mercoledì 10 febbraio 2010

Iran-Italia: il disastro diplomatico del governo Berlusconi

C'era da aspettarselo. A pochi giorni dalle farneticanti dichiarazioni di Berlusconi al Parlamento israeliano, ieri un centinaio di miliziani basiji ha manifestato di fronte all'ambasciata italiana a Teheran, gridando slogan come "Morte all'Italia, morte a Berlusconi", senza provocare però alcun danno a persone o cose.

L'Italia fino alla visita di Berlusconi in Israele poteva ancora giocare un ruolo importante di mediazione tra Iran e Occidente, viste le storiche ottime relazioni economiche e di cooperazione con la Repubblica islamica.
Ma domenica scorsa il ministero degli Esteri iraniano ha convocato l'ambasciatore Bradanini per trasmettergli una protesta ufficiale per le deliranti parole pronunciate da Berlusconi in Israele.

Quindi in poche ore l'Italia si è bruciata questo capitale di rispetto e amicizia, trasformatosi adesso in odio. Un vero e proprio geniale capolavoro diplomatico, utile solo a confermare la totale sudditanza del nostro Paese ai dettami d'Israele e degli USA.

Indicativa poi la delirante dichiarazione rilasciata ieri dal vice presidente della commissione Esteri della Camera, l'ebraica Fiamma Nirenstein (Pdl), subito dopo la manifestazione davanti all'ambasciata italiana: "L'attacco alla nostra ambasciata, che giunge dopo le parole del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a favore dei diritti dell'opposizione in Iran, è un evento che ci fa onore. D'altronde è un'azione che si confà ad un regime oppressivo e completamente antidemocratico come quello iraniano, la cui unica preoccupazione è reprimere il popolo, fabbricare la bomba atomica e perseguire il genocidio del popolo ebraico. Che la nostra ambasciata sia stata presa di mira è una medaglia che il nostro Paese può vantare sul fronte della difesa della libertà e della democrazia".
Frasi degne di una guerrafondaia doc.

Intanto Frattini sta provando a raccogliere i cocci, ''Ci auguriamo che ci sia ancora spazio per la diplomazia e per atti concreti, se questo non accadesse non ci sarebbero margini se non per un'azione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu''.

Ma ieri lo stesso Frattini s'era intromesso negli affari interni iraniani affermando di temere un'ondata di repressione per domani - giorno dell'anniversario della cacciata dello scià e della fondazione della Repubblica Islamica. "Ci auguriamo che cio' non accada. Staremo attenti a che si garantisca la liberta' di espressione. Non tollereremo mai scene di civili innocenti malmenati e picchiati", ha dichiarato quell'incosciente di Frattini che ha evidentemente rimosso dal suo piccolo cervello la mattanza di Genova del Luglio 2001.

Insomma il danno è ormai stato fatto e ci vorrebbe un'altra improvvisa virata di 360 gradi per riportare la politica estera italiota in Medio Oriente nel percorso compiuto negli ultimi 50 anni.

Un'impresa però impossibile con questo governo di ignoranti irresponsabili.


Ahmadinejad e Obama: due attori per un finale già scritto?
di Simone Santini - www.clarissa.it - 10 Febbraio 2010

Mentre le immagini di esercitazioni missilistiche in Iran, anche quando si tratta di test dell'industria aero-spaziale nazionale, riempiono gli schermi dei notiziari occidentali, ingenerando l'impressione di una incombente e oscura minaccia, ben poca eco ha invece avuto il dispiegamento voluto da Obama delle batterie di missili patriots nei paesi arabi del Golfo Persico.

Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi. Ognuno di questi paesi, secondo il generale Petraeus, riceverà due batterie di sistemi di missili anti-missile difensivi denominati patriots, mentre negoziati sono in corso con l'Oman. Il termine "difensivo" non deve trarre in inganno. Il sistema è concepito per rispondere ad eventuali rappresaglie iraniane in seguito ad un attacco che coinvolga la penisola arabica come corridoio aereo.

In questo modo Washington intende ottenere una serie di risultati: accrescere la pressione su Teheran; rassicurare i paesi arabi vicini senza l'intervento sul posto di truppe che potrebbero contrariare le opinioni pubbliche di quei paesi; calmare e dissuadere Israele da un attacco preventivo.

I paesi arabi del Golfo sono sempre più inquieti a fronte della tensione internazionale che cresce fra Iran e Occidente e per quella che viene avvertita come una intensificazione del paese persiano quale potenza regionale, con effetti destabilizzanti verso le proprie minoranze sciite interne.

Da più parti, ormai, ed in maniera sempre più esplicita, si ammette che la crisi sul nucleare possa sfociare in un aperto conflitto. Secondo il Washington Post il coordinamento militare tra gli Usa e questi paesi si sta rafforzando sempre più strettamente negli ultimi anni.

Con l'aiuto americano l'Arabia Saudita sta allestendo una armata che conta circa 30mila uomini. Gli Emirati Arabi Uniti, principale cliente bellico degli Usa, hanno speso nell'ultimo biennio 17 miliardi di dollari per sistemi di difesa elettronici ed aerei da combattimento (tra cui 80 F-16).

L'Iran ha dunque comunicato alla AIEA l'intenzione di procedere unilateralmente all'arricchimento del suo uranio dal 3,5% al 20% per usi civili (nella fattispecie per il settore medico radiologico). La notizia è giunta dopo giorni di passione.

Lo scorso 2 febbraio, il leader dell'opposizione Mir Hossein Mussavi aveva lanciato un durissimo attacco contro le istituzioni statali, arrivando a delegittimare dalle fondamenta il sistema della Repubblica islamica nato dalla rivoluzione e che "mostra le radici della tirannia e della dittatura [...] Non c'è dittatura peggiore di quella in nome della religione [...] La più evidente manifestazione di un atteggiamento tirannico sono i ripetuti abusi del parlamento e del potere giudiziario, in cui abbiamo completamente perso speranza [...]

Reprimere i media, riempire le prigioni e uccidere brutalmente persone che pacificamente chiedono il rispetto dei propri diritti dimostra che le radici della tirannia e della dittatura sono rimaste intatte dall'epoca della monarchia. Non credo che la rivoluzione abbia raggiunto i suoi obiettivi".

Le dichiarazioni di Mussavi anticipavano di poche ore una apertura di Ahamdinejad all'Occidente sulla possibilità di trasferire il nucleare all'estero: "Non c'è davvero alcun problema. Taluni si agitano per niente. Firmiamo un contratto. Diamo loro dell'uranio arricchito al 3,5% e nel termine di quattro, cinque mesi, ce lo restituiscono al 20%".

L'apertura era confermata dal ministro degli Esteri Manucher Mottaki che il 5 febbraio alla Conferenza internazionale di Monaco di Baviera sulla sicurezza dichiarava "vicino" un accordo "soddisfacente per tutte le parti [...] personalmente ritengo che si siano create le basi per procedere a uno scambio in un futuro non troppo lontano".

Ma le aperture venivano immediatamente gelate dal segretario alla Difesa americano Robert Gates: "Non ho l'impressione di vedere che siamo più vicini ad un accordo, l'Iran non ha fatto nulla per rassicurare la comunità internazionale della sua volontà di rispettare il Trattato di non proliferazione o metter fine ai progressi verso un'arma nucleare".

Per la prima volta, in modo pubblico ed esplicito, Robert Gates si schiera frontalmente contro l'Iran. È questo un passaggio determinante, provenendo da un esponente della Amministrazione americana a capo (almeno nel ruolo pubblico) della componente realista che aveva auspicato il dialogo con Teheran.

Ciò significa che il cambiamento di strategia, le decisioni prese dietro le quinte nei mesi scorsi possono ora essere dichiarate apertamente. Una sorta di chiarificazione e accelerazione, i ponti sono stati rotti e il governo americano si muove con compatta unità di intenti.

Non a caso il sito della televisione iraniana Press-Tv ha anche divulgato la notizia che il capo della CIA Leon Panetta (altro esponente ascrivibile alla "fazione" di Robert Gates) si è segretamente recato alla fine di gennaio in Israele per incontrare il primo ministro Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barack, e il capo del Mossad Meir Dagan.

Motivo del meeting (inizialmente previsto per il mese di maggio) la crescente possibilità di una guerra nella regione. Obiettivi indicati: Iran, Libano, Siria, Hamas nei Territori occupati (1).

Si è arrivati infine al 7 febbraio, quando Ahmadinejad nel corso di un discorso televisivo, ha annunciato: "Avevo detto (alle grandi potenze) che concedevamo dai due a tre mesi (per concludere un accordo sullo scambio di uranio) e che se non fossero stati d'accordo avremmo cominciato da soli. Adesso, dottor Salehi (capo dell'agenzia atomica iraniana), avviate la produzione di uranio al 20 per cento con le nostre centrifughe".

Il proposito iraniano di procedere autonomamente, è giusto ricordarlo, non è una provocazione o una sfida come hanno titolato la quasi totalità dei media occidentali, ma, dal punto di vista giuridico internazionale, l'attuazione di uno specifico diritto.

L'Iran, infatti, quale sottoscrittore del Trattato di Non Proliferazione ha la possibilità di arricchire uranio, sotto controllo AIEA, come sta regolarmente accadendo, per scopi civili.

Altro discorso riguarda l'opportunità politica. La risposta occidentale è stata aspra con l'annuncio di sanzioni dure, paralizzanti. "Se la comunità internazionale resta unita, siamo ancora in tempo perché le pressioni sull'Iran e le sanzioni abbiano l'effetto desiderato, ma dobbiamo lavorare insieme. La comunità internazionale ha offerto molteplici possibilità all'Iran di rassicurare sulle sue intenzioni riguardo al programma nucleare. Ma i risultati sono stati molto deludenti" ha dichiarato ancora Robert Gates.

E l'ammiraglio italiano Giampaolo Di Paola, presidente del Comitato militare della Nato, in una intervista a La Repubblica, ha illustrato il clima cupo che si respira nelle cancellerie occidentali verso l'Iran ("su Teheran buio pesto"), e quanto le aperture iraniane come quella di Mottaki fossero state percepite come l'ennesimo tentativo di guadagnare tempo, "una presa in giro", la mancata comprensione della "gravità del momento" (2).

E tuttavia, una lettura più attenta dei fatti può portare a considerazioni molto più ragionevoli ed obiettive. Ahmadinejad e l'Agenzia atomica iraniana hanno specificato che in caso di accordo l'arricchimento dell'uranio può essere sospeso in qualunque momento. Questo elemento e le aperture precedenti dimostrano quanto il governo iraniano stia disperatamente cercando una via d'uscita e tentando di ottenere una sponda favorevole dall'esterno.

Ahmadinejad si trova di fatto assediato all'interno del paese. Da un lato l'onda verde che, con le parole di Mussavi, minaccia il cuore stesso del regime; dall'altra parte l' "opposizione" conservatrice, pronta a cogliere ogni passo falso del presidente per intaccarne il suo blocco di potere (Alì Larijani è tornato a ripetere che l'offerta occidentale sull'uranio è solo un "imbroglio").

Il governo, dunque, deve mostrasi tanto forte all'interno quanto pronto ad accettare una offerta onorevole all'esterno, a cui aggrapparsi, che gli consenta di salvare l'intero quadro. Dimostrare debolezza potrebbe portare allo sfaldamento del sistema; troppa durezza sfociare in un conflitto drammatico.

Diplomaticamente gli occidentali si trovano, ora, nella migliore condizione possibile per concludere un accordo vantaggioso. Se la mano tesa ("open hand") di Obama fosse stata sincera, è in questo frangente che essa avrebbe dovuto mostrarsi.

Invece, dopo un periodo di silenzio sul tema, oggi (9 febbraio) arriva da Obama il segnale definitivo di chiusura, la porta sbarrata. "L'Iran si è posto sulla strada per ottenere la bomba. Questo è inaccettabile. [Stati Uniti e alleati svilupperanno] un significativo regime di sanzioni". Il partito della guerra voleva arrivare, a questo stadio del processo, in questo preciso punto.

Un ruolo di mediazione poteva essere svolto efficacemente dall'Italia. Per la sua storia, per i legami economici con Teheran, per la credibilità del governo Berlusconi presso il mondo islamico, visti i buoni rapporti con Gheddafi e le ultime affermazioni sui crimini del colonialismo italiano in Africa che ottima impressione avevano destato dall'altra parte del Mediterraneo.

Questo credito è stato completamente bruciato con la recente visita del premier in Israele ed il discorso pronunciato alla Knesset.

Il riposizionamento della politica estera italiana totalmente a favore di Israele, le accuse rivolte all'Iran e la giustificazione dell'operazione "Piombo Fuso" a Gaza, hanno avuto l'effetto diplomatico, questo sì, di una bomba nucleare sui rapporti bilaterali con Teheran.

Anche analisti prudenti come Lucio Caracciolo hanno avvertito la problematicità dello strappo: "Gli attacchi senza precedenti di Silvio Berlusconi al regime iraniano rappresentano probabilmente anche il frutto dei suoi recenti incontri con i dirigenti israeliani. [...] Nel nostro rapporto con Gerusalemme verremo valutati soprattutto per quello che vorremo e sapremo fare contro Teheran. In particolare, bisognerà vedere fino a che punto saremo disposti a sacrificare i nostri tradizionali, corposi vincoli economici e commerciali con l'Iran.

[...]In ogni caso, i prossimi mesi saranno decisivi. Se le sanzioni non ci saranno o saranno inefficaci, è possibile che non solo in Israele, ma anche negli Stati Uniti torni a farsi sentire il partito del bombardamento, come unica alternativa alla bomba atomica iraniana. In quel contesto, evidentemente, noi italiani avremmo poco da dire. Ma certamente saremmo tra i primi a subire direttamente e indirettamente le conseguenze di una guerra. I nostri uomini in Libano e Afghanistan sono, di fatto, sotto un ambiguo ombrello di protezione iraniano. È ovvio che, in caso di conflitto, questa protezione cadrà. I nostri contingenti sarebbero probabilmente oggetto delle prime rappresaglie iraniane. Ma non è detto che queste considerazioni siano state presenti a Berlusconi nel momento in cui si lanciava nell'offensiva verbale contro Teheran" (3).

Il tentativo odierno dell'assalto all'ambasciata italiana in Iran mostra quanto delicato sia il momento. Da possibili pompieri ci troviamo nel mezzo del fuoco che abbiamo contribuito ad accendere. Ma i tafferugli che sono avvenuti devono preoccupare anche in altro senso.

Quello che Caracciolo chiama "il partito del bombardamento" necessita di un ulteriore scatto nell'escalation della crisi. In vista dell'11 febbraio, anniversario della vittoria della rivoluzione islamica, è previsto un picco di tensione negli scontri di piazza.

Le azioni verso le ambasciate occidentali denunciano l'esistenza di gruppi di ultrà (ispirati chissà da chi) che si stanno predisponendo allo scontro, col rischio di autentici scontri civili fra opposte fazioni.

Uno scenario che potrebbe facilmente degenerare e sfociare nell'imposizione della legge marziale, arresti indiscriminati (se non peggio) tra la popolazione e tra i leaders del movimento di protesta. Insomma, una sorta di colpo di stato militarista non più strisciante ma palese.

A quel punto l'allarme verso un paese non più sotto controllo (e determinato ad avere la bomba) equivarrebbe ad uno stato di urgenza e necessità che può giustificare qualunque intervento dall'esterno.


Note:

(1) Secret CIA-Mossad meeting, preparation for new war? Press-Tv

(2) "L'Iran nucleare minaccia del secolo". L'allarme dell'ammiraglio Di Paola. La Repubblica, 7 febbraio 2010.

(3) "Se Berlusconi lancia l'offensiva anti Iran", Lucio Caracciolo.


L'incubo iraniano
di Bernardo Valli - La Repubblica - 10 Febbraio 2010

L'Iran è diventato un incubo. Roba da psicanalisti. La competenza di politici, diplomatici e militari non basta più. Ci vuol altro per dissipare il senso di affanno, di apprensione che la Repubblica islamica provoca nelle cancellerie e negli stati maggiore di superpotenze, potenze ordinarie e mezze potenze, occidentali o orientali.

Insomma, in più di mezzo mondo: da Washington, passando per l'Europa, l'Arabia Saudita, gli Emirati arabi e sunniti, e Israele. Tutti gli occhi sono puntati sull'Iran.

E tutte le "medicine" possibili, finora studiate, dal dialogo alle sanzioni, molli o severe, alle incursioni aeree preventive, dopo accurate simulazioni appaiono inefficaci o non appropriate. L'Iran è un rompicapo. L'incubo resta là. Inamovibile. Gli psicanalisti potrebbero aiutarci anche a distinguere, nel groviglio dei nostri affanni iraniani, i fantasmi dalla realtà.

Neppure il senso della cronaca quotidiana è subito afferrabile. Non è sufficiente una prima ed unica lettura dei fatti. Ieri ci sono state manifestazioni davanti a tre ambasciate europee, quelle d'Italia, di Francia e di Germania. Alcune decine di miliziani chiaramente mobilitati per l'occasione hanno scandito qualche slogan e sono poi stati mandati a casa dalla polizia.

Una messa in scena da teatro di provincia. Davanti alla nostra ambasciata le comparse hanno gridato "morte all'Italia" e "morte a Berlusconi", e hanno lanciato una pietra. Il significato non era trascurabile. La prima lettura va subito scartata. Sarebbe ingenuo pensare a reazioni nazionaliste spontanee.

Le manifestazioni avrebbero avuto ben altre dimensioni, sarebbero state più vistose, se si fosse trattato di una risposta alle severe posizioni assunte di recente da Italia, Francia e Germania, in merito alle sanzioni allo studio al fine di indurre il regime iraniano ad accettare la disciplina nucleare. Quelle manifestazioni erano ad uso interno.

Tutto quel che accade a Teheran è, in questo momento, a uso interno. Da una settimana Mahmud Ahmadinejad compie contorsioni che sarebbero indecifrabili, incomprensibili se non fossero destinate a contenere, a disperdere, a imbavagliare l'opposizione alla vigilia del trentesimo anniversario dell'insediamento al potere dell'ayatollah Khomeini.

L'appuntamento è importante. Potrebbe rivelarsi decisivo. Il suo svolgimento svelerà la stabilità del regime più di sei mesi dopo le truffate elezioni di giugno.

Domani, 11 febbraio, l'opposizione intende infiltrarsi, irrompere nella grande celebrazione in programma.

Equivarrà a un suo ultimo assalto. Se dovesse fallire sarebbe abbandonata alla repressione. Dimostrando la sua forza, rianimerebbe gli scontri interni, tra chi difende la Repubblica islamica, vale a dire lo strapotere dei religiosi, e chi, senza venir meno ai principi islamici, vuole una vera Repubblica, con i religiosi non direttamente al potere, secondo la tradizione sciita interrotta da Khomeini. La posta in gioco è grossa.

Denunciando le nazioni europee con quella manciata di miliziani travestiti da manifestanti, accusandole di osteggiare la marcia iraniana verso il nucleare, la guida suprema Khamenei e il suo sottoposto Ahmadinejad hanno sottolineato la tesi del complotto internazionale. Un complotto per loro appoggiato dall'opposizione.

Khamenei e Ahmadinejad usano il problema nucleare contro gli avversari, additati come traditori della patria, poiché negano insieme agli stranieri il diritto a quell'energia, diventata il simbolo dell'indipendenza nazionale.
Nulla di più falso, ma è cosi.

La settimana di Ahmadinejad è stata dominata da un clamoroso voltafaccia. Soltanto in apparenza incomprensibile.

Martedì si è detto favorevole a un arricchimento dell'uranio in Russia e poi in Francia, accettando un livello che esclude l'uso militare. Venerdì il suo ministro degli esteri ha annunciato l'accordo come imminente. Domenica Ahmadinejad ha cambiato idea: ha ordinato al suo direttore dell'agenzia atomica di arricchire lui stesso, in patria, l'uranio al 20%, per uso farmaceutico. Così è sfumato il compromesso che sembrava raggiunto in ottobre.

Ed è inutile cercare una logica, anche sul piano tecnico, alla decisione di Ahmadinejad. Pur controllando il processo di arricchimento dell'uranio egli potrà difficilmente portarlo al livello indispensabile per dotarsi di una bomba, se mai ne avesse l'intenzione, in uno spazio di tempo ragionevole, e senza un duro intervento esterno.

C'è una sola spiegazione immediata: inasprendo la polemica sul piano internazionale, è più facile accusare l'opposizione di collusione con le potenze straniere, e quindi screditarle e disperderle con una pesante e decisiva repressione.

Quest'ultima si è già abbattuta con maggior severità sugli amici di Mir Hossein Moussavi e di Mehdi Karubi, i due sfortunati candidati alla presidenza.

Moussavi ha invitato lo stesso i suoi seguaci a unirsi alla manifestazione ufficiale per contestare il regime. E l'ex presidente Mohammad Khatami ha riassunto l'obiettivo dell'opposizione: "Se Dio vuole, tutti parteciperanno al corteo, per difendere la rivoluzione e i diritti dell'uomo".

Diverso il tono dell'ayatollah Khamenei. La Guida suprema ha detto che "la nazione iraniana dimostrerà, con la sua unità, come riempire di pugni in faccia tutti gli arroganti del mondo". Dall'America ai sionisti.

Tante sono le scuole di pensiero che si incrociano nel proporre soluzioni all'incubo iraniano. La più diretta è quella israeliana: sanzioni severe e immediate, e in prospettiva azioni militari preventive, in caso di recidiva, se Teheran fosse sul punto di realizzare l'arma nucleare. Quella americana appare incerta, si limita alle sanzioni, pur sapendo che esse danno scarsi frutti, e che possono essere il preludio a un conflitto.

Quel che accadrà nelle prossime ore a Teheran avrà un'influenza su queste due scuole. Ed anche sulla terza, incline a pensare che gli interventi esterni non possono che radicalizzare la situazione iraniana. E accelerare persino la scelta (forse, finora in sospeso) di un nucleare a scopi militari.


Iran, un appello che alimenta il fuoco della guerra
di Domenico Losurdo e Gianni Vattimo - www.ilmanifesto.it - 9 Febbraio 2010

Il manifesto di sabato 6 febbraio ha pubblicato un Appello «Per la libertà di espressione e la fine della violenza in Iran» .

A firmarlo, assieme a intellettuali inclini a legittimare o a giustificare tutte le guerre e gli atti di guerra (blocchi e embarghi) scatenate e messi in atto dagli Usa e da Israele, ce ne sono altri che in più occasioni, invece, hanno partecipato attivamente alla lotta per la pace e per la fine dell'interminabile martirio imposto al popolo palestinese.

Purtroppo a dare il tono all'Appello sono i primi:

1) Sin dall'inizio si parla di «risultati falsificati dell'elezione presidenziale del 12 giugno 2009» e di «frode elettorale». A mettere in dubbio o a ridicolizzare questa accusa è stato fra gli altri il presidente brasiliano Lula. Perché mai dovremmo prestar fede a coloro che regolarmente, alla vigilia di ogni aggressione militare, fanno ricorso a falsificazioni e manipolazioni di ogni genere? Chi non ricorda le «prove» esibite da Colin Powell e Tony Blair sulle armi di distruzione di massa (chimiche e nucleari) possedute da Saddam Hussein?

2) L'Appello prosegue contrapponendo la violenza del regime iraniano alla «non-violenza» degli oppositori. In realtà vittime si annoverano anche tra le forze di polizia. Ma è soprattutto grave un'altra rimozione: da molti anni l'Iran è il bersaglio di attentati terroristici compiuti sia da certi movimenti di opposizione sia dai servizi segreti statunitensi e israeliani.

Per quanto riguarda questi ultimi attentati, ecco cosa scriveva G. Olimpio sul Corriere della Sera già nel 2003 (7 ottobre): «In perfetta identità di vedute con Washington», i servizi segreti israeliani hanno il compito di «eliminare», assieme ai «capi dei gruppi palestinesi ovunque si trovino», anche gli «scienziati iraniani impegnati nel progetto per la Bomba» e persino coloro che in altri Paesi sono «sospettati di collaborare con l'Iran».

3) L'Appello si sofferma con forza sulla brutalità della repressione in atto in Iran, ma non dice nulla sul fatto che questo paese è sotto la minaccia non solo di aggressione militare, ma di un'aggressione militare che è pronta ad assumere le forme più barbare: sul Corriere della Sera del 20 luglio 2008 un illustre storico israeliano (B. Morris) evocava tranquillamente la prospettiva di «un'azione nucleare preventiva da parte di Israele» contro l'Iran.

In quale mondo vivono i firmatari dell'Appello: possibile che non abbiano letto negli stessi classici della tradizione liberale (Madison, Hamilton ecc.) che la guerra e la minaccia di guerra costituiscono il più grave ostacolo alla libertà?

Mentre non è stupefacente che a firmare (o a promuovere) l'Appello siano gli ideologi delle guerre scatenate da Washington e Tel Aviv, farebbero bene a riflettere i firmatari di diverso orientamento: l'etica della responsabilità impone a tutti di non contribuire ad alimentare il fuoco di una guerra che minaccia il popolo iraniano nel suo complesso e che, nelle intenzioni di certi suoi promotori, non deve esitare all'occorrenza a far ricorso all'arma nucleare.