleare da un eventuale attacco mirato Usa o israeliano.

Il blocco delle forniture ufficiali avviene dopo il fermo delle consegne illegali, quando gli agenti dei servizi segreti israeliani intercettarono un carico di armi per l'Iran dalla Russia. Per equilibrare lo scacco moscovita, Teheran ha annunciato - il 19 febbraio - attraverso la televisione di stato il varo del primo cacciatorpediniere di fabbricazione iraniana. "Il cacciatorpediniere Jumaran si è già unito alle forze navali dell'Iran nelle acque meridionali del Golfo Persico". Armato di siluri, il Jumaran (lungo 94 metri e con una stazza di 1500 tonnellate) è in grado di tenere sotto il controllo dei suoi radar fino a 100 bersagli nello stesso momento.

Una corsa agli armamenti che nel Golfo si è arricchita anche del nuovo sistema di difesa missilistico che, a spese degli Usa, si sono dati Bahrein, Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti nel mese di gennaio. In attesa delle nuove sanzioni all'Iran (che oggi ha annunciato l'apertura di altri due siti nucleare) la tensione sale e il Golfo diventa sempre più affollato di strumenti che non promettono nulla di buono.


Fuochi d'estate sul Medio Oriente
di Simone Santini - www.clarissa.it - 21 Febbraio 2010

"Israele si prepara a cominciare una guerra per la primavera o l'estate, ma la decisione non è ancora presa". Non sono i soliti rumors o le conclusioni di un analista ma le shoccanti dichiarazioni del nemico numero uno nella regione dello stato ebraico, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.

Il leader iraniano non ha precisato contro chi Tel Aviv possa scatenare il conflitto. È certo, e gli stessi israeliani non ne fanno mistero, che le Forze armate con la stella di David e i vertici politici sono pronti ad un nuovo attacco, soprattutto, contro Hezbollah in Libano, una ferita rimasta aperta con la guerra nell'estate del 2006.

Fu una sorta di sconfitta militare e politica per Israele, che tuttavia ottenne un vantaggio strategico col dislocamento sul confine di forze d'interposizione europee (in particolare italiane, spagnole, francesi) col rischio permanente che queste vengano trascinate in un conflitto aperto con le milizie sciite libanesi, nel caso scoppi ancora la guerra.

Altro scenario di crisi sono ovviamente i Territori occupati, in particolare Gaza. E non è da escludere che Israele pensi di accendere una minaccia in tutta le regione per arrivare, con una progressiva escalation, fino a Teheran.

Ma, allo stesso tempo, anche un attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani è ormai ammesso come opzione reale da tutti gli osservatori.

Ahmadinejad, nel perfetto stile della retorica politica ad uso interno, mostra di non temere l'eventualità. "I Paesi della regione sono pronti a risolvere la questione una volta per tutte (con Israele)" sostiene, e anche nel caso di nuove sanzioni da parte occidentale "se qualcuno cercherà di creare problemi all'Iran la nostra risposta non sarà come quelle del passato. Questa risposta comporterà qualcosa per cui si pentiranno", adombrando così la possibilità del blocco del Golfo persico attraverso cui transita gran parte del petrolio mediorentale.

Il presidente continua la politica dialettica del doppio binario, mostrarsi forte per poter trattare. Infatti "la questione dello scambio di combustibile nucleare non è chiusa, l'Iran è sempre pronto ad uno scambio in una cornice di equità", ovvero che avvenga secondo modalità che garantiscano pienamente Teheran, ma che gli Stati Uniti hanno già rifiutato seccamente.

Cecità politica quella di Ahmadinejad? Probabilmente il presidente non si rivolge più agli occidentali, con cui il dialogo sembra ormai definitivamente compromesso, ma a Russia e Cina, gli unici paesi ormai in grado di sventare una nuova guerra in Medio Oriente. E proprio da Mosca, infatti, giungono in questi giorni i segnali più interessanti, e inquietanti.

Per il capo di stato maggiore russo, Nikolai Makarov, un attacco all'Iran avrebbe "conseguenze terrificanti non solo per l'Iran ma anche per noi, così come per tutto l'insieme della comunità asiatico-pacifica".

E tuttavia il generale non ha escluso che gli Stati Uniti, una volta ottenuti i risultati sperati in Iraq e Afghanistan, possano concentrarsi sull'Iran, paese con cui la Russia stringe "tradizionali rapporti d'alleanza" nei settori più disparati.

E l'ex capo di stato maggiore (ricopriva tale carica all'epoca dell'11 settembre), il generale Leonid Ivashov, attualmente analista politico-militare e presidente dell'Accademia di problemi geopolitici, si spinge addirittura oltre. "Un attacco contro l'Iran è all'ordine del giorno. Con ogni probabilità verrà sferrato da Stati Uniti e Israele. L'Iran si trova in uno stato di totale vulnerabilità verso un'aggressione e sta intraprendendo ogni tentativo, politico, economico, militare, al fine di poter sopravvivere e proteggere la propria sovranità. Molte cose dipenderanno dalla posizione di Russia e Cina" ha detto il generale all'agenzia Ria Novosti.

E da Mosca i segnali non sono rassicuranti. Se ormai appare probabile che Medvedev appoggerà la politica di nuove sanzioni contro l'Iran presso il Consiglio di Sicurezza, il Cremlino ha annunciato il blocco della fornitura a Teheran del sistema difensivo missilistico S-300 il cui contratto era già stato stipulato da tempo. Il congelamento, secondo le autorità russe, avviene "per motivi tecnici ed a tempo indeterminato, finché non verranno risolti". Una falla non trascurabile nel sistema difensivo aereo iraniano.

Per far luce sui reali termini della questione può essere utile riferirsi alle dichiarazioni del primo ministro di Israele, Bibi Netanyahu, che negli stessi giorni dell'annuncio si trovava in visita diplomatica ufficiale a Mosca.

In una lunga intervista al quotidiano Kommersant ed all'agenzia Interfax, Netanyahu ha illustrato dapprima il nuovo clima internazionale sull'Iran: "Quando dicevo che la più grande minaccia che l'umanità deve affrontare è il tentativo dell'Iran di dotarsi di armi nucleari, ricevevo scetticismo e molte sopracciglia sollevate, anche da Washington e Mosca. Ora non è più così. Esiste ormai una valutazione comune che l'Iran è sempre più vicino al suo obiettivo e che questo debba essergli impedito. Vi è la consapevolezza di essere in ritardo. [...] Il tempo delle sanzioni è ora. E queste sanzioni dovranno essere paralizzanti. [...] Nella comunità internazionale non è più in discussione ormai se l'Iran è un problema, se accumuli materiale nucleare da usare per lo sviluppo militare. Tutto ciò non è più in discussione. Ciò che è in discussione è solo quale tipo di sanzioni verrà applicato".

E a precise domande degli intervistatori sul collegamento tra lo stop della fornitura missilistica russa all'Iran e la minaccia israeliana di possibile sostegno al riarmo della Georgia, Netanyahu ha risposto con estrema abilità diplomatica: "Come fornitori di armi abbiamo cura di tenere conto di tutte le considerazioni in questo genere di rapporti, operando per la stabilità in regioni instabili, e ci aspettiamo che la Russia faccia la stessa cosa. [...] Ho accolto con soddisfazione le dichiarazioni di Medvedev (sul blocco delle forniture all'Iran) perché so che l'attuale politica russa è volta a promuovere la stabilità. Questa è buona politica. Non voglio dire di più e non confermo che abbiamo avuto colloqui su questo argomento. Il resto sono speculazioni della stampa".

E negli stessi giorni il segretario di Stato americano Hillary Clinton si trovava in missione diplomatica in un altro centro focale della crisi con l'Iran, la Penisola arabica.

A Doha, nel Qatar, in un discorso davanti gli studenti del campus Carnegie Mellon, la Clinton ha lanciato l'allarme contro la deriva militarista di Teheran: "La vediamo in questo modo: crediamo che il governo iraniano, dal presidente al parlamento, sia stato soppiantato e che l'Iran stia andando verso una dittatura militare. E' il nostro punto di vista [...] Non attaccheremo l'Iran, stiamo invece cercando di unire la comunità mondiale per fare pressione all'Iran attraverso sanzioni delle Nazioni Unite. Queste pressioni saranno specificatamente rivolte alle imprese controllate dalla Guardia Rivoluzionaria [...ma...] è molto difficile restare passivi di fronte a un Iran armato e che continua a portare avanti il suo programma di armi nucleari".

Evocare un colpo di stato militare a Teheran (quasi una sorta di auspicio) può essere una delle tattiche utilizzate per indicare come ormai fuori controllo il regime iraniano, guidato da fanatici pronti ad usare le armi atomiche, e dunque giustificare qualunque intervento.

Questo ha provocato la tagliente risposta del ministro degli Esteri iraniano Mottaki, a cui pare oggettivamente arduo controbattere: "Gli americani stessi sono imprigionati in una sorta di dittatura militare che impedisce loro di comprendere le realtà della regione.

Cos'è dittatura militare: uccidere un milione di iracheni, per la gran parte innocenti, o stabilire scambi col popolo iracheno, accogliendo decine di migliaia di immigrati e aiutando il governo a mettere in sicurezza il paese, garantendone la sovranità, come stiamo facendo noi? Cos'è maggiore indizio di dittatura militare: attaccare sanguinosamente i matrimoni in Afghanistan o dare rifugio a tre milioni di afgani?".

La successiva tappa del viaggio della Clinton è stata Riyad per incontrare il re Abdallah. Scopo della missione, oltre rassicurare una Arabia Saudita che si troverebbe in prima linea in caso di attacco all'Iran, è la questione delle sanzioni e delle forniture energetiche destinate alla Cina.

I sauditi forniscono già il 20% del petrolio di cui Pechino necessita, essendo il primo fornitore, seguiti proprio dagli iraniani con una quota del 15%. Gli americani vorrebbero che i sauditi fossero pronti a supplire col loro petrolio all'eventuale stop delle esportazioni iraniane in caso di sanzioni o peggio ancora di conflitto.

Questo potrebbe rassicurare la Cina e spingerla a sostenere l'azione americana al Consiglio di Sicurezza, e tuttavia esporrebbe il paese del dragone al rischio di veder considerevolmente aumentare la quota del suo fabbisogno energetico sotto il controllo, diretto o indiretto, degli Stati Uniti, ovvero il proprio potenziale (o effettivo) antagonista nel contesto globale.

L'atteggiamento della Cina rimane una incognita, in una posizione estremamente delicata che corre sul filo della questione delle sanzioni. Nella precedente intervista già citata, Netanyahu ha mostrato estrema lucidità sul punto. Pur ribadendo, infatti, che le sanzioni devono essere applicate subito e in maniera aggressiva, il politico israeliano non si aspetta affatto che queste possano risolvere definitivamente il problema.

Al contrario pare potersi interpretare che dal suo punto di vista (quello di un falco del "partito del bombardamento") come le sanzioni siano un semplice passaggio tattico destinato a risultare sostanzialmente inefficace ed a cui porre successivamente rimedio con una ulteriore escalation. Se, infatti, le sanzioni dovessero fallire, in questo gioco di continui rilanci, cosa arriverà dopo?



Iran: un'interpretazione di quanto sta accadendo
di Daniele Scalea - www.eurasia-rivista.org - 12 Febbraio 2010

Dalle ultime elezioni presidenziali (12 giugno 2009) ad oggi l’Iràn è stato continuamente sconvolto da manifestazioni, più o meno pacifiche, degli oppositori al presidente riconfermato Mahmud Ahmadi Nejad e – talvolta – pure alla guida suprema ayatollah Alì Khamenei. Il tutto inserito nel quadro della controversia internazionale sul programma nucleare iraniano, con relative sanzioni e minacce d’attacco militare al paese da parte degli USA o di Israele.

Anche in occasione delle recentissime manifestazioni per celebrare il trentunesimo anniversario della Rivoluzione islamica, la stampa occidentale ha dato decisamente più risalto agli scontri tra forze dell’ordine e contestatori che non alle celebrazioni ufficiali, che pure hanno attirato centinaia di migliaia, milioni di persone nelle piazze iraniane. Ben presto in Occidente gli osservatori si sono polarizzati su due valutazioni opposte ma speculari.

La prima, che va decisamente per la maggiore essendo quella propagandata dai mainstream media e fatta propria anche da molti governi, è che in Iràn sia in corso la lotta tra un regime tirannico e la maggioranza della popolazione spontaneamente insorta per abbatterlo. La seconda, meno diffusa ma fortemente radicata in alcune “nicchie”, è che i disordini iraniani siano da ricondursi ad un tentativo di “rivoluzione colorata” ad opera della CIA.

Senza soffermarci troppo sul carattere democratico o meno, rappresentativo o meno, repressivo o meno della Repubblica Islamica, vorrei concentrare l’attenzione sulla genesi e la natura delle proteste.

Le due interpretazioni – a) sono assolutamente spontanee e genuine, senza ingerenze esterne e b) sono assolutamente artificiose e manovrate dall’estero – sono, a mio modesto parere, entrambe fallaci in quanto intrinsecamente riduzioniste. Entrambe vedono la realtà in bianco e nero: semplicemente una dice “bianco” e l’altra dice “nero”, ma entrambe rifiutano di vedere tutte le tonalità intermedie, quella variegata scala cromatica che compone la realtà fattuale.

Partiamo da un fatto: l’ingerenza esterna c’è, è fin troppo palese. Chi s’ostina a negarla difetta d’informazioni e/o pecca d’ingenuità. È di dominio pubblico che l’amministrazione Bush puntasse ad un “cambio di regime” in Iràn: tant’è vero che all’epoca se ne sentiva parlare sulla stampa con la medesima frequenza con cui oggi si tratta di “rivoluzione verde” (una coincidenza significativa).

Seymour Hersh, forse il più importante giornalista investigativo statunitense (vincitore del Premio Pulitzer per aver svelato al mondo il massacro di Mai Lai), ha rivelato sul “New Yorker” che la passata amministrazione statunitense destinò nel 2007 circa 400 milioni di dollari per finanziare gruppi ribelli in Iràn.

Al di là della correttezza o meno delle cifre, la cosa non può sorprendere: ciò è semplicemente in linea col proposito, più volte manifestato, di favorire un “cambio di regime” a Tehrān. E con le ripetute denunce da parte delle autorità iraniane d’ingerenze straniere.

Si sa per certo che anche l’amministrazione Obama continua a finanziare l’opposizione iraniana: 20 milioni di dollari è la cifra destinata alla sola USAID per «promuovere la democrazia» nel paese mediorientale. E la segretaria di Stato Hillary Clinton, intervistata dalla CNN, ha ammesso che gli USA hanno discretamente appoggiato i dimostranti dell’opposizione in giugno. Thierry Meyssan (“La Cia e il laboratorio iraniano” e “Fallisce in Iran la rivoluzione colorata”) ha indagato sul coinvolgimento straniero nella contesa politica iraniana, senza essere mai confutato dai critici.

I sostenitori dell’assoluta “spontaneità” della cosiddetta “rivoluzione verde”, che fin nel nome ed in certi schemi d’azione richiama decisamente le “rivoluzioni colorate” orchestrate dagli USA in giro per il mondo, sono o male informati, o più semplicemente degl’inguaribili romantici che, identificandosi nell’opposizione iraniana, vogliono a tutti i costi crederla “senza macchia e senza paura”.

Spesso essi rifiutano sic et simpliciter la cosiddetta “dietrologia”, convinti che la verità e tutta la verità sia quella vista in televisione. Ma la realtà è un po’ più complessa di così, e non si possono valutare le vicende umane senza prendere in considerazione tutti i fattori, compresi quelli che agiscono sullo sfondo o che sono volutamente celati al grande pubblico.

Chiunque oggi scriva un libro sulla genesi della Prima Guerra Mondiale non potrà esimersi dal porre in primo piano alcune questioni geostrategiche ben distanti dai casus belli ufficialmente addotti all’epoca. Oggi è pacifico che la vera motivazione dell’ingresso in guerra dell’Inghilterra non fu difendere la neutralità del Belgio, bensì la sua supremazia marittima ed extra-europea dalla Weltpolitik del Reich germanico.

Allo stesso modo, sottolineare che la scoperta dell’America non derivò da un “colpo di testa” di Colombo, bensì dall’ambizione spagnola di risalire la filiera del commercio delle spezie orientali, rientra nella normalissima analisi storica – cosa diversa dalla “cronaca” – e non è certo “dietrologia”. Ciò è pacifico; ma perché mai si dovrebbero adottare schemi interpretativi diversi quando s’indaga un fatto presente anziché uno passato?

Chi rifiuta di prendere in considerazione qualsiasi fattore che non sia evidente e palese già alla prima occhiata inevitabilmente si condanna ad osservare da una sola prospettiva, e dunque a non cogliere la profondità ed il reale significato dell’oggetto del suo sguardo. D’altro conto, a tale visione naif si contrappone quella troppo estrema spesso bollata come “complottista”, secondo cui alla base degli eventi iraniani ci sarebbe un’oscura manovra di Washington.

Le politiche di destabilizzazione dell’Occidente sono certo un fattore importante, ma non si possono ignorare né minimizzare quelli endogeni – che sono presenti in ogni “rivoluzione colorata”, e tanto più in Iràn dove, propriamente, non siamo di fronte ad un evento di quel tipo (ossia un colpo di Stato promosso dalla CIA) bensì ad uno scontro interno, che gli USA hanno contribuito a fomentare ed in cui si sono inseriti, ma che non hanno plasmato essi stessi né che manovrano in toto. Cerchiamo d’essere più chiari e precisi.

Lo scontro in corso è tra il Presidente e la Guida Suprema da un lato, e l’ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani dall’altro. Rafsanjani – una sorta di “eminenza grigia” della Repubblica Islamica – non può essere considerato un semplice burattino coscientemente o incoscientemente in mano alla CIA.

Rafsanjani è un chierico di primo piano, per otto anni presidente della Repubblica, oggi alla testa dell’Assemblea degli Esperti e del Consiglio per il Discernimento, due organi non elettivi dotati d’ampi poteri (tra cui l’elezione e persino la destituzione della Guida Suprema).

Nel corso degli anni ha accumulato enormi ricchezze e svariate accuse di corruzione da parte dei suoi avversari. Val la pena notare che Rafsanjani è catalogabile, per utilizzare le categorie trite e ritrite della stampa nostrana, come un “conservatore” e non certo come un “riformista”.

Nel 2005 cercò il terzo mandato presidenziale (dopo otto anni di presidenza Khatamì), ma fu a sorpresa sconfitto dal sindaco di Tehrān, il laico Mahmud Ahmadi Nejad. Da lì cominciò la rivalità, esplosa in tutta la sua violenza negli ultimi mesi. Rafsanjani, sconfitto alle urne, ha trovato appoggi presso altre importanti figure della politica iraniana, come gli ex presidenti Khatamì e Musavì. Nemmeno costoro sono sospettabili d’essere agenti della CIA.

Stessa cosa dicasi per gran parte dell’opposizione, eccetto i gruppi terroristi – monarchici e comunisti dei Mugiahiddin i-Khalq, cui appartenevano i dissidenti recentemente giustiziati (condannati appunto per aver preso parte non a manifestazioni pacifiche, bensì ad attentati che sono costati la vita a decine di persone) – e probabilmente qualche gruppetto di giovani militanti, che agiscono in sintonia con le tipiche procedure delle “rivoluzioni colorate”.

Il clan Rafsanjani ha, invece, una propria base sociale. Una parte consistente del clero, ad esempio, non gradisce la popolarità acquisita dal Presidente – un laico – e la crescente influenza delle Forze Armate. Inoltre, Ahmadi Nejad ha impostato la propria politica sociale sull’attenzione per le classi basse: si può discutere quanto si vuole sull’effettiva efficacia e sincerità dei suoi provvedimenti, ma è certo che il “popolo minuto” rappresenta la sua base di consenso, mentre è nei ceti alti e soprattutto nella borghesia urbana che trova numerosi critici, se non altro perché la sua politica economica e l’isolamento commerciale hanno danneggiato i loro interessi materiali.

Egualmente, molti studenti universitari – tradizionalmente inclini al “ribellismo” verso la società, e che hanno l’occasione di entrare facilmente in contatto con altre culture e punti di vista esterni – fanno parte dell’opposizione. Alcuni di questi saranno certamente mossi anche dal desiderio di una liberalizzazione politica e dei costumi.

Quest’interpretazione “sociale” degli schieramenti politici in Iràn (che non va presa troppo rigidamente: Ahmadi Nejad ha sostenitori anche tra i ricchi e gli universitari, e oppositori tra la povera gente) non è certo una mia invenzione, ed è suffragata dall’approfondita indagine condotta da Terror Free Tomorrow e New America Foundation (vedi Ken Ballen e Patrick Doherty, “The Iranian people speak”).

Esiste dunque un’opposizione genuina dotata d’una propria base sociale, sicché la lotta dal livello istituzionale è potuta scendere fin nelle piazze, come sperimentato negli ultimi mesi.

Precisiamo, a scanso d’equivoci, che il sostegno a Ahmadi Nejad è superiore all’opposizione, come hanno dimostrato le ultime elezioni (i cui risultati tengo per buoni, poiché le tesi dei sostenitori dei brogli massicci e decisivi che ne avrebbero sovvertito l’esito non hanno retto all’analisi critica che ho svolto in Elezioni iraniane: la tesi dei brogli al vaglio ”, al momento mai confutata e che perciò ritengo valida).

Perché negli ultimi mesi questo scontro al vertice si è tramutato in una lotta così violenta e serrata? Ritengo che gli USA abbiano avuto in ciò un ruolo diretto, non decisivo, ed uno indiretto, decisivo. Il ruolo diretto è, ovviamente, il finanziamento e la manipolazione di elementi dell’opposizione.

È ipotizzabile senza suscitare scandalo la presenza di qualche agitatore statunitense in seno all’opposizione, soprattutto in quelle manifestazioni egemonizzate dall’ala più radicale, come i disordini provocati da comunisti e monarchici durante le celebrazioni dell’Ashura a Tehrān – sconfessati anche da Musavì.

Eppure, se non ci fosse una reale massa d’oppositori non sarebbe stata possibile una così lunga serie di manifestazioni e disordini, nemmeno per un’agenzia ricca e potente com’è la CIA.

L’opposizione iraniana esiste indipendentemente dal ruolo diretto degli USA, che si può supporre preponderante solo nel caso delle fazioni più estremiste (e violente), come i terroristi dei Mugiahiddin i-Khalq le cui basi si trovano in Occidente.

È assai plausibile che ci siano stati contatti informali tra l’opposizione iraniana e gli Statunitensi, vista la contingente parziale coincidenza d’interessi. Ma non è credibile che questa parte cospicua, anche se minoritaria, della società iraniana possa essersi improvvisamente venduta in massa alla Casa Bianca.

Maggiore rilievo ha avuto il ruolo indiretto degli USA, determinante per spingere Rafsanjani ed i suoi alleati a cercare lo scontro aperto con Ahmadi Nejad (e Khamenei). La posizione di George W. Bush verso l’Iràn si potrebbe riassumere grosso modo come segue: l’Iràn è uno “Stato canaglia”, un nemico che dev’essere sottomesso con la forza (invasione o colpo di Stato etero-diretto) e le cui istituzioni vanno “occidentalizzate”, quindi con l’abbattimento della Repubblica Islamica. Con un interlocutore del genere c’era ben poco spazio di manovra. Le cose sono cambiate con Barack Obama.

Il Presidente democratico, in omaggio alle tesi geopolitiche del suo consulente Zbigniew Brzezinski (si veda il suo The Grand Chessboard), ritiene che l’Iràn debba costituire un tassello fondamentale nella strategia mondiale statunitense, fungendo da argine all’influenza russa e cinese nel “Grande Medio Oriente”.

Dato che le disavventure in Afghanistan e Iràq rendono improponibile un’invasione anche dell’Iràn, e dal momento che un “cambio di regime” a Tehrān è assai improbabile, l’unica scelta è trattare, mediare. Obama ha osato (e uso questo verbo perché negli USA è difficile contestare apertamente i programmi di Tel Aviv) persino costruire una parte della sua campagna elettorale su questo tema, sicché non si può ignorarlo.

Il problema è che né Obama né Ahmadi Nejad sono disposti a fare grandi concessioni, e così è arduo per loro venirsi incontro. Anche se si risolvesse lo scoglio del programma nucleare, per Obama sarebbe solo un primo tassello: provocare il riallineamento geostrategico dell’Iràn sarebbe operazione ancora più difficile e laboriosa.

La differenza tra USA e Iràn sta in questo: che essendo i primi più forti del secondo, negli USA l’opposizione alla “linea Obama” è la “linea dura”, quella della contrapposizione frontale all’Iràn, della promozione del “cambio di regime” o dell’attacco militare; in Iràn invece chi s’oppone alla “linea Ahmadi Nejad” è favorevole all’ appeasement con Washington.

Ecco dunque che, dopo l’ascesa alla presidenza di Obama, la fazione che fa capo a Rafsanjani – tradizionalmente favorevole all’inserimento nell’economia capitalista globalizzata ed a rapporti “distesi” con l’Occidente – ha intravisto l’opportunità ed ha scelto di agire per liberarsi di quella che considera come una zavorra per gl’interessi dell’Iràn (o per i propri personali), ossia l’oltranzismo e l’idealismo di Ahmadi Nejad.

Il clan Rafsanjani vorrebbe spodestare Ahmadi Nejad per fare maggiori concessioni agli USA e così rendere possibile la distensione diplomatica con l’Occidente, cosa che favorirebbe in particolar modo gl’interessi economici dei ceti alti iraniani, gli stessi che forniscono la base di sostegno all’opposizione.

Khamenei è un ostacolo infinitamente minore: egli ha scelto attualmente d’appoggiare Ahmadi Nejad, ma se questo dovesse cadere in disgrazia, non avrebbe grossi problemi a mostrarsi conciliante col clan Rafsanjani: Khamenei è la Guida Suprema dal 1989, il che significa che ha convissuto per 8 anni con Rafsanjani presidente e per altri otto con Khatamì.

Siccome, però, la popolazione è in larga maggioranza a fianco di Ahmadi Nejad, Rafsanjani ed alleati hanno scelto d’optare per la via extra-istituzionale: lo scontro di piazza, il tentativo di rovesciare il Presidente con la forza, logorandolo costantemente ai fianchi finché non sarà possibile dargli lo scossone finale.

Se il progetto dell’opposizione iraniana dovesse avere successo, cosa succederebbe all’Iràn? Come già si è detto, si troverebbe un accordo sul nucleare con l’Occidente; prevedibilmente, sarebbe Tehrān a dover compiere numerosi passi indietro (o avanti, a seconda dei punti di vista), ossia a fare ripetute concessioni.

La contropartita, quella tanto agognata, sarebbe la riapertura a pieno regime dei canali commerciali con l’Occidente. Sul piano interno, è assai probabile che la liberalizzazione dei costumi sarebbe scarsa se non nulla: infatti, l’ala più radicale e libertaria dell’opposizione sarebbe prevedibilmente tagliata fuori dai giochi subito dopo la presa del potere.

Aumenterebbe anzi il potere del clero a dispetto di quello delle Forze Armate, e si andrebbe in direzione opposta alla “democratizzazione”, in quanto il demos ha già mostrato in maniera eclatante da quale parte stia. Sul piano internazionale, però, non ci sarebbe quel radicale ribaltamento d’alleanze auspicato da Obama e dai realisti statunitensi.

I rapporti di forza nel mondo stanno cambiando, ed oggi anche Russia e soprattutto Cina offrono opportunità commerciali e politiche non inferiori a quelle dell’Occidente. Un Iràn “de-ahmadinejadizzato” si limiterebbe a condurre una politica più cauta, “multi-vettoriale”, cercando di mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze.

Un quadro molto diverso da quello naif ed idealistico che oggi si figurano gli entusiasti sodali occidentali dei “verdi” iraniani.