venerdì 19 febbraio 2010

Update italiota

Una serie di articoli sulle recenti squallide vicende italiote.


I compari e la Triarchia. Il sistema dell'emergenza
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 19 Febbraio 2010

Deflagra lo scandalo della Protezione civile e Silvio Berlusconi urla ai magistrati "Vergognatevi!" e, in fretta, corre a nascondersi per sette giorni tra le quinte. Si defila. Sta alla larga, muto come un pesce. Ben protetto, attende gli eventi e ora che il fondo "gelatinoso" - familistico, combriccolare, spregiudicato, avidissimo - è in piena luce, il premier avverte il pericolo, come un fiato caldo sul collo.

Può scoppiargli tra le mani, quest'affare. Prova a uscire dall'angolo. Rinuncia a trasformare in un soggetto di diritto privato, in una società per azioni, le "funzioni strumentali" della Protezione civile. Abbandona la pretesa di garantire l'impunità amministrativa a chi la governa. Accantona l'idea di imporre al Parlamento un altro voto di fiducia. Si accorge che quei passi indietro non sono sufficienti.

Non lo proteggono abbastanza da quel che si scorge nel pozzo nero dove si sono infilati molti dei suoi fedelissimi, addirittura il coordinatore amatissimo del suo partito. Si decide a una proposta che, fiorita sulla sua bocca, appare avventurosa: "Chi sbaglia e commette dei reati non può pretendere di restare in nessun movimento politico" (se non se stesso, quanti del suo inner circle dovrà escludere dal Palazzo?).

Al di là del messaggio promozionale che, vedrete, durerà il tempo della campagna elettorale, il premier si sente interrogato e coinvolto dallo scandalo. Finalmente, perché il modello del trauma e del miracolo, dell'emergenza risolta con un prodigio - non è altro che questo la Protezione civile - è il fondamento della "politica del fare", la strategia che glorifica una leadership politica che ha in Gianni Letta la guida burocratico-amministrativa e in Guido Bertolaso il pilota tecnocratico.

Il destino dell'uno è avvinto alla sorte dell'altro, degli altri, come in un indistricato nodo gordiano perché il sistema della Protezione civile è il prototipo del potere che Berlusconi pretende e costruisce. E' il dispositivo che anche pubblicamente Berlusconi invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".

La storia è nota, oramai. Il sovrano decide l'eccezione rimescolando l'emergenza con l'urgenza e infine l'urgenza con l'ordinarietà. Nel "vuoto di diritto", cade ogni regola. Si umilia la legge. Il governo può affermare l'assolutezza del suo comando. Lo affida alla potenza tecnologica della Protezione civile, libera di decidere - al di là di ogni uguaglianza di chances - progetti, contratti, direzione dei lavori, ordini, commesse, consulenze, assunzioni, forniture, controlli.

La scena è ancora più vivace se si rileggono le parole del bardo televisivo del premier: "Piaccia o non piaccia, Berlusconi è l'uomo del fare. Sbuffa contro le lentezze di un sistema bicamerale perfetto e si rifugia nei decreti legge. Lamenta gli estenuanti dibattiti parlamentari e propone di far votare solo i capigruppo. Si sente imbrigliato nei vincoli costituzionali che il presidente della Repubblica (e ora anche quello della Camera) gli ricordano. Ma appena arriva un'emergenza rinasce.

Perché rinasce? Perché emergenza chiama commissario e il commissario agisce per le vie brevi, saltando le procedure. Guido Bertolaso e Gianni Letta si ammazzano di lavoro, l'uno sul campo, l'altro nelle retrovie di Palazzo Chigi. Ma il commissario ideologico è il Cavaliere. ... Quando va a L'Aquila, Berlusconi si siede con gli uomini della Protezione civile e guarda carte, rilievi, progetti. Niente doppie letture parlamentari in commissione e in aula, niente conferenze di servizi, niente rallentamenti burocratici, niente fondi virtuali" (Bruno Vespa, Panorama, settembre 2009).

* * *

Adesso sappiamo che cosa si è mosso e ritualmente si muove dietro l'emergenza, sia essa il G8 alla Maddalena, i rifiuti di Napoli, il terremoto dell'Aquila o i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Berlusconi, "commissario ideologico", laboriosamente chino su "carte, rilievi e progetti" è un'immagine che bisogna ricordare.

Racconta una presenza e una responsabilità. Spiega meglio di tante parole perché - ora che quel potere assoluto si scopre corrotto - lo scandalo della Protezione civile è lo scandalo di una leadership politica, il dissesto della "politica del fare", lo smascheramento della materia di cui è fatta, di un metodo, degli uomini che lo interpretano.

Nel cerchio infimo della responsabilità troviamo gaglioffi che ridono di tragedie e lutti che presto diventeranno - soltanto per loro - fortuna e ricchezza; funzionari dello Stato che barattano i loro obblighi per i favori di una prostituta; giudici costituzionali in società con imprenditori malfamati; segretari generali di Palazzo Chigi che esigono prebende e benevolenze perché sanno di poterle pretendere (è a Palazzo Chigi, nella stanza di Gianni Letta, che tutto si decide e quindi...); un corteo di mogli, cognati, figli, fratelli - rumoroso e vorace come una nube di cavallette - in cerca di collocazione, incarichi, provvigioni, affari, magari soltanto uno stipendiuccio da incassare senza troppa fatica. Qualche malaccorto minimizza: non è una notizia che politici e amministratori si interessano di appalti.

L'argomento dovrebbe chiudere il discorso, lasciare cadere in un canto che quegli appalti interessavano soltanto alcuni, sempre gli stessi, e non il mercato, non i migliori, non la pubblica utilità; far dimenticare che dove non ci sono regole, dove non soffia l'aria fresca dell'attenzione e della critica pubblica è inevitabile che "cresca come un fungo una corruzione senza colpa".

Una corruzione senza colpa è quel che si scorge a occhio nudo nello scandalo della "politica del fare", al di là di ogni indagine giudiziaria, come se le condotte di quegli uomini di Stato e civil servant e professionisti e imprenditori fossero necessitate, come se le loro azioni fossero, più che una libera decisione, "un adempiere, un 'riempirè tasselli già pronti".

Costretti in un "sistema", come può esservi responsabilità e castigo? In qualche modo, è vero perché "di rado un individuo si rende colpevole da solo", ha scritto Joseph De Maistre.

Le ragioni di quelle responsabilità devono essere rintracciate in un cerchio più alto, allora, nella triarchìa (Berlusconi, Letta, Bertolaso) che ha voluto e creato un metodo, ne ha amministrato le condizioni e i risultati, ha lasciato un salvacondotto a quei comportamenti storti.

E' per questo che oggi Bertolaso e Letta devono mentire o dissimulare (non sapevamo, non siamo stati informati, siamo stati informati male) e Berlusconi deve lamentare che i suoi due collaboratori "sono stati ingannati".

Bene. Ammettiamo che siano stati imbrogliati davvero e chiediamoci: Bertolaso e Letta hanno avuto la possibilità di non lasciarsi ingannare? Sono stati messi nella condizione di sapere e provvedere? Non dallo zibaldone delle intercettazioni, ma dalle stesse parole di Bertolaso si può trarre la conferma di una consapevolezza delle manovre smorte e della necessità di non punire per salvaguardare il "sistema".

* * *

Dice Bertolaso: "A un certo punto, ho scoperto che alla Maddalena dei lavori, che avevamo previsto costassero 300 milioni di euro, stavano per essere appaltati a 600. Incaricato della pratica era un certo De Santis. Io ho capito che qualcosa non tornava. Ho allontanato De Santis" (il Giornale, 14 febbraio).

Dunque, salta fuori che l'ingegnere Fabio De Santis, "soggetto attuatore" dei progetti del G8 - Bertolaso finge di non sapere chi è, anche se lo ha scelto direttamente - potrebbe essere disonesto. Lo sostituisce.

Non segnala a nessuno il suo sospetto o le sue certezze nemmeno quando Fabio De Santis, pur privo delle qualifiche idonee (non è un direttore generale), è nominato provveditore alle opere pubbliche in Toscana e Umbria, dove diventerà il perno di un "sottosistema" che ha il cardine politico nel coordinatore del Partito delle Libertà, Denis Verdini, e l'asse imprenditoriale in Riccardo Fusi della Baldassini-Tognozzi-Pontello.

A livello locale, si riproduce un triangolo speculare e simmetrico a quel che governa lassù in alto, a Roma. Bertolaso sa di non poter denunciare quel "certo De Santis" perché il sistema che sostiene la strategia dell'emergenza e il "fare" è oligarchico, protetto, "chiuso".

Egli ne è parte costituente e perno essenziale. Sa del familismo di un altro "soggetto attuatore", Angelo Balducci, ma come denunciarlo se egli stesso, il gran capo della Protezione civile, il leader tecnocratico del "fare" berlusconiano, chiama al lavoro, dovunque operi, il cognato? Bertolaso sa dove si trova, sa qual è il suo mestiere e la sua parte in commedia, è consapevole di quali fili che non deve toccare, delle richieste che deve soddisfare.

Ancora un esempio, per comprendere meglio. E' tratto non dai brogliacci dei carabinieri, ma dal lavoro giornalistico. Si sa chi è Gianpaolo Tarantini. E' il ruffiano che ingaggia prostitute per addolcire le notti di Silvio Berlusconi.

Si sa che Tarantini vuole lucrare da quella attività affari e ricchezza. Chiede al capo di governo di incontrare Bertolaso. Gli vuole presentare un suo socio o protetto, Enrico Intini, desideroso di entrare nella short list della Protezione civile. Berlusconi organizza il contatto.

Bertolaso discute con Intini e Tarantini. Quando la storia diventa pubblica, Bertolaso dirà: "La Protezione civile non ha mai ordinato né a Intini né a Tarantini l'acquisto di una matita, di un cerotto o di un estintore". E' accaduto, per Intini, di meglio. Peccato che Bertolaso non abbia mai avuto l'occasione di ricordarlo.

L'impresa di Intini ha vinto "la gara per il nuovo Palazzo del cinema di Venezia, messa a punto dal Dipartimento guidato da Angelo Balducci, appalto da 61,3 milioni di euro". Scrive il Sole 24 ore: "La gara ha superato indenne i ricorsi delle imprese escluse e dell'Oice (organizzazioni di ingegneria) in virtù delle deroghe previste per la Protezione civile".

Anche per Tarantini non è andata male. Ha una società che naviga in cattive acque, la "Tecno Hospital". La rileva "Myrmex" di Gian Luca Calvi, fratello di Gian Michele Calvi, direttore del progetto C. A. S. E., la ricostruzione all'Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti per 17mila persone con appalti per 695 milioni di euro.

Come si vede, forse il ruffiano di Berlusconi e il suo amico non hanno venduto alla Protezione civile una matita, ma la Protezione civile, direttamente o indirettamente, qualche beneficio a quei due glielo ha assicurato.

* * *

Shakespeare ha scritto che per un governante "lasciare al misfatto (evil) un qualche compiacente lasciapassare - invece di colpirlo - è l'equivalente di averlo ordinato" (Misura per misura).

E' quel che si vede nello scandalo della "politica del fare". Chi governa, vede e sa. Lascia correre, chiude gli occhi e si volta dall'altra parte per proteggere un "sistema" che privatizza l'intervento dello Stato, chiudendolo nel cerchio stretto delle famiglie, degli amici politici, dei compari di convivio.

Non si discute di responsabilità penali (se ci saranno, si vedrà, e poi quasi mai per capire e giudicare bisogna attendere una sentenza). E' in discussione un "sistema", un dispositivo di potere, chi lo ha creato, l'affidabilità di chi lo governa, la responsabilità di decisione e controllo che Berlusconi, Letta e Bertolaso si sono assunti dinanzi al Paese.

Gianni Letta, governatore della macchina burocratico-amministrativa in nome di Berlusconi, sarà anche stato distratto quando Angelo Balducci è asceso alla Presidenza del Consiglio superiore dei lavori pubblici (ora è in galera) o quando quel "certo De Santis" è stato destinato alle opere pubbliche della Toscana e dell'Umbria.

Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, candidato dal presidente del consiglio alla Presidenza della Repubblica, sarà stato anche "informato male" quando ha detto che non ha mai lavorato in Abruzzo (ci ha lavorato fin dalla prima ora), quel furfante che rideva mentre, alle 3,32 del 6 aprile del 2009, 308 aquilani morivano, 1.600 erano feriti e 63.415 restavano senza casa, ma ci si deve chiedere allora: quante volte Gianni Letta è stato "informato male" o è stato distratto negli anni dello "stato d'eccezione"?

Lasciamo cadere ogni ipotesi di complicità o favore (e in alcuni casi è impossibile non scorgerla), come si possono conciliare i poteri assoluti della triarchìa con l'irresponsabilità con cui ha assolto al suo dovere?

Né vale dire che all'Aquila i poteri straordinari della Protezione civile si sono rilevati efficienti. Come purtroppo si rendono conto gli aquilani, la "politica del fare", giorno dopo giorno, sta mostrando quel che era: miracolismo mediatico.

Un modello centralista e autoritario - il prototipo del potere berlusconiano - ha trasformato un'antica città con un sistema urbano delicato e un centro storico prezioso e vitale (perderà due terzi degli abitanti e nulla si sa delle strategie e dei piani per farlo rivivere) in un deserto di venti periferie e quartieri satellite che travolgono i luoghi, la memoria, i legami sociali, deformandone l'identità culturale, pregiudicando un futuro a cui è stata promessa "la ricostruzione" e ha ottenuto soltanto un progetto edilizio e nulla più.

Ma questa è un'altra storia che presto saranno gli stessi aquilani a raccontare. C'è da credere che saranno loro, gli aquilani, a spiegare agli italiani con il tempo e la loro infelice esperienza che cos'è davvero la "politica del fare", perché lo scandalo della Protezione civile è il tracollo di un prototipo di potere, il più clamoroso fallimento dell'"uomo del fare".


Dai mariuoli ai birbantelli
di Filippo Ceccarelli - La Repubblica - 19 Febbraio 2010

Nella scala Mercalli del lessico berlusconiano il termine "birbantelli", che il premier ha usato per qualificare i protagonisti del malaffare uscito fuori in questi giorni, si colloca appena un gradino sopra "birichino".

Birbantelli sarebbero, per intendersi, questi individui che a tal punto smaniano per i quattrini da fregarsi le mani durante le scosse di terremoto, e si agitano, brigano, impicciano, volteggiano sulle disgrazie altrui, instancabili come sono, e corrompono funzionari dello Stato e ingaggiano prostitute, e ridacchiano delle loro prestazioni e insomma: "gli sciacalli", per taluni, o "la cricca", per altri, o tutte due le parole insieme, che non saranno carine, però, insomma, considerati i morti, il dolore, la crisi, la miseria, gli sprechi...

E invece ecco che Berlusconi se ne esce addirittura con un vezzeggiativo, birbantelli, e sembra quasi di vederlo sorridere mentre fa il gesto delle tottò con la mano, ah, birbantelli, ahi-ahi! Trattasi di epiteto scherzoso e benevolo, il Devoto-Oli (Le Monnier) conferma la regressione all'infanzia, "ragazzacci" suonerebbe già più serio, siamo vicini a "monelli", l'indulgenza è un lampo che rischiara il messaggio, il premier è il più avveduto e operoso specialista di semantica applicata alla vita pubblica, e quando dice birbantelli sposta i reati del codice penale e l'immoralità più nera e cannibalesca in un mondo di favole, fumetti, cartoni animati, nomignoli per chattare ("Ho gli ormoni birichini e birbantelli") o scherzi da nonnetto allegro, cu-cù, cu-cù, bu-bu-set-tete!

Ma poi è anche vero che gli italiani, certo meno di un tempo, ma hanno sempre abbastanza paura di sentirsi fessi, per cui capiscono benissimo che il senso politico di quella parola è sdrammatizzare, ridimensionare, minimizzare e anche porsi al di sopra chiamandosi fuori da quelle schifezze lì.

E' il potere che durante le sue crisi possiede connaturato questo codice di riduzionismo e di estraneità funzionale. Andreotti era così bravo a sminuzzare i problemi da alleggerirne non solo la portata, ma anche l'intensità - almeno fino alla primavera del 1993, quando fu accusato di essere un mafioso e di aver fatto uccidere Pecorelli.

Molto meno bravo fu Bettino Craxi, il cui potere infatti durò circa un quarto del tempo andreottiano, ma qui la faccenda si fa delicata per il Cavaliere. Perché se c'è un precedente che può richiamarsi a proposito dei birbantelli, viene subito in mente il modo sbrigativo in cui il 3 marzo del 1992, per cavarsi fuori dai guai, il leader del garofano volle designare il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, che tanto aveva fatto per il Psi a Milano, e anche per la sua corrente, e addirittura per il figlio che muoveva i primi passi in quella giungla di tessere e magheggi. Disse dunque il grande Craxi, rispondendo a una domanda dei telespettatori del Tg3, che Chiesa era "un mariuolo".

Non fu un'uscita felice, e forse basterebbe da sola a ridimensionare il clima di santificazione acritica che ha segnato il decennale della morte nel gennaio scorso. E non solo perché lo stesso Chiesa nel luglio del 1995 ebbe modo di dire con qualche motivo che all'accusa di essere un mariuolo "avrei potuto ribattere che allora lui era Alì Babà, il capo dei... settanta ladroni" (disse proprio 70, Chiesa, incespicando sulla contabilità de Le mille e una notte).

Ora, in uno sconsolato torneo d'indulgenza lessicale dinanzi alle ricorrenti ladrerie, birbantelli è parecchio più bonario di mariuolo, così come il modo in cui l'ha messa ieri il presidente Berlusconi appare molto più trullallà rispetto alla solenne intemerata sul "mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano, in cinquant'anni, non in cinque, ma in cinquant'anni - ribadì uno sdegnatissimo Craxi - non ha mai avuto un amministratore condannato per gravi reati contro la pubblica amministrazione".

Il punto è che da allora l'Italia non è che sia molto migliorata, anzi, e la regressione non è solo infantile, ma in qualche modo si avverte anche sul piano morale, civile e addirittura su quello del linguaggio e del costume, con le sue frivolezze terribilmente serie, con le sue novità capricciose che arrivano a far rimpiangere la cupa piattezza del brutto tempo che fu.


La classe dirigente è scomparsa
di Gian Enrico Rusconi - La Stampa - 19 Febbraio 2010

Archiviamo dunque la retorica della «sana società civile» italiana contrapposta alla «politica» inefficiente e corrotta o semplicemente impotente. La nostra politica rispecchia la nostra società. Questa tesi è stata espressa più volte su questo giornale, in tempi non sospetti, senza aspettare le ultime vicende, mettendo in guardia contro l’autoinganno della «sana società civile».

Non per negare l’esistenza di strati e settori che sono sani e generosi (e che si sentono offesi dalla nostra analisi) ma perché rimangono frammenti di società, senza capacità coagulante. La società civile è a pezzi, depressa, senza guida.

Siamo così al punto cruciale: alla scomparsa o all'inesistenza di una classe dirigente italiana, degna di questo nome.

Per classe dirigente non si deve intendere innanzitutto il ceto politico professionale, ma l’insieme dei gruppi responsabili - nell’economia, nei media, nella cultura, nella magistratura - che di fatto svolgono un ruolo di guida. Lo fanno con le loro decisioni, con i loro atteggiamenti.

Ebbene questi gruppi sono o diventano «classe dirigente» quando intenzionalmente, esplicitamente (oppure anche implicitamente) si sentono responsabili «in solido» della comunità nazionale.

E agiscono in questo senso. Non si limitano a rappresentare i legittimi interessi del loro settore, dichiarandoli senz’altro di interesse generale, ma si assumono una responsabilità comune. Sacrificando magari alcuni dei loro interessi «legittimi».

In questa prospettiva il ceto politico professionale, con la sua dialettica interna, dovrebbe essere il fattore di raccordo di questa responsabilità comune condivisa (per dirla con l’aggettivo ora più inflazionato). Invece non è così.

La politica oggi è diventata la fonte prima di disgregazione, di contrapposizione, di incompatibilità culturale e morale. E gli altri pezzi di classe dirigente - in particolare quella economica - giocano di sponda sulle contrapposizioni interne della politica, addirittura su questo o sull’altro ministero, su questa o sull’altra struttura istituzionale.

Particolarmente penosa è la situazione del ceto intellettuale che - quando non è apertamente schierato in trincea - non riesce a offrire in modo convincente piattaforme di intesa morale e culturale che abbiano valore comune. Non è in grado di andare oltre le diagnosi più impietose.

E quando lo fa, le sue suonano come prediche edificanti. La scissione, il sistematico mancato incontro tra l’energia propositiva intellettuale e l’energia realizzatrice politica è la scoperta più sconfortante degli ultimi anni.

Si è fatta tanta ironia sugli «intellettuali organici» della vecchia repubblica, con le loro ideologie e le loro obsolete visioni del mondo. Eppure a loro modo, con alti e bassi, in momenti importanti hanno consentito l’incontro tra intelligenza e operatività, con una positiva ricaduta sulla dialettica tra forze di governo e forze di opposizione.

Oggi l’elemento che più paralizza il ceto intellettuale nel suo virtuale ruolo critico dirigente è la prepotenza del sistema mediatico, intimamente appiccicato al sistema politico. Solo in apparenza infatti il sistema mediatico esercita la sua funzione critica. In realtà cementa insieme la classe politica esistente.

A «Ballarò» solo in apparenza ci sono contrapposizioni e contro-argomentazioni: in realtà va in scena lo stesso spettacolo della stessa politica. Ci si insulta: ma non si scambiano argomenti in grado di convincersi. E’ sconcertante, ma è così.

In queste condizioni come si ricostruisce una classe dirigente che è fatta di politici, di intellettuali, di manager, di sindacalisti, di magistrati ecc? Tutti forti delle loro specifiche competenze eppure consapevoli di avere una comune, vincolante responsabilità verso la società civile?

Il vero leader è chi sa trasmettere questo senso di responsabilità e condurre in questa direzione. Non chi esaspera le divisioni.


Valsusini al bivio
di Debora Billi - http://petrolio.blogosfere.it - 18 Febbraio 2010

La TAV è uno degli argomenti preferiti di questo blog. Nulla come la TAV dimostra, per fare un paragone attualissimo, la "Maddalenizzazione" del nostro Paese. Ovvero: opere inutili, magari mai finite, che servono solo a far contenti i cementificatori e a far girare un po' di milioni nelle tasche degli amici.

La TAV, più di altri, è bipartizan (ovvero i prenditori di turno sono "amici" dell'una e dell'altra parte), ed è per questo che ci viene disperatamente venduta dalla stampa come indispensabile, con slogan insensati quali "ci serve per entrare in Europa".

Stanotte i NoTAV hanno avuto un'altra delle periodiche razioni di botte, per non volersi piegare al diktat cementifero.

"Non è un movimento che ripiegherà" ricorda saggiamente Megachip: i valsusini sono i veterani dei movimenti popolari territoriali in Italia, avvezzi ahinoi al manganello. Ma hanno assaporato il gusto della vittoria, seppure momentanea, e questo li aiuta a tenere duro e a credere ancora in ciò che fanno.

Certo, vedere signore cinquantenni col volto coperto di sangue può scoraggiare; così come può scoraggiare leggere il giorno dopo, su La Stampa, articoli che usano frasi tipo: "I NoTAV, tra cui un centinaio di antagonisti..." oppure "un giovane legato alla galassia anarco-insurrezionalista..."

Non credo che i NoTAV si scoraggeranno tanto facilmente. Ma già è in atto la sempre serpeggiante polemica "dobbiamo essere nonviolenti?": rompere il vetro di un'ambulanza, nel trambusto, è comprensibile? Oppure sarà foriero di tali discussioni da rompere il compatto fronte della protesta?

Vorrei ricordare ai valsusini un articoletto che scrissi all'epoca dei disordini di Chaiano, nel tentativo di spiegare la precisa strategia che viene attuata ogni volta che i cittadini si dimostrano fermi. E' una strategia coordinata tra la stampa e le forze dell'ordine, probabilmente persino codificata da qualche parte, tanto viene regolarmente applicata. Riporto qui, per ribadire:

-C'è una ribellione popolare che coinvolge un'intera zona, cittadini qualsiasi, famiglie, amministratori pubblici. Spesso c'è un presidio permanente mantenuto da queste persone.

-Passo 1: si attacca inaspettatamente il Presidio. Lo scopo è unicamente quello di terrorizzare i presenti, gente qualsiasi e non ultrà avvezzi ai moti di piazza. Per terrorizzarli ben bene, si attaccano i più indifesi: donne, anziani, giovanissimi. Si consente che le immagini relative siano diffuse dai media.

-Risultato: l'attività di ribellione e il presidio si ridimensionano. I padri di famiglia non consentono più che mogli e madri partecipino ai presidi, le stesse donne temono per sé stesse e i loro figli. A questo punto, a presidi e manifestazioni partecipano solo giovani uomini. Intanto, le immagini diffuse hanno fatto sì che nel luogo arrivino politici di professione e attivisti di altre "zone calde", confluiti per portare solidarietà e aiuto.

-Passo 2: a questo punto, la fregatura è servita. Ai prossimi scontri, i giovani uomini rimasti reagiranno. Gli attivisti parteciperanno. E sarà facilissimo trasformare quella che era una protesta popolare di cittadini in un presidio di rivoltosi, blac bloc, autonomi e pseudo terroristi. Le vecchiette non ci sono più, verranno diffuse le immagini dei ragazzi col volto coperto. Qualche molotov piazzata alla bisogna, qualche amico infiltrato, aiuteranno.

-Risultato: fine dell'appoggio popolare alla protesta. Arresti tra "gli autonomi". I media, che pochi giorni prima mostravano le manganellate, ora parlano di "infiltrazioni estremiste". I sindaci ci cascano e "si dissociano dai violenti", il fronte popolare si spezza tra le polemiche.

(Glossario giornalistico.)

"Antagonista". Sostantivo ormai lasciato all'interpretazione del lettore, senza più precisare "antagonista di chi o di cosa". "Antagonista", in neolingua, significa dunque "esaltato per principio, che rompe le vetrine".

"Galassia anarco-insurrezionalista". Locuzione di stile fantascientifico-astronomico, usata per definire una non meglio precisata (leggi:inesistente) e misteriosa organizzazione il cui scopo è esprimere pseudoterroristi che spuntano dal nulla dove serve fare casino. Per capirci, gli anarco-insurrezionalisti si sono materializzati persino nei letti dell'Eutelia occupata.

"Nonviolenta". Definizione usata per manifestazione di protesta consistita in balli, canti e tamburelli in mezzo alla strada, e poi tutti a casa. I giornali lodano i bravi partecipanti, indi si procede tranquillamente ad implementare senza indugi ciò contro cui i cittadini hanno protestato.


Rifiuti tossici nei nostri mari: l'inchiesta taciuta
di Antonio Benforte - www.pressante.com - 10 Febbraio 2010

Nel silenzio dei media, da solo, lui e il suo team di giornalisti fidati, rischiando la vita, il giornalista Gianni Lannes porta avanti da anni battaglie pericolose, svelando traffici illeciti e i sottili fili che uniscono la criminalità organizzata a vari settori della nostra società.

Il 28 gennaio a Roma, presso la Casa della Pace, il giornalista ha denunciato l’ormai lungo percorso storico di traffici illeciti di rifiuti tossici smaltiti dalla ‘ndrangheta nei nostri mari. In una serie di video disponibili su youtube (da un paio di settimane ne è stato inserito uno precedente nella sezione video di Pressante), attraverso il dettagliato resoconto, con dati e nomi, Lannes cerca di fare informazione su quello che succede nei nostri mari, senza che noi possiamo saperlo.

Per anni, andando dietro nel tempo, questa pratica di smaltimento è andata avanti tranquillamente. Adriatico, Tirreno, Ionio, nessun tratto di mare è stato escluso da... questi atti folli, ed è altamente improbabile, diciamo impossibile, che nessuno abbia visto o saputo fermare questo scempio.

Nello specifico, Lannes parla dello smaltimento dei rifiuti tossici prodotti dallo smantellamento della CENTRALE NUCLEARE CAORSO.

Lo ripetiamo, nel silenzio dei media e delle istituzioni, Lannes porta avanti la sua battaglia. Ha fondato addirittura un giornale, ItaliaterraNostra, perché sulle testate nazionali non c’è spazio – o voglia? – di parlare di questi temi.

Lannes è chiaro: nel corso degli anni, sono state tante le navi riempite di rifiuti tossici provenienti dalla centrale nucleare di Caorso. Venivano caricati sulle navi, a Genova e La Spezia, in attesa di essere affondate al largo, scomparendo nel nulla burocratico facilmente, c’è da ipotizzare con il tacito consenso di politici e istituzioni.

Lannes è anche entrato – tranquillamente, senza autorizzazioni e con tre macchine fotografiche – nella centrale per documentare i legami tra ‘ndrangheta e la centrale. Infatti, lo smaltimento dei rifiuti era stato affidato ad una società controllata dalla ‘ndrangheta, la Ecoge. Ci sono le foto ai camion di questa società e anche altro, a testimoniarlo.

Ora è quasi pronto un dossier, dal momento che questa inchiesta non interessava né alla Stampa, giornale per cui scrive Lannes, né ad altri giornali.

Econote è con Gianni Lannes, con il suo modo di fare giornalismo e di informare i cittadini. Giornalismo di inchiesta, senza timori e con un coraggio davvero encomiabile.

QUI i video con l’intervento di Lannes.


Milano, la strada della discordia

di Luca Galassi - Peacereporter - 16 Febbraio 2010

Fiaccolata della destra a via Padova, tra contestazioni e ipocrisia elettorale

La preghiera procede apparentemente tranquilla, nella moschea di via Padova, due giorni dopo l'omicidio di un egiziano e la rivolta della comunita' che ha messo sottosopra un intero quartiere.

Ieri pomeriggio i fedeli affollavano la casa della cultura islamica come ogni giorno: rito e breve sermone da ordinaria amministrazione, anche se all'esterno gli echi della protesta non si erano ancora sopiti. A gettare nuovamente benzina sul fuoco, una provocatoria fiaccolata del centro-destra, che di li' a poche ore avrebbe potuto innescare nuove tensioni.

Una parte integrante di Milano. L'enorme dispiegamento di forze di polizia ha scongiurato che poche, isolate contestazioni, si trasformassero in nuove violenze. Ma e' stato anche l'atteggiamento pacificatorio della societa' civile, delle organizzazioni che in viale Padova lavorano all'integrazione, in primis l'ambulatorio popolare di via dei Transiti, nonche' dell'imam e degli amministratori della moschea a evitare attriti e conflitti, durante il passaggio dei manifestanti.

"Sono qui da 35 anni - spiega Benaissa Bounegab, consigliere e presenza storica del centro islamico di viale Padova - e non ho mai visto nulla del genere. La rabbia e' stata covata per anni, anni di frustrazione, umiliazioni, disagio nel quale la comunita' musulmana ha vissuto in un quartiere che l'amministrazione ha lasciato al suo degrado. E non mi riferisco solo agli stranieri, ma anche agli italiani. Non e' stato fatto molto per l'integrazione, e si sono accorti solo all'ultimo che via Padova stava diventando un problema. La strada e' una parte integrante di Milano e non può essere in nessun caso messa in quarantena e lasciata ai politicanti che utilizzano questo caso isolato per portare acqua al loro mulino".

Fiaccola contro chi contesta. La fiaccolata comincia alle sette, da piazzale Loreto. Era stata annunciata, e cosi' anche presentata dai media, soprattutto il Tg1 della sera, come una manifestazione di protesta dei residenti.

Ma tra le circa duecento persone che sventolavano bandiere azzurre, campeggiavano gli striscioni della Giovane Italia, movimento giovanile del Popolo della Liberta', se non dichiaratamente fascista, sicuramente connotabile come tale dal carattere della scritta e dalla fiamma tricolore sul simbolo.

Il movimento si era già messo in evidenza durante il comizio di Berlusconi in piazza Duomo, aggredendo e mettendo a tacere con la forza i contestatori (prima del lancio del souvenir contro il Premier). "Clandestini fuori dai confini" era lo slogan piu' ricorrente. In cima al corteo, organizzato in sostegno dei cittadini di via Padova, il candidato Pdl Romano La Russa e Daniela Santanche'.

Tuttavia, numerosi cittadini di via Padova non hanno particolarmente gradito i cori razzisti e l'ipocrisia di chi, tra i partecipanti al corteo, ha portato fiori per l'egiziano ucciso cantando al contempo l'inno nazionale italiano sull'attenti.

Un rude e demagogico tentativo di raccattar voti a poco piu' di un mese dalle elezioni? Dalle finestre grida di indignazione e anche qualche insulto ("razzisti, razzisti") e' volato a chi inneggiava all'espulsione degli irregolari. Qualche momento di tensione si e' vissuto quando, all'altezza di via dei Transiti, un manifestante ha reagito lanciando una fiaccola contro un gruppetto di contestatori al lato della strada.

L'ambulatorio di via dei Transiti. Proprio a via dei Transiti la settimana scorsa ha passato indenne l'ennesimo tentativo di sfratto l'ambulatorio popolare che da anni assiste gratuitamente stranieri e italiani indigenti.

Sandra, una delle persone che si occupano del servizio, ha minimizzato l'entita' del problema immigrazione a via Padova: "I residenti e gli immigrati qui convivono pacificamente. Nessuno ci ha mai causato problemi, ne' a noi ne' ai nostri assistiti. Viceversa, gli immigrati costituiscono una risorsa nel quartiere. Via Padova e' uno dei pochi luoghi di Milano dove i locali sono aperti fino a tardi. Se sicurezza significa luoghi vuoti e deserti, allora le politiche di questa amministrazione vanno riviste".

Chi ha ucciso Aziz El Saied? A via Arqua', traversa di viale Padova, zona di spaccio, la polizia ferma alcune persone. "Mi hanno messo faccia a terra, chiesto i documenti con la pistola puntata alla testa - racconta un egiziano -, stanno facendo retate e perquisizioni a tappeto". Accanto a lui, altri connazionali dicono di "non sapere cosa sia successo la sera dell'omicidio", e che "non hanno visto nulla".

Eppure, l'insofferenza nei confronti dei sudamericani - e' girata la voce, forse infondata, che l'omicida di El Saied facesse parte dei 'Chicago', una delle gang di latinos - e' palpabile. "Abbiamo paura", dice il gestore peruviano della rosticceria El Carajo, mentre sfila il corteo del centro destra e lui abbassa le serrande del negozio. "Ora c'e' il rischio che se la prendano con tutti i sudamericani".

Reazione spontanea? Chi non crede all'ipotesi del regolamento di conti tra bande e' Massimo Conte, fondatore dell'agenzia di ricerca sociale 'Codici', esperto del fenomeno delle bande giovanili latinoamericane. "E' stato detto che l'aggressore appartiene ai Chicago, ma io ci andrei con i piedi di piombo prima di fare affermazioni di questo tipo. Chi parla di controllo del territorio a via Padova non sa che le gang di latinos a Milano non esercitano questo tipo di strategie.

Se cosi' fosse stato, non si sarebbero verificati episodi e incidenti come quello, perche' le aree sarebbero state chiaramente delimitate, e non sarebbero avvenuti 'sconfinamenti'. La reazione degli egiziani? E' avvenuta in maniera metodica, una trentina di persone che sapevano esattamente come muoversi nel territorio e come sfuggire alla polizia. Mi chiedo se sia stata davvero spontanea".

Ipotesi Islam radicale. Secondo alcuni, la rabbia degli egiziani e' montata perche' il cadavere del loro connazionale e' rimasto per troppo tempo sull'asfalto. Altri accreditano tesi diverse. L'organizzazione del gruppetto, che ha preso di mira determinati esercizi commerciali muovendosi con estrema abilita' nel percorso della devastazione, sarebbe indizio di una regia piu' alta.

Qualcuno che probabilmente ha pilotato la protesta per far sentire con forza la propria voce, nella fitta trama delle comunita' islamiche. In relazione a questo, non e' escluso che i fermi e le retate di questi giorni possano portare ad arresti e indagini negli ambienti del radicalismo islamico.


L'Italia peggiore sul palco dell'Ariston
di Marcello Veneziani - Il Giornale - 18 Febbraio 2010

Ho visto l’altra sera l’Italia che non ci piace. L’Italia becera e puttana, l’Italia imbecille e furbetta, l’Italia tossica e moralista. È stata un’apparizione breve, cinque minuti, ma è stata un riassunto genetico del suo squallore. Erano quasi le 23 e, come non mi capita quasi mai, ho fatto uno svogliato zapping sulle reti.

Il telecomando è il nostro telepass che ci fa passare velocemente sulle autostrade dell’idiozia; ma il telepass è anche abbreviativo di passività televisiva. Ho scansato un faccione di Di Pietro mutilato e una mezza porcata di film e sono scivolato tra due tettone confezionate in rosso di una nota presentatrice.

Là nel primo canale che scorreva tra le due possenti mammelle, ho visto per cinque minuti cinque l’Evento Principe, l’Autobiografia della Nazione, il Compendio d’Italia. Dico il festival di Sanremo. Cinque minuti non bastano per recensire una serata, anzi cinque; questa non è dunque una critica al festival.

Non è nemmeno una polemica con chi lo conduce, con chi lo fa e chi lo dirige. Anzi, considero Gianmarco Mazzi un fior di professionista, so che lavora bene. Considero Mauro Mazza uno dei migliori uomini della Rai, in video e alla guida di reti e tg. Dunque non è una polemica contro di loro.

Non è neanche una polemica contro la Rai a favore delle reti Mediaset e non è nemmeno, come fa la sinistra, un modo per attaccare tramite il festival l’era berlusconiana e il suo corso in Rai.

No, questa è una polemica metafisica, trascendentale, una denuncia contro Ignoti. Perché Sanremo non lo fa nessuno, si forma da solo, come i buchi neri, l’eclissi e gli uragani. È un caso unico di polluzione spontanea del Mezzo Televisivo, un coagulo di sperma, saliva, urina, lacrime, sudore e feci, tante feci.

Sanremo è un evento virale in cui si formano larve e batteri. O per essere in sintonia con la location floreale, Sanremo non lo produce nessuno, si riproduce per impollinazione, tramite vento e ignari insetti.

Fatta la premessa ontologica, e mi scuserete per la parola attinta dal lessico di Cassano, passo a dirvi i cinque minuti che ho visto. Beh, ho acceso mentre Emanuele Filiberto cantava il de profundis all’Italia: è giusto, i suoi avi hanno fatto l’Italia e lui la seppellisce. Dalla storia alla farsa.

Il reuccio della canzone esibiva un amor patrio falso e offensivo, che puzza di carne morta e di carnevale, cantava con rantolo da gatta morta, appena salvato da un tenore e dall’ottimo Pupo.

Ma un’esibizione che ci fa vergognare di essere italiani, di aver tenuto i Savoia in Svizzera come si fa con i capitali, quando meritavano di vivere a Casal di Principe che più si addice per nome e per degrado agli ultimi latrati della Casata.

Dopo un minuto di Emanuele Filibusto, che ha fatto rimpiangere l’epoca eroica quando il principe dall’Esilio smerciava sottaceti in televisione, mi sono sorbito un minuto e rotti della Tettona che ha suonato messa cantata sul Morgan a sette canne.

E lì ho visto l’altro lato della Brutt’Italia, il peggio nel peggio: un cantante che usa droga e dice che fa bene e passa per martire della medesima tv che gli ha dato notorietà. Morgan è vittima perché al posto di cinque minuti d’esibizione a Sanremo gli hanno dato appena due ore di Porta a Porta, quindici giorni di popolarità, un omaggio alla Memoria e un lancio discografico che gli altri se lo sognano.

Ma non solo: hanno pure speculato sul Morto, ovvero piangendo lacrime di coccodrillo sulla sua esclusione e annunciando colpi di scena e presentatrici che si dissociano in diretta dalla decisione di epurarlo, hanno tirato furbescamente sugli ascolti.

In quell’elogio untuoso all’Assente hanno realizzato lo Spirito Peggiore dell’Italia, la caricatura losca dell’anima clericale del Paese, quella che alterna santini a demonizzazioni, che condanna e consola, che soffre nel punire e gode nella confessione per celebrare infine il pentimento.

Pensavo di aver già fatto overdose di Pessima Italia dopo questi due minuti e mezzo di guaiti principeschi e dosi di crack tagliate con lacrime di ipocrisia, quando è apparso Cassano, con le sue parole, i suoi pensieri, il suo sorriso da Idiota Perfetto.

Gli avevano confezionato per il dialogo un testo demenziale, diceva stupidaggini neanche spontanee che la Tettona commentava con commosse attestazioni di ammirazione: meraviglioso, unico, eccezionale, fantastico.

Era un elogio a non leggere e a non pensare, a non faticare nella vita e a non meritare un modesto stipendio tramite studi e lavoro; era un lasciar parlare i piedi e considerare la rozzezza, la stupidità, l’ignoranza assoluta come modelli di virtù da indicare alle nuove generazioni.

Cassano si vantava di aver scritto più libri di quanti ne ha letti, e ne ha scritti due; e la Mammella Parlante lo elogiava come un Jack Kerouac dei nostri tempi.

Hanno letto perfino i suoi Aforismi, genere che io adoro e che collego a Pascal e Nietzsche, a Cioran e Gomez Davila, ma anche, se volete a Longanesi e Flaiano. Raccapricciante pensare che gli aforismi per milioni d’italiani siano invece associati al nome di Cassano. Al suo cospetto perfino Totti sembra Heidegger.

Mi sono vergognato di essere suo conterraneo e contemporaneo, e non perché uno così non abbia diritto a esistere o a essere elogiato per le sue doti calcistiche; ma perché mi pare aberrante l’uso pubblico che se ne fa della sua immagine e del suo pensiero, il cui danno civile vale cento dichiarazioni di Morgan in favore della cocaina. Separate almeno i fatui dalle opinioni.

A questo punto ho rimpianto di non vedere a Sanremo anche Tartaglia e la D’Addario, o Fabrizio Corona e Marrazzo, più cori di corrotti, trans e mignotte. Perché un programma che è la sintesi di Peggioritalia deve raccattare tutto quel che c’è di rappresentativo tra Zoccolandia e Ladroburgo.

Ho visto in cinque minuti il concentrato peggiore dell’Italia, le sue falsità e le sue volgarità, i meriti e le colpe capovolti, l’imbecillità al potere e la malafede al comando. Voi che pensate di affiancare all’Auditel un Qualitel per misurare l’indice di gradimento e di qualità dei programmi, pensate piuttosto di introdurre il Vomitel, per misurare il livello di schifo dei programmi.

E dire che venivo da una discussione accesa con mio figlio che diceva di detestare l’Italia e la sua rappresentazione in tv e di volersene andare; e io dicevo che tutto il mondo è paese, che il paradiso in terra non esiste e l’amor patrio invece sì e l’Italia ha lati anche buoni. Invece no, avevi ragione tu, Rudi.