venerdì 26 febbraio 2010

Update italiota

Un altro update sulle vomitevoli vicende italiote.


Di Girolamo, il politico portato dai boss
di Monica Centofante - www.antimafiaduemila.com - 25 Febbraio 2010

E' uno scandalo pieno di precedenti quello del senatore Nicola Di Girolamo. Non certo il primo ad essere eletto grazie ai voti della criminalità organizzata, non certo l'ultimo che dopo la conquista del seggio è stato chiamato a restituire il “favore”. E a non dimenticare mai le proprie “origini” e quelle di chi lo ha “costruito”.

Per Gennaro Mokbel, trait d'union tra ambienti politico-mafiosi, massoneria, servizi segreti ed eversione nera, il senatore del Pdl era “una creatura sua e dei suoi amici della 'Ndrangheta”.

Modellato su misura per soddisfare le necessità di un'organizzazione fatta di criminali e colletti bianchi uniti dall'obiettivo comune di riciclare i proventi di quella che il gip di Roma, nelle 1800 pagine di ordinanza di custodia cautelare sfociata negli arresti di martedì, definisce la “più colossale truffa del secolo”.

Uno dei più grandi business nella remunerativa galassia del riciclaggio che secondo il Fondo Monetario Internazionale varrebbe, solo in Italia, non meno di 118 miliardi di Euro e nelle economie occidentali assorbirebbe tra il 5 e il 10% del Pil.

Cifre immense che in fede al sacrosanto principio del “Pecunia non olet” rendono sempre più labile il confine tra criminalità e imprenditoria e finanza e politica e servizi di sicurezza.
“Gli affari si fanno meglio in Parlamento” erano sicuri gli organizzatori della maxi-truffa che di nuovo sta portando sul banco degli imputati i vertici di compagnie telefoniche, questa volta Fastweb e Telecom Italia Sparkle.

E quando nel 2008, caduto il governo Prodi, c'era bisogno di un referente politico preferibilmente eletto in Europa la scelta era caduta su di lui: già organico all'associazione e già dimostratosi affidabile in quanto “organizzatore di società di comodo” e “consulente legale e finanziario dell'associazione criminale per conto della quale aveva effettuato viaggi all'estero per operare su diversi conti correnti accesi presso istituti di credito internazionali”.

Mokbel aveva così proposto la candidatura di Di Girolamo al senatore Marcello Dell'Utri, che aveva poi declinato l'offerta, ma si era preso qualche giorno per pensarci. Perché il braccio destro di Silvio Berlusconi Mokbel lo conosceva, e non lo nega.

Così come mai, negli anni passati, ha negato di essersi sentito al telefono con Aldo Micciché, il faccendiere legato ai capi della potente cosca calabrese dei Piromalli. Che secondo un'indagine si sarebbe attivata per raccogliere in America Latina i voti da dirottare al Pdl utilizzando lo stesso metodo delle schede bianche e facendo guadagnare al partito più di 50 mila consensi.

Un gioco da ragazzi per il Micciché, che dal senatore avrebbe ricevuto anche la richiesta di impegnarsi pure per il voto in Calabria sentendosi rispondere: “Nessun problema”.

Su Di Girolamo Dell'Utri non se la sarebbe però sentita di puntare e Mokbel, uomo dalle mille conoscenze - risultato anche in contatto con personaggi dei servizi segreti, con “finanzieri affittati”, con appartenenti al Nucleo di Polizia valutaria - si sarebbe rivolto altrove.

Più precisamente all'avvocato Paolo Colosimo, difensore di alcuni boss” della famiglia Arena di Isola di Capo Rizzuto e poi a Stefano Indrieri, ex segretario del ministro Tremaglia che avrebbe fatto ottenere al nuovo “cavallo” dell'organizzazione una falsa residenza a Bruxelles, necessaria per la candidatura nella circoscrizione Estero-Europa. La falsa residenza, si legge nel documento, “sarà l'abitazione in uso a un giovane borsista pugliese presso il Parlamento europeo, amico di Andrini”.

Per quanto riguarda i voti ci avrebbero pensato le conoscenze dell'avvocato Colosimo. E in particolare il boss Franco Pugliese, amante delle barche (che in cambio avrebbe preteso che fosse individuata una persona fisica o giuridica alla quale intestare un'imbarcazione che lo stesso stava acquistando), che in Germania risulterebbe proprietario di 146 ristoranti e che avrebbe dimostrato di avere un controllo capillare, insieme alla cosca Arena, anche di larghe fette di territorio estero.

La banda di Mokbel, aggiungono i giudici, utilizzava anche alcuni poliziotti come autisti e ad altri veniva affidata la sicurezza della gioielleria romana in via Chelini, dove venivano venduti diamanti”, una delle attività utilizzate per riciclare i proventi illeciti.

Mentre il faccendiere romano sarebbe stato in contatto anche con Gianfranco Fini. “Fratello mio, tutto a posto – si sente dire nel corso di un colloquio telefonico intercorso tra lo stesso Mokbel e il boss Pugliese -, ma tu non sai... poi ti spiego. Mo ha chiamato Fini, Gianfranco Fini”, che “ha chiamato Nicola (Di Girolamo) e l'ha convocato non se sa quando esce questo e io sto qui come un cojone. Ma nun te preoccupà ogni promessa è debito”.

E infatti la promessa sarà esaudita e il politico verrà eletto in quota An nelle fila del Popolo della Libertà a garantire gli interessi del sodalizio.

Anche per questo il gip Aldo Morgigni ha chiesto che Di Girolamo venga arrestato, e perché, ha spiegato, “sussiste il rischio concreto che fruendo dell'immunità propria di tale carica egli possa fuggire all'estero, dove dispone di un patrimonio illecito di notevolissima entità”. In parte confermato anche dal commercialista Fabrizio Rubini che avrebbe parlato di “somme rilevanti” versate in favore del senatore.

Ieri, in conferenza stampa, Di Girolamo si è difeso: “Non c'entro non questi personaggi”, “mai conosciuti”. Ma a smentirlo c'è la prova delle prove: una foto che lo ritrae mentre festeggia la vittoria elettorale proprio con il boss Pugliese.

E mentre al Governo si parla di nuovi disegni di legge contro la corruzione, i personaggi come Di Girolamo, nelle aule del Parlamento e del Senato sembrano essere sempre più in buona compagnia.


Lacrime di coccodrillo
di Marcello Sorgi - La Stampa - 26 Febbraio 2010

Passeranno alla storia come le più classiche lacrime di coccodrillo, le dichiarazioni indignate con cui ieri il presidente del Senato Schifani si è impegnato ad espellere al più presto da Palazzo Madama, facendolo decadere dalla carica, il senatore Nicola Di Girolamo.

Parlava, appunto, come se il caso che riguarda il parlamentare truffatore - che, fingendo di aver residenza in Belgio, era riuscito ad essere inserito in lista con una raccomandazione del suo amico nazista Gennaro Mokbel, già in rapporti con la Banda della Magliana e con il potente clan calabrese Arena, e si era poi fatto eleggere come rappresentante degli italiani all’estero grazie a un’attiva collaborazione del ramo tedesco della ’ndrangheta -, non fosse già noto, nelle sue grandi linee, e rubricato dagli uffici del Senato da un anno e mezzo.

Come se un altro esponente del Pdl, il senatore Augello, non avesse cercato, fin da agosto 2008, di convincere i suoi colleghi a intervenire. E come se la questione non fosse tornata all’ordine del giorno una seconda volta, quando appunto fu reiterata dal Senato la decisione di proteggere dalle sue ignominiose responsabilità il suddetto Di Girolamo.

Ora è tutto uno scaricabarile. Il presidente della Camera Fini, in aperta polemica con i senatori della sua stessa parte, dice che voterebbe per l’arresto di Di Girolamo. Il capogruppo Gasparri, che si è battuto per evitarlo, sostiene che la responsabilità è di chi accettò che un simile campione fosse messo in lista. E fa il nome di Marco Zacchera, pure lui ex An, che ha riconosciuto che la scelta fu sua.

Zacchera non è certo uno sconosciuto per Fini. E poi, andiamo, è possibile che il partito che più s’era battuto per concedere il diritto di voto agli emigrati italiani - una storica battaglia condotta per decenni, fin dall'epoca del Msi, da Mirko Tremaglia -, alla seconda occasione in cui questo genere di elezione veniva messa in pratica, non avesse un candidato migliore da proporre?

Ed è credibile che un qualsiasi candidato, non solo quello da presentare all’estero, sia entrato in lista, con buone probabilità di essere eletto, senza che i leader del partito lo conoscessero e sapessero qualcosa delle ombre che si portava dietro?

Diciamo la verità, è impossibile crederlo. Ma anche ammesso che Di Girolamo, in buona o cattiva fede, fosse stato garantito al limone ai vertici del Pdl - o più precisamente dai vertici dell’ex An a Berlusconi -, con le carte che sono arrivate al Senato dopo la sua elezione, ce n’era abbastanza per capire che aveva voluto farsi eleggere per ragioni inconfessabili, forse proprio per evitare di finire in carcere. E di conseguenza, per sbatterlo fuori prima ancora che la sua vita da parlamentare cominciasse.

Invece, è andata come è andata, e adesso c'è la rincorsa a metterci una pezza. Sono tempi difficili per la Seconda Repubblica, non passa giorno che non salti fuori una storia di corruzione o di rapporti obliqui tra politici e criminalità organizzata.

Combinazione, alla fine di questa settimana, dovranno anche essere presentate le liste per le regionali. Vediamo cosa s’inventano, stavolta, per convincerci che è impossibile che salti fuori un altro Di Girolamo.


La prova delle menzogne
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 26 Febbraio 2010

David Mills è stato corrotto. È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all'immagine dello Stato.

Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore.

Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l'arcipelago di società off-shore creato dall'avvocato inglese. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole - e dagli impegni pubblici - del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l'interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell'obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c'è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l'aspetto formale, come si è detto).

Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest".

Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell'avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l'impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale.

Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì.

In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche.

Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente.

Dunque, l'atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l'efficienza, la mitologia dell'homo faber, l'intero corpo mistico dell'ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E' la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese.

Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l'ombra di quell'avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico.

Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo. Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l'esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese.

Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d'illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava). Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato.

Non lascerà l'Italia, ma l'affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli".


Il bivio del premier
di Luigi Ferrarella - Il Corriere della Sera - 26 Febbraio 2010

La Cassazione mette il timbro definitivo sulla corruzione del testimone David Mills in due processi a Silvio Berlusconi, commessa a fine 1999 nell’interesse del premier-coimputato che all’epoca era già in politica da 5 anni, e coperta oggi da prescrizione grazie alla legge Cirielli approvata nel 2005 proprio dalla maggioranza del presidente del Consiglio.

Ma — imprevisto per il premier — quella legge, che tagliava i termini massimi di prescrizione, produce immediatamente i propri effetti liberatori soltanto per Mills: Berlusconi, a causa dello scudo Alfano che dal 26 settembre 2008 ne congelò la posizione fin quando la Consulta lo dichiarò incostituzionale nel 2009, ora deve affrontare l’alea di udienze in Tribunale almeno sino a primavera 2011 prima di approdare alla medesima prescrizione.

È il mondo alla rovescia nella storia dei processi a Berlusconi, dove per la prima volta non succede che il suo coimputato di turno resti incastrato e il premier invece no: dopo Berlusconi prescritto e Previti condannato per la corruzione Fininvest del giudice Metta nel lodo Mondadori, dopo Berlusconi assolto e il suo manager Sciascia condannato per le tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza, stavolta accade infatti il contrario.

È il corrotto teste Mills a cavarsela subito con la prescrizione del reato, ed è invece Berlusconi, indicato dal capo di imputazione come corruttore, a restare con il cerino in mano nel suo processo in Tribunale, che riprende domani a Milano dopo lo stop determinato dall’incostituzionale legge Alfano.

Cerino acceso per quanto? Almeno per i tempi supplementari da aggiungere ai 10 anni di prescrizione del reato, che ieri la Cassazione ha stabilito vadano calcolati dal novembre 1999: e cioè i 14 mesi di sospensione del processo a Berlusconi per il lodo Alfano, alcune settimane di pausa per un turno elettorale, qualche legittimo impedimento, gli ultimi 45 giorni di stop in attesa della Cassazione.

Tutti sommati al novembre 2009, queste frazioni spostano l’orizzonte della prescrizione per Berlusconi alla primavera del 2011, quando è improbabile che tutti e tre i gradi di giudizio abbiano fatto in tempo ad essere celebrati.

Già quattro volte tra il 1999 e il 2003 Berlusconi ha evitato, per la prescrizione dei reati, le conseguenze della corruzione con soldi Fininvest di un giudice (nel lodo Mondadori), dell’illecito finanziamento di un partito (il Psi di Craxi in All Iberian), delle falsità da 1.500 miliardi di lire nei bilanci consolidati Fininvest, e delle falsità di bilancio nell’acquisto di un calciatore del Milan (Lentini).

Ma ora Berlusconi ribadisce di non aver corrotto con 600.000 dollari Mills affinchè l’avvocato inglese tacesse la verità sulle società offshore architettate all’inizio degli anni ’90 per la Fininvest.

Dunque domani, nel suo processo, Berlusconi potrebbe scegliere di rinunciare alla prescrizione per puntare in Tribunale al riconoscimento dell’estraneità che rivendica: in questo caso ulteriori iniziative legislative in tema di giustizia verrebbero sottratte al sospetto che a dettarle di volta in volta siano contingenti esigenze processuali del premier, e guadagnerebbe in credibilità anche l’annunciata intenzione di voler introdurre norme più severe proprio contro la corruzione.

Se invece il presidente del Consiglio preferirà aspettare, l’annullamento della condanna di Mills gli prefigura la certezza di analoga prescrizione nel 2011, sempre per effetto della legge ex Cirielli che nel 2005 ridusse da 15 a 10 anni i termini massimi.

Un bivio di scelte destinato a influenzare anche tempi e modi dell’eventuale approvazione definitiva di due leggi votate sinora rispettivamente dalla Camera e dal Senato: il «legittimo impedimento» automatico per 18 mesi, e il cosiddetto «processo breve» che avrebbe (tra gli altri) l’effetto di estinguere subito sia il processo-Mills di Berlusconi sia l’altro dibattimento in cui è imputato di frode fiscale sui diritti tv Mediaset.


Vincitori e vinti della banda larga
di Massimo Giannini - La Repubblica - 26 Febbraio 2010

Lo scandalo dei furbetti del telefonino, come quello dei furbetti del quartierino del 2005, avrà effetti pesanti sul sistema economico e sugli assetti di potere.

Il terremoto giudiziario ha un epicentro visibile nelle telecomunicazioni, ma i danni collaterali si abbatteranno sull'industria, la finanza, la politica, incidendo su alcune partite strategiche nelle più importanti aziende del Paese.

Quali sono le "vittime" finali dell'inchiesta che, tra il carosello delle frodi, la girandola delle fatture false e il riciclaggio del denaro sporco ad opera del nuovo operatore criminal-telefonico già ribattezzato "'Ndranghetel", ha disvelato un'altra, inguardabile faccia del capitalismo italiano?

L'effetto principale dell'operazione Telefoni Puliti riguarda il futuro prossimo delle telecomunicazioni. E qui a subire un contraccolpo è l'asse Berlusconi-Letta-Geronzi. Fino a pochi giorni fa il destino di Telecom Italia sembrava segnato.

Gravato da 35 miliardi di debiti, con un ebitda in calo costante, ricavi da telefonia fissa e mobile in progressivo deterioramento, margini di espansione sui mercati esteri ridotti quasi a zero, il non più glorioso marchio delle tlc italiane era avviato verso un matrimonio forzoso con Telefonica. Per due motivi.

Il primo motivo, più opinabile, era industrial-finanziario. Da mesi gli azionisti italiani del gruppo riuniti insieme agli spagnoli nella holding Telco (cioè Mediobanca, Intesa e Generali) chiedevano all'amministratore delegato Franco Bernabè un piano industriale "di sviluppo".

La risposta era sempre stata la stessa: "Dove volete che vada Telecom, che nelle condizioni date ha proprio nell'ingombrantissimo socio estero Telefonica uno dei principali fattori di freno alla crescita del business (vedi Sudamerica)"?

Delle due l'una: o il patto con gli spagnoli si rescinde, ma gli azionisti tricolori devono mettere in conto di perderci una barca di soldi, o si arriva all'integrazione totale, e allora si convola a nozze, lasciando il comando industriale agli spagnoli e il controllo della rete a una newco a prevalenza italiana. Mediobanca propendeva decisamente per la soluzione spagnola.

Intesa era più cauta: ancora domenica scorsa una fonte vicina a Cà de Sass ripeteva: "Si farà di tutto per evitare una svendita. C'è chi la vorrebbe, ma prima di arrivarci si possono tentare ancora molte strade...". Alle Generali parevano invece rassegnati alla fusione: "Non c'è entusiasmo, ma non c'è alternativa...", sosteneva una settimana fa una fonte vicina alla compagnia triestina.

Il secondo motivo, più cogente, era politico-affaristico. La fusione con gli spagnoli la voleva fortemente Berlusconi. "Non ci occupiamo di queste cose, siamo un governo liberale", aveva detto il 4 febbraio scorso: in realtà, nonostante queste grottesche rassicurazioni, il premier ha lavorato sodo per assecondarla.

Già nel luglio 2008 aveva ricevuto il ceo di Telefonica Cesar Alierta, portato ad Arcore grazie alla mediazione di Alejandro Agag, genero di Aznar. Insieme avevano concordato un percorso a tappe, che in due anni avrebbe portato Telecom nelle braccia degli spagnoli, con una ricca contropartita per il presidente del Consiglio.

Nel settembre successivo Alierta era venuto a Roma, per mettere a punto i dettagli con il Cavaliere e Letta a Palazzo Chigi, e poi con Cesare Geronzi nella sede romana di Mediobanca, in piazza di Spagna.

Si trattava solo di chiudere il cerchio con Zapatero, nei mesi successivi. Cosa che era avvenuta nella seconda metà del 2009. Prima al vertice italo-spagnolo della Maddalena, il 10 settembre 2009. Poi alla fine dell'anno: il 15 dicembre Zapatero aveva telefonato a Berlusconi, per augurargli pronta guarigione dopo l'aggressione di Piazza Duomo, e il premier aveva approfittato per annunciargli la visita a Madrid del figlio Piersilvio.

Così il 17 dicembre il secondogenito del premier, insieme all'inseparabile Fedele Confalonieri, erano stati ricevuti alla Moncloa, per pattuire la famosa "contropartita": il governo italiano dava via libera agli spagnoli su Telecom, e il governo spagnolo dava via libera al Cavaliere sulle tv spagnole.

Per 1 miliardo di euro Mediaset avrebbe comprato dal gruppo editoriale Prisa, sfiancato dai debiti, la controllata Tv Cuatro, più il 22% della tv satellitare Digital Plus (partecipata, guarda caso, proprio con Telefonica titolare del 21%). Così, insieme a Telecinco (controllata con il 50,1%) il Biscione diventava il primo gruppo europeo nella televisione commerciale.

L'annuncio ufficiale è arrivato infatti il giorno dopo l'incontro alla Moncloa, poi suggellato da un'intervista di Piersilvio al Corriere della Sera, il 21 dicembre: "In questa operazione la politica non c'entra nulla, ma certo la Spagna si è dimostrata molto moderna...", aveva detto il figlio del Cavaliere. Tutto sembrava fatto. Ai primi di febbraio Palazzo Chigi manifestava l'intenzione di concludere l'accordo con Telefonica, che Repubblica registrava in anteprima.

Ma a questo punto, dopo la scoperta della "madre di tutte le truffe", la fusione finisce in frigorifero. Come sostiene un autorevole esponente dell'establishment del Nord, "solo un illuso può pensare che Telefonica faccia un'Ops su un gruppo oggetto di indagini così pesanti, costretto addirittura a rinviare la presentazione del bilancio". Risultato: le telecomunicazioni italiane resteranno ancora a lungo in un limbo indefinito, mentre i valori di Borsa continuano a svaporare.

L'effetto secondario dell'inchiesta romana riguarda gli assetti futuri della Galassia del Nord e dei suoi satelliti. Ed anche in questo caso a subire un contraccolpo è di nuovo la filiera Berlusconi-Letta-Geronzi. Per altri due motivi. Il primo motivo riguarda l'organigramma di Piazzetta Cuccia.

Lo scandalo telefonico può diventare una pietra tombale definitiva sulle ambizioni di Marco Tronchetti Provera. Il patron della Pirelli, anche se ha smentito l'ipotesi, era in corsa per salire sul trono di Mediobanca, secondo i piani originari di Geronzi, prossimo al trasloco alle Generali.

Ma anche l'inchiesta su Sparkle, che parte dal 2003 e si aggiunge a quella sullo spionaggio fatta esplodere da Tavaroli e Cipriani, chiama in causa proprio gli anni della gestione Tronchetti dentro Telecom.

Quell'inciso dell'ordinanza del gip di Roma pesa come un macigno: "C'è con evidenza solare il problema della responsabilità dei dirigenti della capogruppo Telecom: c'è stata totale omissione di controllo oppure piena consapevolezza". A questo punto la "pazza idea" di Cesarone, per la sua successione, non è più percorribile. Dovrà insistere con le alternative: Lamberto Cardia o Vittorio Grilli. Con piena soddisfazione di Alessandro Profumo, pronto a dare battaglia su Mediobanca.

Il secondo motivo riguarda di nuovo Telecom Italia: per le ragioni che abbiamo visto, Geronzi ha ingaggiato da mesi un braccio di ferro sotterraneo con Bernabè. Lo considera troppo ostinato nella strategia dello "stand alone" e troppo pignolo su certe partecipazioni (proprio il caso Sparkle, che Bernabè aveva messo tra le prossime dismissioni necessarie per il gruppo, è una di queste).

Ecco perché, secondo i ben informati, l'erede di Cuccia auspicava da tempo un ribaltone ai vertici Telecom: via Bernabè, testardo nella difesa della Telecom attuale, e al suo posto Stefano Parisi, pronto ad aprire la porta agli spagnoli. Anche in questo caso, un avvicendamento studiato con la benedizione del Cavaliere e del suo scudiero Letta, che apprezzano da sempre Parisi, già uomo della presidenza del Consiglio a capo dei dipartimenti Affari economici prima, editoria poi.

Ora, per uno strano scherzo del destino, anche l'amministratore delegato di Fastweb, insieme a Scaglia e Ruggiero, è finito nel tritacarne dell'inchiesta sui furbetti del telefonino. Da indagato, è vero, che oltre tutto si dichiara "parte lesa".

Ma anche in questo caso le sue aspirazioni, e quelle di chi lo sosteneva nella sua corsa, risultano momentaneamente vanificate. Con parziale soddisfazione di Bernabè, che a questo punto può riprendere fiato nella sua guerriglia interna all'azienda.

E di Corrado Passera, che in Telco è il più convinto sostenitore di un "piano B" per Telecom, analogo a quello che Intesa costruì per Alitalia. Ma fino a quando reggeranno, tra queste macerie, le telecomunicazioni italiane? Aspettavamo da tanto tempo la "banda larga". Ma non era quella scoperta dalla Procura di Roma.


Il Capo del Governo
di Roberto Deidda - www.aprileonline.info - 25 Febbraio 2010

"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.

Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?

Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale.

La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto.

Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.

Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.

Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo.

Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.

Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare".

Il testo è di Elsa Morante, una tra le più importanti autrici di romanzi del dopoguerra, nata nel 1912 e morta nel 1985. Lo scritto risale al 1945, è intitolato Il Capo del Governo ed è contenuto in Pagine autobiografiche postume, pubblicato in "Paragone Letteratura" n.456 del febbraio 1988.

Dalla lettura dello scritto viene spontaneo osservare, con stupore, come la Morante abbia avuto una straordinaria capacità di vedere nel futuro, di descrivere il presente dal passato. E' infatti sbalorditivo riscontrare in un testo scritto da diverse decine d'anni una totale aderenza alla realtà della nostra vita quotidiana, con la descrizione di dinamiche che sembrano scorrere, oggi, davanti ai nostri occhi.

Elsa Morante aveva quindi il dono della preveggenza? No, l'autrice si riferiva Benito Mussolini nello scrivere, nel maggio 1945, Il Capo del Governo.

E' L'Italia che da allora è poco cambiata e molti, troppi italiani, traggono ancora esempio da "un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto".