martedì 9 febbraio 2010

In Iran l'uranio si arricchisce...

L'Iran ha annunciato oggi di aver avviato la produzione di uranio arricchito al 20% nell'impianto di Natanz. La notizia, resa nota dalla tv di Stato, è stata confermata da Ali Akbar Salehi, capo dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica. L'avvio del programma era già stato notificato formalmente ieri all'Aiea (l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica).

L'Aiea ha dal suo canto confermato che un gruppo di suoi ispettori è già presente nell'impianto di Natanz. Secondo Salehi, ogni mese, saranno prodotti tra i tre e i cinque chili di uranio arricchito al 20%.

Le reazioni all'annuncio sono già scattate. Il segretario di Stato Usa, Robert Gates, ha ovviamente chiesto che le sanzioni Onu contro l’Iran siano imposte "entro qualche settimana, non mesi", spiegando che "è giunto il momento di concretizzare" le minacce di nuove sanzioni e avanzare delle proposte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Gates è appena ritornato negli Stati Uniti dopo un tour in Europa e ora Washington, che può contare sul totale appoggio della Francia, ha aumentato il suo pressing sugli alleati occidentali affinché si possa procedere "tutti uniti" verso un incremento delle pressioni contro Teheran.

Una nuova proposta di sanzioni potrebbe essere presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu entro la fine di febbraio, durante la presidenza di turno della Francia che è favorevole a posizione più rigide nei confronti di Teheran.

Ma a frenare le iniziative degli occidentali è la Cina, tradizionalmente contraria a nuove sanzioni contro l’Iran. Infatti oggi il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Ma Zhaoxu, ha spiegato durante una conferenza stampa che il suo Paese "auspica che le parti in causa aumentino gli sforzi e spingano per un progresso in direzione del dialogo e dei negoziati" con l’Iran per il suo programma nucleare.

La decisione di dare il via all'arricchimento dell'uranio è stata comunque presa dall'Iran a causa del blocco dei negoziati con il Gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania) sulla fornitura alla repubblica islamica del combustibile arricchito al 20% di cui avrebbe bisogno per un reattore di ricerca medica a Teheran.

I dirigenti iraniani tuttavia hanno affermato che "la porta rimane aperta" per uno scambio di uranio con le grandi potenze occidentali.

L'Iran nell'ottobre scorso aveva giustamente rifiutato un accordo proposto da Usa, Russia e Francia in base al quale Teheran avrebbe ottenuto dall'estero l'uranio arricchito al 20% in cambio della consegna del 70% delle sue scorte di uranio arricchito al 3,5%.

Va inoltre ricordato che l'Iran ha già aperto due linee per la produzione di droni, gli aerei senza pilota che gli Usa utilizzano per bombardare il Pakistan.

Qui di seguito una serie di articoli sulle relazioni Iran-Occidente, tra cui uno firmato dal teorico neocon Daniel Pipes che "invita" Obama a bombardare l'Iran al più presto. Ma più che una richiesta sembra quasi un ordine...


Caro presidente Obama, è il momento di attaccare

di Daniel Pipes - http://it.danielpipes.org - 5 Febbraio 2010

Abitualmente non offro consigli a un presidente alla cui elezione ero contrario, che persegue degli obiettivi che temo e delle linee politiche che non condivido. Ma qui ho un'idea affinché Barack Obama salvi la sua traballante amministrazione, facendo un passo a tutela degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Se la personalità, l'identità e la celebrità di Obama incantarono nel 2008 la maggioranza dell'elettorato americano, nel 2009 queste stesse qualità si sono dimostrate inadeguate per governare.

Obama non è riuscito a mantenere l'impegno per quanto riguarda il problema dell'occupazione e la riforma sanitaria, ha fallito nei tentativi di politica estera tanto piccoli (per esempio assicurarsi le Olimpiadi del 2016) quanto di vasta portata (rapporti con Cina e Giappone). L'operato del controterrorismo a malapena supera il test della risata.

Questa esigua performance ha provocato un crollo senza precedenti nei sondaggi e la sconfitta in tre importanti elezioni suppletive, culminando due settimane fa in una sorprendente sconfitta senatoriale in Massachusetts.

I tentativi di Obama di "resettare" la sua presidenza probabilmente falliranno se egli si concentrerà sull'economia, dove lui è solo uno degli innumerevoli attori.

Obama ha bisogno di un gesto plateale per cambiare l'immagine che l'opinione pubblica ha di lui come campione dei pesi leggeri, raffazzonando ideologi, preferibilmente in un'arena dove la posta è molto alta e dove lui può battere le aspettative. Una simile opportunità esiste: Obama può dare ordini all'esercito di distruggere la capacità di produzione delle armi nucleari di Teheran. Le circostanze sono propizie.

Innanzitutto le agenzie di intelligence Usa hanno ribaltato i contenuti dell'assurdo National Intelligence Estimate (NIE) del 2007, quel rapporto che asseriva con «un ampio margine di probabilità» che Teheran aveva «sospeso il suo programma di armamento nucleare». Nessuno (a parte i governanti iraniani e i loro agenti) nega che il regime si sia buttato a capofitto nella costruzione di un ampio arsenale nucleare.

In secondo luogo, se i leader di Teheran dalla mentalità apocalittica avessero la Bomba, essi renderebbero il Medio Oriente ancor più instabile e pericoloso.

Potrebbero utilizzare le loro armi nella regione, portando a eccidi e distruzione. E alla fine, potrebbero lanciare un attacco a impulsi elettromagnetici contro gli Stati Uniti, devastando completamente il Paese. Eliminando la minaccia iraniana, Obama protegge la patria e invia un messaggio agli amici e ai nemici degli americani.

In terzo luogo, i sondaggi d'opinione mostrano un sostegno americano di lunga data per un attacco nucleare iraniano. Secondo il Los Angeles Times/Bloomberg del gennaio 2006, il 57 per cento degli americani è a favore di un intervento militare qualora Teheran perseguisse un programma in grado di permetterle la costruzione di armi nucleari.

Secondo Zogby International dell'ottobre 2007, il 52 per cento dei potenziali elettori appoggia un attacco militare Usa per impedire all'Iran di costruire delle armi nucleari; il 29 per cento si oppone a una simile misura.

Nel maggio 2009 viene chiesto agli intervistati da McLaughlin & Associates se siano d'accordo con «l'impiego dell'esercito [Usa] per attaccare e distruggere gli impianti in Iran che sono necessari per produrre un'arma nucleare», il 58 per cento di 600 potenziali elettori si dice a favore dell'uso della forza e il 30 per cento si dichiara contrario.

Da Fox News, nel settembre 2009, viene chiesto «Sei favorevole o contrario all'impiego da parte degli Stati Uniti di un'azione militare che impedisca all'Iran di avere delle armi nucleari?» Il 61 per cento dei 900 iscritti alle liste elettorali si dice favorevole all'azione militare e il 28 per cento si dichiara contrario.

Il Pew Research Center chiede nell'ottobre 2009 se è più importante «impedire all'Iran lo sviluppo di armi nucleari, pur implicando ciò l'impiego di un'azione militare» oppure «evitare un conflitto militare con l'Iran, pur implicando ciò il possibile sviluppo di armi nucleari». Il 61 per cento degli intervistati si dichiara favorevole della prima opzione e il 24 per cento mostra una preferenza per la seconda.

Non solo una forte maggioranza – il 57, il 52, il 58, il 61 e ancora il 61 per cento – è già favorevole all'uso della forza, ma dopo un attacco gli americani si stringeranno presumibilmente intorno alla bandiera, facendo salire rapidamente queste percentuali.

In quarto luogo, se l'attacco americano si limitasse a distruggere gli impianti nucleari iraniani e non ad ambire a un cambio di regime, ciò richiederebbe pochi "scarponi sul terreno" e implicherebbe delle perdite piuttosto esigue, rendendo un attacco politicamente più appetibile.

Proprio come l'11 settembre ha indotto gli elettori a dimenticare i primi mesi di distrazione della presidenza di George W. Bush, un attacco contro gli impianti iraniani manderebbe l'inefficiente primo anno del mandato di Obama giù nel dimenticatoio e trasformerebbe la scena politica interna.

Inoltre, un attacco accantonerebbe la riforma sanitaria, indurrebbe i repubblicani a lavorare con i democratici, farebbe protestare i netroots, provocherebbe un ripensamento negli indipendenti e farebbe andare in brodo di giuggiole i conservatori. Ma l'opportunità di fare benissimo è fugace.

E dal momento che gli iraniani rafforzano le loro difese e parlano di armamenti, la finestra dell'opportunità è chiusa. Il momento di agire è adesso oppure il mondo diventerà presto un luogo molto più pericoloso.


Perché è un errore isolare l'Iran
di Gianni Petrosillo - http://www.conflittiestrategie.splinder.com - 8 Febbraio 2010

Per comprendere l'importanza che gli americani assegnano all'area dei cosiddetti “Balcani Globali”, quella che va dallo stretto di Suez allo Xinijang, nella guerra geopolitica per la dominazione mondiale, occorre riprendere le riflessioni di Brezinski tratte dal suo libro del 2007 “l'Ultima chance”.

Secondo il politologo statunitense è qui che si gioca la partita più importante della
presente fase multipolare ed è in questa parte di Mondo che le potenze costruiranno quel vantaggio geostrategico indispensabile a proiettarle verso un futuro di predominanza globale.

Ma per poter “agganciare” l'Epoca e tracciare una prospettiva storico-geografica confacente alla loro idea di “umanità” stabilizzata (che non vuol certo dire pacificata, quanto piuttosto “orientabile” verso determinate direttrici di sviluppo politico e sociale) le superpotenze, con vocazione suprematistica, devono essere in grado di incastrare i singoli pezzi del mosaico geopolitico per farli aderire al loro disegno egemonico volto alla predominanza.

Per fare ciò occorre, in primo luogo, avere il controllo degli Stati Pivot dell'area in questione,
impedendo, al contempo, che questi assurgano al ruolo di potenze regionali autonome. In tal senso, diviene prioritario l'obiettivo di ostacolare l'ascesa di quelle leadership nazionalistiche autoctone che coltivano valori distanti da quelli occidentali e con le quali l'arma del condizionamento culturale è quasi del tutto spuntata.

Quali sono gli Stati in grado, nel medio e lungo periodo, di approfondire le loro caratteristiche di paesi-guida su questa “placca” geografica in ribollimento?

Iran e Turchia, per quanto riguarda le popolazioni musulmane, la Russia e la Cina sulle ex-
Repubbliche sovietiche di Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan ecc. ecc.. Queste
ultime risentono, al contempo, sia dei richiami politico-economici dei potenti vicini asiatici ed euroasiatici ma risultano altresì sensibili ai legami religiosi con le potenze che adottano un rivestimento confessionale dei propri assetti statali.

In sostanza, nei piani statunitensi occorrerà muoversi utilizzando due approcci dirimenti ed ugualmente confacenti ad uno stesso obiettivo egemonico: con le azioni dirette e vigorose sulle potenze che avanzano velleità di “copertura” egemonica regionale (vedi l'Iran e, probabilmente, un giorno anche la Turchia se essa persevererà nella sua “deriva” antioccidentale) oppure, indirettamente, servendosi delle manovre destabilizzanti nei vari “ventri molli” presenti nello spazio geografico asiatico e mediorientale (vedi l'Afghanistan, l'Iraq e la caterva di province ribelli a partire dallo Xinijang, ecc. ecc.), per interrompere le traiettorie di “allungamento” geopolitico di Stati il cui ordine non è alterabile, per il momento, con iniziative “militari” prorompenti (Russia e Cina).

Ovviamente, lo sbilanciamento dei rapporti di forza in un senso più o meno favorevole agli Usa o ai suoi competitors geopolitici dipenderà anche dal ruolo che intenderanno giocare gli altri giganti di questo versante del globo come l'India (attualmente più in sintonia con gli Usa dopo le concessioni sul nucleare) ed il Pakistan (dove la presenza americana è molto forte ma molti forti sono anche i collegamenti con la Cina).

Per aiutarci visivamente ad inquadrare la scacchiera laddove si disputano attualmente le sorti della diatriba geopolitica mondiale riportiamo la stessa cartina presente nel testo di Brzezinski: Nella didascalia associata alla figura Brzezinski riporta queste informazioni: “I Balcani Globali.

Estesi dal canale di Suez in Egitto alla regione dello Xinijiang in Cina, da Nord del Kazakistan al Mare arabico, i Balcani Globali sono oggi lo specchio dei Balcani tradizionali del XIX e XX secolo, nel senso di instabilità politica e dell'importanza geopolitica che causano rivalità all'estero.

I Balcani contemporanei, racchiusi nel cerchio qui sopra, sono abitati all'incirca da 500 mln di persone, sono afflitti da instabilità interna derivata da tensioni etniche e religiose, povertà e governi autoritari.

I conflitti etnici in quest'area coinvolgono 5,5 mln di ebrei israeliani e 5 mln di arabi palestinesi; 25 mln di kurdi, sul territorio suddiviso tra Turchia, Iraq, e Siria; e l'India e il Pakistan nella disputa per il Kashmir, oltre a numerosi potenziali conflitti in Iran e Pakistan”.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare che quest'area è strategica anche dal punto di vista economico perché è ivi concentrata la gran parte delle risorse mondiali di petrolio e gas; va da sé quindi che chi controllerà gli approvvigionamenti, le prospezioni e i commerci avrà l'opportunità di convogliare, con sempre maggiore capacità penetrativa, la propria visione politica ed economica del mondo, imponendo agli altri il proprio modello di crescita e di sviluppo.

Tanto è vera siffatta affermazione che lo stesso Brzezinski attribuisce a Clinton una delle intuizioni più grandi dell’epoca, quella di aver favorito la costruzione dell'oleodotto, sponsorizzato dagli Usa, da Baku a Ceyhan, al fine bypassare la Russia e togliere ad essa il monopolio del transito di gas verso l'Occidente.

Ma l'aspetto più interessante dell'Analisi di Brezinski ci riporta agli sforzi profusi dagli Usa per convincere gli altri partner occidentali ad avanzare celermente sulle sanzioni all'Iran come risposta alle sue iniziative nucleari.

Stabilito che questa ossessione della bomba musulmana è solo un diversivo per mobilitare la pubblica opinione su un pericolo più “concreto” e tangibile - rispetto al quale occorre opzionare un intervento militare sempre più imminente (ma, come ammette lo stesso Brezinski, un altro stato mediorientale, Israele, dispone di un arsenale nucleare segreto sul quale la comunità globale non ha mai fatto troppe domande e, di più, la bomba musulmana esiste già in mano al Pakistan) - la necessità di colpire l'Iran è tutta geopolitica.

Tuttavia, non si può procedere unilateralmente mettendo gli alleati di fronte al fatto compiuto, come accaduto in Iraq, né tanto meno si può rinnovare l'errore di ammantare le imminenti “missioni civilizzatrici” utilizzando un involucro ideologico manicheo di tipo bushista, esteso a iosa ai vari contesti territoriali sotto la presidenza del “rampollo” texano (es. il famigerato “asse del male”).

Brezinski sostiene che i Balcani Globali sono per gli Usa quello che per Israele è il medio-oriente, con tutto ciò che questo comporta in termini di difficoltà geostrategiche.

Alla superpotenza occidentale mancano attualmente i mezzi per agire unidirezionalmente proprio perché i suoi interessi, così come sono stati posti dalle precedenti amministrazioni neocon, non inglobano le visioni altrui. Quindi, in prima istanza, c'è bisogno di ridefinire la partnership globale sulla base di valori universali condivisi che conducano gli alleati a fare realmente proprie, indentificandosi con esse, le preoccupazioni americane.

Un tal genere di compito riesce meglio ad un Presidente democratico, il quale, come ribadisce Brezinski, può con il suo idealismo, l'eloquenza e la giovane età incarnare un'America benevola la cui leadership viene amata dalle folle di tutto il pianeta, ma che, non di meno, nasconde un potere ed una volontà di primeggiare assoluti (la descrizione era riservata a Clinton, eppure, come vedete, calza a pennello anche per Obama).
A partire da ciò dobbiamo aprire un altro capitolo di questo intervento soffermandoci per un attimo sulla piccola svolta attuata da Berlusconi in Israele.

Questa inversione di rotta verbale sta già producendo delle conseguenze pratiche che non si può fingere di non vedere. Non è la prima volta che esponenti del governo italiano stigmatizzano l'Iran per il suo odio contro Israele o per la sua ricerca, non autorizzata e visionata da organismi “super partes”, in campo nucleare. Ma è la prima volta che alle parole seguono i fatti.

Poiché uno degli strumenti con i quali il nostro paese conduce la sua politica estera è l'Eni, impresa di punta del settore energetico (quello più strategico e redditizio in questa congiuntura storica), proprio ad essa è stato chiesto di limitare i suoi affari con la Repubblica Islamica e di rinunciare ad ulteriori contratti.

L'AD del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha ricordato che già a partire dal 2001 (anno in cui si raggiunsero i 5 mld di investimenti) la sua azienda non conclude nuovi accordi, anche se, in questi ultimi tempi, il flusso commerciale con l'Iran si era comunque esteso sino a 6 mld di euro. Cifra precipitata di un 40% pieno nel 2009. Di questo passo e in questo clima bellicoso non è detto che non aumenteranno le pressioni internazionali (cioè americane) per spingere Roma a disattendere anche i contratti in essere.

Questa notizia è talmente verosimile che, a quanto pare, Berlusconi sta per consegnare una lettera a Scaroni contenente i freschi diktat italiani sulle ultime diatribe con l'Iran, grazie alla quale il capo di Eni potrà giustificare, dinanzi alle autorità iraniane ed ai suoi azionisti, il progressivo disimpegno economico dal Paese degli Ayatollah. Tutto questo è di una gravità inaudita perché toccare l'Eni e contenerne i movimenti internazionali significa legare le mani all'intera politica estera del Bel Paese.

A quanto detto va aggiunta l'offensiva interna, con gli organismi comunitari in prima fila, tesa ad ingabbiare le iniziative dell'Eni sul mercato europeo, rimettendo in questione i suoi rapporti privilegiati con Gazprom. Anche nel Vecchio Continente il “colpo” per la nostra azienda energetica è stato
durissimo, sia sotto il profilo simbolico che sotto quello economico.

L'Ente nazionale idrocarburi, il cui azionista di maggioranza resta il Tesoro con il 30% delle azioni, è stata costretta dall'Antitrust europea a mettere sul mercato i cosiddetti tubi di Mattei, quelli che il compianto Presidente marchigiano considerava fondamentali per la proiezione strategica dell'Italia sui mercati esteri.

Pur se il gasdotto Tag (Russia) resterà in capo alla CDP - soluzione frutto di una mediazione faticosa tra Italia ed Ue - da questo momento in poi gli appetiti politici sullo stesso saranno di certo più copiosi.
Praticamente perse sono invece le due pipelines Tenp e Transitgas del Mar del nord, diritti di
transito a parte.

Ma si tratta di una magra consolazione perché la filosofia dell'azienda di San Donato è da sempre orientata al controllo diretto delle proprie infrastrutture, cosa che le consente di trattare, da una posizione di forza, con omologhe straniere e corrispettivi governi nazionali.

Per ribadire il concetto ecco una notizia riportata su Il Giornale on line del 7.2.10: “E sulla questione iraniana tra Berlusconi e Gates [segretario alla difesa statunitense] c’è piena sintonia. L’Italia, infatti, è disponibile a partecipare alla definizione di uno schieramento internazionale che coinvolga i Paesi europei per definire le sanzioni da applicare, cosa che il Cavaliere ha ripetuto nella sua recente visita in Israele anche a Netanyahu.

Un’attività di mediazione che Roma potrebbe estendere anche a Russia, Turchia, Brasile e Libano. È chiaro, però, che la disponibilità italiana sul fronte delle sanzioni - pur essendo calato del 40% nel 2009, nel 2008 l’Italia era il primo partner commerciale europeo dell’Iran - avrà un costo, soprattutto per le aziende esportatrici del Nord.

Circostanza che la diplomazia italiana ha già fatto presente a Washington e su cui tornerà domani il ministro degli Esteri Frattini nel corso del suo bilaterale con Gates.” Quindi, il governo non solo vira pericolosamente sulla politica estera rispetto a pochi mesi fa ma si presta anche ad attivare una mediazione con la Russia per ottenere l'imprimatur di Putin-Medvedev sulla probabile inversione dei rapporti con l'Iran e conseguente isolamento del paese guida da Ahmadinejad.

Il risultato che Berlusconi otterrà, contro le sue previsioni, sarà quello di rovinare i rapporti con il gigante dell'est. della stessa questione ribadita, in una lettera di qualche tempo fa a Il Giornale, da un rappresentante di vertice della Gazprom il quale si premurò di denunciare l'autolesionismo italiano su un'azienda di grandi potenzialità che, seguendo queste tortuosità nella definizione proprietaria dei suoi assetti, finiva per diventare un partner senza capacità decisionali immediate.

Proprio detta caratteristica aveva reso l'Eni, benché più piccola di altre multinazionali del settore, un referente adeguato per le grandi imprese di Stato leaders nei tubi e nell'estrazione di materia prima, come appunto il colosso energetico russo Gazprom (il quale aveva dichiarato esplicitamente di preferirla, rispetto alle speculari imprese inglesi o francesi, per la rapidità nel sapere scegliere il meglio per sé e per il proprio paese).

Questo è il quadro della nuova situazione con le piccole e grandi decisioni internazionali,
commerciali e industriali annunciate dal governo.
La situazione è peggiorata molto rispetto a pochi mesi fa e l'Italia sembra essere ritornata, simmetricamente ed acriticamente, ad aderire alle richieste europee e statunitensi sulla politica estera e sugli accordi bilaterali (da fermare) con i paesi non graditi a Washington.

Si sta rinunciando, pertanto, a quell'abbozzo di linea d'azione autonoma, sulle grandi questioni geopolitiche di questo primo scorcio del XXI secolo, sulle quali il governo Berlusconi si era inizialmente smarcato dagli “amici” atlantici per rispondere meglio alle sfide di riequilibrio dei rapporti di forza aperte dai tempi.

Per tale motivo dobbiamo immediatamente organizzarci ed alzare un muro di protezione sulle conquiste già ottenute. Prioritariamente, l'idea che sarà lanciata nei prossimi giorni dal blog, con un'analisi più dettagliata della situazione, è quella di costituire un Comitato strategico (oppure un Osservatorio nazionale) di difesa dell'Eni dagli attacchi di Usa ed Ue e dai cedimenti del governo sui temi dell'energia e della politica estera.

Proprio perché detta impresa, in questa particolare fase storica di multipolarismo, veicola importanti scelte internazionali dell'Italia nel grande gioco della geopolitica mondiale, dobbiamo assumerci il compito di raccogliere ogni possibile informazione, denunciando, contestualmente, le aggressioni, subdole od esplicite (messe in pratica da Stati e nazioni solo apparentemente amici), volte a depotenziarla sui mercati esteri o ad indebolirla sulle posizioni di privilegio già guadagnate.

Difendere l'Eni, secondo questa impostazione, significa proteggere l'Italia da chi vuole ridurla al rango di nazione subimperiale.



Erdogan: l'Iran è nostro amico
di Robert Tait - The Guardian - 26 Ottobre 2009
Traduzione di Andrea Carancini per http://andreacarancini.blogspot.com

Con le sue stupende vedute e i palazzi un tempo ottomani, le sponde del Bosforo – lo strategico corso d’acqua che taglia Istanbul a metà e che divide l’Europa dall’Asia – possono essere il luogo perfetto per distinguere l’amico dal nemico e per capire da che parte stanno gli interessi del vostro paese.

E dentro il suo grandioso quartier generale accanto al canale, lungo il simbolo del presunto ruolo della Turchia quale ponte tra est e ovest, Recep Tayyp Erdogan ha pochi dubbi su chi è un amico e su chi non lo è.

Mahmoud Ahmadinejad, il presidente dell’Iran radicale, la cui focosa retorica lo ha reso la bestia nera dell’occidente? “Non c’è dubbio che sia nostro amico”, ha detto Erdogan, il primo ministro della Turchia degli ultimi sei anni. “Come amico, abbiamo avuto finora ottime relazioni e non abbiamo avuto nessuna difficoltà”.

E Nicolas Sarkozy, il presidente francese, che ha guidato l’opposizione europea al tentativo della Turchia di entrare nell’Unione Europea e, incidentalmente, ha avuto toni ostili verso il programma nucleare iraniano? Non è un amico?

“Tra i leader europei vi sono quelli che nutrono pregiudizi contro la Turchia, come la Francia e la Germania. In precedenza, sotto Chirac, abbiamo avuto eccellenti relazioni [con la Francia] e lui aveva un atteggiamento positivo verso la Turchia. Ma durante l’era di Sarkozy non è la stessa cosa. È un atteggiamento ingiusto. L’Unione Europea sta violando le sue stesse regole.

“Se stessimo nella UE, costruiremmo ponti tra il miliardo e mezzo di musulmani e i non musulmani. Dovrebbero pensare a tutto ciò. Se lo ignorano, indeboliranno la UE”.

Amichevole verso un Iran teocratico e religioso, desiderosa e sempre più irritata verso un’Europa secolarizzata ma insopportabilmente sprezzante. Sembra il riassunto perfetto della dicotomia est-ovest della Turchia.

Il debole di Erdogan per Ahmadinejad può sorprendere in occidente coloro che considerano la Turchia una democrazia filo-occidentale stabilmente ancorata dentro la Nato. È membro dell’alleanza dal 1952.

Sarà meno sorprendente per i critici interni laicisti di Erdogan, che ritengono che il cuore del primo ministro sia rivolto a oriente e che sospettano da molto tempo che il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), dalle radici islamiche, stia complottando per trasformare la Turchia in uno stato religioso simile all’Iran.

Erdogan nega decisamente l’ultima accusa, ma per i suoi critici lui e Ahmadinejad sono individui dello stesso stampo: dei pii conservatori di umili origini che cercano il favore popolare parlando il linguaggio della strada.

Dopo le contestate elezioni presidenziali di Ahmadinejad del Giugno scorso, Erdogan e il suo alleato, il presidente turco Abdullah Gul, sono stati tra i primi leader stranieri a fare telefonate di congratulazioni, ignorando le proteste di massa e le preoccupazioni dei leader occidentali sulla legittimità del risultato.

Parlando con il Guardian, Erdogan ha definito tale mossa “una necessità delle relazioni bilaterali”. “Ahmadinejad è stato dichiarato il vincitore, non ufficialmente, ma con un grande scarto di voti, è poiché lo avevamo già incontrato, lo abbiamo chiamato per congratularci con lui”, ha detto.

“In seguito, la sua elezione è stata dichiarata ufficialmente, ha avuto un voto di fiducia e questa è una cosa alla quale prestiamo un’attenzione particolare. È un principio basilare della nostra politica estera”.

Un gesto che sarà ricordato, quando Erdogan arriverà questa settimana a Teheran per colloqui con Ahmadinejad e con l’Ayatollah Ali Khamenei, il leader supremo dell’Iran, colloqui focalizzati sulle relazioni commerciali, incluso il bisogno della Turchia del gas naturale iraniano.

Ahmadinejad ha espresso la sua ammirazione per Erdogan, lodando la recente decisione della Turchia di espellere Israele da un’esercitazione della Nato, per protestare contro il bombardamento di Gaza dello scorso inverno.

Dopo le elezioni, l’Iran ha visto una dura repressione degli esponenti dell’opposizione, che ha portato all’imprigionamento e al processo pubblico di attivisti, studenti e giornalisti. Alcuni detenuti sono morti in prigione, e vi sono state accuse di torture e stupri. Alcuni dei presunti torturati hanno cercato rifugio in Turchia.

Ma Erdogan ha detto che non solleverà la questione della repressione post-elettorale con il suo ospite, dicendo che rappresenterebbe un’”interferenza” con gli affari interni della Turchia.

Ha versato acqua fredda sulle accuse occidentali che l’Iran sta cercando un’arma nucleare, dicendo: “L’Iran non accetta l’accusa che sta preparando un’arma. Lavorano sull’energia nucleare solo per scopi pacifici”.

Erdogan ha dato un grande impulso alle relazioni tra Turchia e Iran, in precedenza fredde, il che è stato visto con sospetto dai vertici del potente esercito turco, di orientamento laicista. L’anno scorso, il commercio tra i due paesi ammontava a circa 5.5 miliardi di sterline, poiché l’Iran è diventato un importante mercato per le esportazioni turche.

Le opinioni di Erdogan attireranno l’attenzione dei responsabili della politica estera americana, che per molto tempo hanno visto il suo governo targato AKP come un modello di “Islam moderato” che potrebbe venire adottato in altri paesi musulmani.

Verranno esaminate anche dal Presidente Barack Obama, il quale in Aprile ha sottolineato in una visita l’importanza strategica della Turchia e ha invitato il primo ministro a visitare Washington. È improbabile che influenzeranno Israele, che ha ammonito che le critiche di Erdogan rischiano di danneggiare le relazioni della Turchia con gli Stati Uniti.

Erdogan ha liquidato l’argomento, dicendo: “Non penso che ci siano possibilità in tal senso. La politica dell’America in questa regione non è dettata da Israele”.

Egli ha sostenuto che l’alleanza strategica Turchia-Israele – che secondo qualche esponente dell’AKP è finita – rimane in piedi, ma ha rimproverato il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che aveva minacciato di usare armi nucleari contro Gaza.