domenica 14 febbraio 2010

Crisi economica in "piena salute"...

Qualche articolo sulla "piena salute" della crisi economica globale, in particolare quella della Grecia e di altri Paesi dell'eurozona.

E a ricordare la pesante situazione in cui versa anche l'Italia è stato ieri il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, che ha dichiarato "Alla fine dello scorso anno vi erano in Italia oltre 600 mila occupati in meno rispetto al massimo del luglio 2008. La quota di popolazione potenzialmente attiva che è al momento forzatamente inoperosa è elevata e crescente. Finchè la flessione dell'occupazione non s'inverte permane il rischio di ripercussioni sui consumi, quindi sul Pil [...] Stiamo ora uscendo dalla crisi con un tasso di crescita basso, ai minimi europei".

Ma naturalmente per Berlusconi e Tremonti le cose stanno in maniera diversa, anche perchè hanno altro a cui pensare. Soprattutto il primo...


Per salvare la Grecia l'Europa toglie i soldi ai suoi cittadini
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 11 Febbraio 2010

Alla fine, vinse la paura. Al vertice europeo di oggi - cui parteciperà anche il capo della Bce, Jean-Claude Trichet, di ritorno anticipato da un viaggio in Australia - la Germania darà il via libera al piano di salvataggio della Grecia.

Ne sono certi i media tedeschi, tanto che hanno anticipato la notizia in base alla quale il ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, avrebbe subito messo al lavoro i suoi tecnici affinché preparassero a tempo di record la bozza di progetto da presentare oggi in sede comunitaria.

Le opzioni sul tappeto sono due: un prestito dagli altri paesi europei oppure una risposta istituzionale dell’Unione in quanto tale. Non è un caso che, appena appresa la decisione, l’euro abbia messo a segno il forte apprezzamento sul dollaro nel singolo giorno di contrattazioni da un anno a questa parte.

Anche i titoli di Stato greci a 10 anni sono precipitati di 36 punti base toccando il 6,39% in poche ore mentre gli speculatori cominciavano a sentire scottare le dita e si precipitavano a diversificare le loro scommesse scappando dalla Grecia e spostandosi su bond portoghesi, spagnoli e italiani.

Michael Meister, capogruppo dei Cristiano democratici tedeschi, ha detto chiaramente al Financial Times Deutschland che questa crisi non poteva essere lasciata entrare in una spirale: «La nostra principale priorità è la stabilità dell’euro.

Se la Grecia otterrà aiuto, questo avverrà soltanto a condizioni molto chiare e dure e con la promessa di riforme alla radice». Una mossa paradossalmente necessaria ma anche un’arma a doppio taglio, questa scelta tedesca: da un lato potrebbe portare a un collasso della disciplina fiscale all’interno del cosiddetto Club Med e, inoltre, crea un precedente con la crisi irlandese.

Dublino, infatti, ha combattuto la sua situazione di quasi default tagliando i salari, alzando le tasse, facendo insomma quella che in Italia viene definita “macelleria sociale”, ma non ha ricevuto il becco di un euro dall’Ue: per Atene, invece, pare che sarà diverso.

Ma, come anticipavamo qualche settimana fa, Berlino ha scelto di dare il via libera anche perché questa singola mossa cambia drasticamente il carattere stesso del progetto politico legato all’euro: da un lato, infatti, è innegabile che il cosiddetto kickstart è stato dato dal rischio di una crisi in stile Lehman che facesse partire un domino sul debito in tutto il Club Med, capace di portare instabilità sistemica in tutta l’eurozona.

L’esposizione tedesca nell’area, pur non essendo da incubo, è tutt’altro che trascurabile: 43 miliardi di euro verso la Grecia, 47 verso il Portogallo, 193 verso l’Irlanda e ben 240 verso la Spagna, stando ai dati della Bank of International Settlements.

I creditori tedeschi, poi, sono già di per sé molto vulnerabili avendo il più basso capital ratio con aggiustamento di rischio dopo il Giappone. Insomma, rischi di sistema ma anche un’opportunità: dare vita, da subito e in ossequio all’emergenza, agli Stati Uniti d’Europa, con capitale formale a Bruxelles ma politica a Berlino.

A sancirlo, nei fatti, sarà il summit di oggi. Herman Van Rompuy - l’uomo messo a capo dell’Ue dal Bilderberg Group, nota consorteria internazionale che al di là delle leggende complottistiche punta da sempre al progetto federale europeo, molto gradito anche ad ambienti Usa - ha infatti già firmato una richiesta per la creazione di “un governo economico europeo” che veda spostarsi le responsabilità per la programmazione economica dalle autorità nazionali a un “Ue level” come recita il testo.

Con una mossa parallela, il capo della Commissione, il sonnachioso Jose Manuel Barroso, si è affrettato a dire che Bruxelles, attraverso i trattati, ha già i poteri necessari per prendere le redini della politica economica.

Insomma, gli euroburocrati sono ben contenti di sfruttare l’emergenza Grecia per tagliare fuori popoli e governi dai processi decisionali. Per Barroso, infatti, «la nostra situazione economica e sociale ci impone un radicale cambio dello status quo. E il Trattato di Lisbona ce lo consente». Ora si capisce meglio il ricatto a cui ha dovuto sottostare la traballante Dublino, rivotare il referendum o fare la fine dell’Argentina.

E ancora, sempre uno stranamente loquace Barroso, ha tenuto a farci sapere che «la politica economica non è una questione nazionale ma europea. Nessuna moderna economia è un’isola. Quando uno Stato membro non compie le riforme necessarie, ne soffrono tutti».

Ma, perché un ma c’è sempre, non è affatto detto che quanto deciso oggi sia sufficiente a rimettere in carreggiata la Grecia e l’intera competitività del Club Med. I cittadini greci più facoltosi hanno infatti già spostato qualcosa come 7 miliardi di euro su conti correnti all’estero nel timore di una sorta di misura di emergenza governativa che congelasse i capitali.

Un qualcosa che ricorda molto la Tequila Crisis messicana del 1994, quando gran parte dei grossi capitali finirono nei caveau della banche statunitensi.

Questa politica, però, rischia di minare i depositi base e le riserve delle banche greche, portando come conseguenza un’ulteriore contrazione del debito: c’è, insomma, il rischio di un effetto Northern Rock.

Guarda caso, proprio ieri Goldman Sachs ha attuato il downgrade di National Bank of Greece e SPSB: «La Grecia corre un rischio sia a livello di liquidità che di solvibilità. Noi continuiamo a pensare che le banche greche siano ben gestite, ma i problemi che stanno per affrontare sono al di fuori del loro controllo operativo».

Ancora una volta, una crisi finanziaria e politica eterodiretta. Benvenuti nella nuova Europa federata e senza più sovranità nazionale: senza falsa modestia, qualcuno doveva avvertirvi del cambiamento in atto.

Dubito lo faccia la grande stampa, ora speriamo che almeno il rischio di default più imminenti sia scongiurato. Controllare il Chicago Merchantile Exchange potrà essere un buon barometro: vediamo, da venerdì, dove sposteranno le loro scommesse gli speculatori internazionali. Fingers crossed.


I dati falsati di Europa e Usa che riaprono la crisi
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 12 Febbraio 2010

Marc Faber è il direttore di Gloom, Boom and Doom report, una delle letture cult per chi si occupa di economia e finanza, ma anche una sorta di bollettino del pessimismo: peccato che ci prenda quasi sempre.

Interpellato ieri a New York dalla Cnbc, Faber ha così parlato del pacchetto di salvataggio della Grecia posto in essere dall'Ue: «Il livello di debito rispetto al Pil e le liabilities esterne per gli Stati industrializzati - Usa, Uk ed Europa - è talmente alto che escludere un default appare irrealistico. Quando il peso del debito diverrà eccessivo, quelle esposizioni andranno rifinanziate e per farlo gli Stati dovranno stampare moneta: ecco, a quel punto i default divengono probabili oltre che possibili».

Speriamo questa volta si sbagli, anche se in effetti è tutta da valutare la bontà del piano tedesco per salvare Atene: basterà? Non si rischia l'anarchia fiscale nel Club Med? E poi, come intervenire sui tassi di interesse pagati ad esempio dai bond: quelli greci, per attrarre, sono sopra al 6%, quelli tedeschi pagano poco più del 3%.

Eppure, sono entrambi in euro: quanto reggerà il già labile equilibrio del “rischio paese” in un area che dovrebbe essere omogenea e invece non lo è affatto?

E, soprattutto, come valutare realmente la solidità degli Stati quando un paese membro come la Grecia ha truccato per mesi i conti e la Germania mette di fatto off-balance-sheet a livello politico le centinaia di miliardi di assets tossici presenti nelle sue banche per non perdere il rating forte?

Domande che certo non troveranno una risposta nel vertice Ue, né nella decisione della Bce di cominciare a recedere dalle misure di emergenza anti-crisi dal prossimo mese di marzo: si alzeranno i tassi, sfidando un po' di inflazione, ma colpendo definitivamente chi cerca di destabilizzare l'euro e l'intera Eurolandia?

Agli inizi di marzo, infatti, il Consiglio direttivo della Bce deciderà come procedere nel rientro delle misure straordinarie di liquidità che non risultino più necessarie: «Al fine di contrastare con efficacia qualsiasi rischio per la stabilità dei prezzi nel medio-lungo periodo, la liquidità erogata sarà riassorbita quando necessario. Il Consiglio direttivo - assicura - continuerà a seguire con molta attenzione tutti gli andamenti del prossimo periodo».

Peccato che la crescita dei prestiti bancari resterà comunque «debole» nei prossimi mesi. Per la Banca centrale europea peserà lo sfasamento temporale fra la ripresa economica e la domanda di finanziamenti: inoltre la crescita zero dei prestiti al settore privato rispecchia «il persistente incremento della crescita dei prestiti alle famiglie, mentre per le società non finanziarie la contrazione si è ulteriormente accentuata».

Per le banche - scrivono i tecnici dell'Eurotower - la sfida è «adeguare le dimensioni e la struttura dei bilanci assicurando nel contempo la disponibilità di credito al settore non finanziario», in particolare alle imprese. Una sfida che impone di «sfruttare il miglioramento delle condizioni di finanziamento e rafforzare ulteriormente le proprie basi patrimoniali». Ma veniamo a ciò che importa davvero.

Per quanto riguarda il capitolo dei tassi di interesse di Eurolandia, l'organismo presieduto da Jean-Claude Trichet, li considera «adeguati», in uno scenario inflazionistico moderato e in vista di una ripresa che per il 2010 proseguirà a «ritmo moderato» e «discontinuo».

Secondo l'istituto di Francoforte i dati più recenti indicano «che l'attività economica avrebbe continuato ad espandersi negli ultimi mesi del 2009 e agli inizi del 2010».

Insomma, si sale o no? Pare di no, forse l'ok tedesco al piano di salvataggio rende meno spaventosi gli speculatori di cds: questo, ad esempio, è un errore madornale. Passata la paura bisogna arrivare nella condizione che questa non torni evitando situazioni analoghe, non godendosi una buona notte di sonno e rimandare la risoluzione a data da destinarsi.

Anche perché tra i rischi che gravano sulle prospettive di ripresa, la Bce cita il venir meno delle misure di sostegno pubbliche, le necessarie strette di bilancio per risanare i conti ma anche le prospettive del mercato del lavoro: «La disoccupazione dovrebbe continuare a registrare un certo incremento nell’area dell’euro - si legge - attenuando la crescita dei consumi».

E quali soldi potranno mettere in campo i governi per rendere meno dura la vita ai propri cittadini? Nessuno. O briciole. Ma la Bce, da buon gendarme ottuso qual è dell'ortodossia di Maastricht (i cui risultati pratici sono sotto gli occhi di tutti con quattro, cinque stati a rischio default sul debito), ciò nonostante, torna a insistere sulla necessità di procedere a credibili e consistenti programmi di risanamento dei conti pubblici: «I Paesi dovranno rispettare gli impegni assunti nel quadro delle procedure per disavanzi eccessivi», viene ribadito nel bollettino mensile.

«È della massima importanza che il programma di stabilità di ciascun Paese poggi su misure concrete in linea con le strategie di uscita dalle misure di stimolo, e con le strategie di riequilibrio dei conti per il prossimi futuro».

Insomma, Francoforte quando si vede a rischio accetta di fare figli e figliastri, dando alla Grecia ciò che aveva negato all'Irlanda e poi, come se nulla fosse, torna con il mantra del rigore nel miglior stile della botte piena e la moglie ubriaca. Togliete l'amido dal cervello di questa gente o finiremo davvero male.

In compenso, negli Usa hanno una Fed ultra-operativa sul fronte della lotta all'iper-inflazione ma anche una bolla immobiliare che la doppia pagina di approfondimento del Wall Street Journal di mercoledì descrive come potenzialmente letale.

Pronti, quindi, a una seconda ondata di shock: al centro del gioco sempre Fannie Mae e Freddie Mac, colossi dei mutui casa che continuano a drenare soldi pubblici per restare in piedi, creando così una distorsione e una mancata accettazione del moral hazard da parte dei cittadini. Per Barney Frank, democratico del Massacchusetts, «più forte si fa rotolare la lattina giù dalla strada, più saranno grandi i danni che farà».

E Obama, al momento, non ha alcuna intenzione di smettere con il supporto. Anche perché i tassi di insolvenze sui mutui crescono, il mercato langue e lo Stato, per iniettare denaro, è di fatto detentore di azioni privilegiate con un dividendo del 10% e proprietario del 79,9% delle società attraverso warrants.

Insomma, gli americani usano le loro tasse per mantenere aziende decotte che sono di fatto già loro e che, quindi, se andranno in malora porteranno con sé il proverbiale danno oltre la beffa.

Anche perché il nuovo programma per stimolare i rifinanziamenti di mutui, il cosiddetto HAMP, sta portando risultati risibili a fronte dello sforzo monetario messo in campo: tanto più che sia a livello morale che pratico dare incentivi a banche e finanziarie affinché queste abbassino le rate dei mutui appare suicida vista la bella avventura dei subprime. Insomma, tutto sembra in ordine: l'America cresce di oltre il 5% e l'Europa si compatta in difesa della sorella Grecia.

I costi di entrambi questi dati falsati e distorti sta in quanto avete letto finora: senza risposte chiare, avremo soltanto una dilazione nel tempo del nostro tasso di default. L'Europa, per caso, ha imposto un piano di rientro dei capitali - 7 miliardi di euro - che i cittadini greci facoltosi hanno spostato negli ultimi giorni all'estero? No. Sono la garanzia per le banche, soprattutto tedesche, in caso di default.

Anche perché l’esposizione verso il Club Med della Francia è di 835 miliardi di dollari, cifra pari al 30% del suo Pil, e quella della Germania è di 707 miliardi di dollari, pari al 19% del Pil. Il rischio di default, come potete ben vedere, è tutt'altro che scongiurato. Ma questo è molto inelegante da ammettere. E a Francoforte ci tengono a forme e modi.


Sopravviverà l'euro fino al 2015?
di Moreno Pasquinelli - http://sollevazione.blogspot.com - 11 Febbraio 2010

Perchè il collasso della Grecia rischia di travolgere con l'Italia tutta Eurolandia?

La Grecia, dopo tre settimane di mobilitazioni contadine, è stata ieri completamente paralizzata dallo sciopero generale dei dipendenti pubblici, riuscito più di quello del 13 dicembre scorso.

Per sanare i conti pubblici il governo “socialista” di George Papandreu, insediatosi nell’ottobre scorso, ha approntato un piano di drastici tagli (ma il peggio deve ancora venire) alla spesa pubblica.

Gridava un dimostrante: «Non sono stati gli operai che si son presi i soldi, ma i plutocrati. Che li diano indietro loro!». Un delegato sindacale aggiungeva: «E’ una guerra contro i lavoratori e noi risponderemo con la guerra, con una lotta continua, fino a quando il governo non ritirerà i suoi provvedimenti.»

I segnali che giungono dalla Grecia confermano le tre tesi basilari su cui da almeno un anno e mezzo noi insistiamo: (1) la crisi che vive il capitalismo occidentale è una crisi epocale, storico-sistemica; (2) essa avrà affetti devastanti facendo saltare per primi gli anelli deboli della catena imperialistica (e la Grecia è uno di questi); (3) la crisi pone fine alla lunga catalessi del conflitto sociale e causerà asprissimi e prolungati scontri sociali.

PIIGS & Spread

Il Pil della Grecia pesa meno del 3% di quello di Eurolandia, eppure, non appena diffusasi la notizia di un possibile default ellenico, l’Euro è sceso in poche ore ai suoi minimi (quota 1,35 dollari al 8 febbraio), facendo così vacillare, assieme all’economia tedesca (primo paese esportatore) tutta l’Eurozona.

Ha ragione il primo ministro Papandreu a denunciare che il gigantesco assalto speculativo al debito sovrano (pubblico) greco è un attacco all’Euro. Così si spiega come, malgrado il Trattato di Maastricht impedisca un “salvataggio ufficiale”, le teste d’uovo della BCE e della Commissione europea abbiano assicurato che “la Grecia non andrà in default”.

Ma il prezzo di questo salvataggio lo indica Padoa Schioppa sul Corriere della Sera di oggi: «Eviteremo reazioni a catena, ma Atene dovrà accettare limitazioni di sovranità». In poche parole la Grecia sarà commissariata dalla Banca centrale di Francoforte e perderà anche la parvenza di Stato nazionale sovrano.

Tutti gli analisti convergono tuttavia nell’affermare che il problema non sarà risolto gettando il salvagente alla sola Grecia.

L’attacco speculativo sta infatti prendendo di mira la serie di paesi che razzisticamente gli anglosassoni (sulla disastrata condizione del regno Unito diremo più avanti) chiamano PIIGS (maiali), che è l’acronimo che sta per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Se le misure d’emergenza delle autorità monetarie e politiche europee non sortissero alcun affetto duraturo, la crisi Greca potrebbe produrre un effetto domino dalla incalcolabile portata.

I segnali non sono confortanti. I grandi detentori mondiali di denaro, anzitutto i famigerati hedge fund, stanno sbarazzandosi in maniera massiccia dei titoli di stato dei PIGS (per adesso Italia è esclusa) in loro possesso obbligando i rispettivi governi ad alzarne i rendimenti. La Grecia, ad esempio, è riuscita sì a collocare l’ultima emissione dei propri titoli di stato, ma solo offrendo un rendimento annuale del 6,2%.

Un tasso molto alto, che finisce per innescare il diabolico meccanismo per cui, pur di onorare i debiti pregressi e contenere il deficit delle finanze pubbliche, lo Stato finisce per indebitarsi sempre di più, avvicinando il rischio di un default.

C’è chi ricorda il 1992, quando, non una cordata di speculatori ma il solo George Soros, scatenò l’attacco contro la sterlina e la lira, innescando la reazione a catena della scommessa al ribasso sulle obbligazioni e i titoli di stato inglesi e italiani. Quello che sta accadendo in questi giorni sembra avere proporzioni ancora più ampie.

C’è un indice che i pescecani della finanza ritengono infallibile, il cosiddetto spread, il differenziale tra i rendimenti di obbligazioni simili (di norma decennali) emessi da paesi differenti.

Il bond, il titolo considerato più virtuoso e che fa da parametro, è in Europa quello tedesco.
Se il rendimento del bond non-tedesco è maggiore di quello di Berlino, allora vuol dire che gli operatori non si fidano e comprano meno (o vendono del tutto) il titolo non-tedesco.

La conseguenza, come dimostra la Grecia, è che il governo deve promettere (e pagare) interessi più alti se vuole piazzare i suoi prestiti durante le aste. Il rendimento più alto che il creditore incassa è il premio per il rischio, il rischio appunto che il debitore non riesca a onorare il debito contratto.

Vediamoli dunque questi spread tra i i debiti dei PIIGS e quello tedesco. Quello greco è volato a ben 405 punti base, mentre il prezzo dei CDS (su cui torneremo più avanti) è oltre i 400 punti.

Lo spread tra i titoli decennali tedeschi e quelli spagnoli è a quota 100, quello irlandese si è portato a 174 punti base, quello portoghese è a 155 (ma visto l’inquietante fallimento dell’asta dei bond portoghesi del 3 febbraio la tendenza è alla crescita). L’Italia si sta difendendo come può, lo spread coi bund e i BTp tedeschi è a quota 92.

Per adesso il “maiale italiano” non è investito dalla bufera speculativa. Più solidi sono, rispetto agli altri, i fondamentali economici, in primis la sua struttura industriale, che dimostra, anche grazie ai bassi salari e alla maggior flessibilità dei suoi distretti e all’atomizzazione delle imprese, una notevole capacità di tenuta.

Anche i dati del rapporto deficit-Pil mostrano che l’Italia, tra i “maiali”, è quello meno a rischio: contro il 13% della Grecia e l’11,7% della Spagna, il Belpaese oppone il 5,2%. Per adesso, appunto, poiché se la bufera che investe Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna dovesse farsi più minacciosa, nessuno ha dubbi che l’Italia sarebbe anch’essa travolta.

Il governo sarebbe a quel punto obbligato, onde evitare la fuga dai titoli di stato italiani, ad alzarne i rendimenti, e finanziano quest’aumento approntando piani draconiani tagli alla spesa pubblica, con le conseguenze sulla stabilità sociale e politica che ognuno può immaginare.

Che ci sia del “marcio in Danimarca”, ovvero che sia in atto un Risiko globale in cui grandi hedge found nonché grandi banche stiano speculando sulla pelle delle nazioni e dei popoli pur di arraffare grandi somme di profitti nel più breve lasso di tempo, è dimostrato dal fatto che mentre si grida al rischio default dei “maiali”, il Regno Unito, il “maialone”, stranamente, non è sotto attacco.

Segno evidente che la City è il centro vero e proprio dell’offensiva di aggiotaggio. Il rapporto deficit-Pil è considerato, come si sente dire ogni giorno, l’indice “infallibile” per valutare lo stato di salute di un paese. Peccato che quello inglese sia già al 10,4%! Cioè allo stesso livello di guardia dei PIIGS.

Credit default swap

Per comprendere perché l’umanità è sull’orlo del precipizio, fino a che punto il capitalismo è una macchina scassata con alla sua guida degli avventurieri senza scrupoli, è bene soffermarsi un attimo sui Cds, Credit default swap, che altro non sono se non quei derivati ampiamente responsabili del crollo finanziario del settembre 2008.

Si tratta di contratti con cui un soggetto terzo assume il rischio, dietro lauto pagamento da parte dell’emittente, dell’eventuale insolvenza dell’emittente stesso. In pratica si tratta di polizze assicurative sui bond e sui titoli (ma anche su azioni).

Se la quotazione dei Cds su un dato titolo sale, vuol dire che il premio della polizza è più caro, significa insomma che il mercato prezza un maggiore rischio d’insolvenza. Viceversa, se le quotazioni dei Cds scendono, il rischio di default diminuisce.

Esempio: Credito Italiano o la Cassa di Risparmio di Forlì comprano, perché venduti a tassi allettanti, obbligazioni e titoli emessi dalla Grecia, ma dato il rischio di default del paese si proteggono comprando Cds, che saranno pagati ove le obbligazioni non venissero rimborsate. Fatto sta che è il prezzo dei Cds la misura che “il mercato” considera molto precisa del rischio attribuito ad uno Stato o ad una società. Più Cds vengono comprati maggiore è il rischio dei titoli che essi coprono.

Il problema è che coi Cds si può fare anche ben altro, ovvero la pura speculazione, guadagni astronomici a breve. Afferma un analista: «Se vuoi posizionarti corto su un dato emittente (ovvero se vuoi scommettere su un suo peggioramento o al limite sul suo default, ndr), basta comprare Cds (i quali vengono scambiati al pari di tutti le altre diavolerie finanziarie, ndr). Se le condizioni del paese o della società peggioreranno, il prezzo dei Cds salirà e chi li avrà comprati per tempo, li venderà facendo lauti guadagni» (La Stampa del 10 febbraio).

Si può quindi comprare scommettendo su un rialzo dei Cds, fottendosene delle conseguenze sociali che poi affliggeranno la vittima. Quello greco è un caso clamoroso: i Cds sulla Grecia sono passati da 120 punti base in ottobre ai 419 di questi giorni. Così, mentre per gli analisti il rischio reale di default greco si aggira attorno al 2%, osservando l’impennata dei Cds si giunge al 29%.

Ci sono insomma forze anonime e tremende che puntano al crollo di questo paese, nonché a trascinare l’Euro nella spirale, proprio allo scopo di intascare le cedole lucrando sulla crisi della moneta europea.

Afferma un trader della City londinese: «In questi giorni abbiamo visto molto attivi sul debito greco molti hedge fund ma anche grandi banche, americane ed europee» (La Stampa, idem), con l’apparente paradosso che le banche che vanno all’attacco della Grecia sono le stesse che gli hanno prestato i soldi solo pochi mesi addietro. Un modo per moltiplicare rapidamente i propri guadagni.

Un altro esempio di come agisca la speculazione l’abbiamo con la Spagna. I titoli di stato spagnoli a dieci anni, tra il primo febbraio e il 4 febbraio, sono passati da 99.79 a 98,99, con un guadagno per chi ha venduto di 80 centesimi per ogni singolo titolo.

Una grande banca che avesse comprato 100 milioni di euro di titoli spagnoli, in soli tre giorni, vendendo gli stessi titoli avrebbe guadagnato 800mila euro!

Per dare un’idea delle dimensioni apocalittiche del traffico globale dei Cds basti pensare che secondo recentissime stime il totale dei CDS emessi è pari praticamente al PIL mondiale.

Come stanno le cose per i Cds sull’Italia? Essi sono passati dai circa 20 punti base del novembre 2007 agli attuali 185. Un balzo che attesta come i mercati finanziari considerano l’Italia per nulla estranea al pericolo di un collasso.

Ma anche stavolta è il caso di tirare in ballo il Regno Unito. I Cds inglese è passato in pochi mesi dai 5 punti base ai 147, con un aumento forte dall’inizio dell’anno. E neanche Germania e USA se la passano molto bene, visto che i loro Cds sono a 60-70 punti base.

La minaccia di un altro crollo finanziario e il destino di Berlusconi

In un articolo su Il Sole 24 ore del 8 febbraio Vittorio Carlini ci svela come questi Cds, lungi dall’essersi ritirati dal mercato dopo il crollo del settembre 2008, hanno ripreso vigore rischiando di causare un’altra gigantesca bolla, precipitando il capitalismo mondiale nel caos.

Egli mette in evidenza come tali derivati sfuggano ad ogni controllo, un eufemismo per dire che sono concentrati nelle mani di grandi colossi finanziari privati; e che siano scambiati su “piattaforme” opache, cosiddette Over the counter, che è un eufemismo per non dire fuori da ogni controllo.

Infatti cosa si scopre? Che in barba al crollo del settembre 2008 «.. al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Cds) era intermediato da solo cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall'Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 triliardi di dollari. Una cifra incredibile!»

Ecco chi sono i demiurghi che stanno dietro alle grandi manovre finanziarie che stanno squassando l’economia occidentale spingendo interi stati al collasso e interi popoli a subire cure da cavallo.

Si tratta non della “mano invisibile del mercato”, bensì di grandi gruppi finanziari-bancari di aggiotaggio, anzitutto anglosassoni, che nella loro folle corsa speculativa si portano appresso tutto il resto della compagnia. Sono questi gruppi che lungi dall’aver cambiato musica dopo il crollo del 2008, hanno ripreso il gioco speculativo dei derivati in grande stile, avvicinando la possibilità di un nuovo e più devastante collasso.

Secondo una vulgata dura a morire, a fronte di questo “capitalismo parassitario” vi sarebbe un “capitalismo buono” o “sano”, che starebbe lottando per avere il sopravvento e sbarazzarsi delle mele marce. Obama, manco a dirlo, sarebbe il campione di questo capitalismo buono. In Italia è addirittura il Ministro Tremonti che ama vestire i panni del paladino del “capitalismo sano” di contro ai “cattivi banchieri”.

In verità l’intreccio indissolubile tra grandi aziende industriali, banche commerciali e banche d’affari, tra speculatori cattivi e “onesti capitani d’industria” è talmente inestricabile che ne viene fuori un’unico, immenso conglomerato capitalistico mondiale, al cui centro c’è Wall Street e il super-imperialismo USA.

Un conglomerato certo attraversato dalla lotta tra cosche, dalla spietata battaglia per tenersi a galla. Ma quando tutto il sistema scricchiola esse rassomigliano ai Ladri di Pisa, che litigavano di giorno per rubare assieme di notte: come mostra il caso greco, queste cosche fanno causa comune, non si fanno scrupoli dall’assaltare la diligenza di qualche fondo sovrano.

Per di più, il ricorso all’investimento speculativo, al Risiko finanziario, i banchieri e i traders lo fanno spesso solo su commissione. Per non parlare che spesso, proprietari di banche o di gruppi industriali, fanno capo alle stesse confraternite, se non alle medesime persone fisiche.

C’è chi si chiederà: ma con quale intelligenza questi mostri capitalistici portano tali attacchi ai PIIGS, col rischio di ottenere una crisi dell’Eurozona, non escluso l’uscita dall’Euro di diversi paesi? Ma è semplice!

Per guadagnare quattrini, senza riguardo alcuno per le conseguenze che questa loro smania può provocare a livello politico e sociale, in questo o quel paese. En passant: il panico che provoca l’avanzata cinese non è che stemperi la pulsione predatoria dei conglomerati finanziari occidentali, anzi, la accentua.

Ci penseranno i governi e gli organismi politici e monetari sovranazionali a correre ai ripari, a trovare soluzioni, a mediare, o ad applicare politiche di austerità per far pagare alle masse dei salariati e ai settori più deboli della borghesia, nonché, come sempre, ai popoli diseredati del “terzo mondo”, i costi, enormi, delle loro scorribande.

Ci pensino i Papandreu, gli Zapatero o i Berlusconi a riscuotere il pizzo sociale, a sanare le casse degli stati nel frattempo razziate da Lorsignori. In fondo questi politicanti non sono che esattori, dei vampiri che quando è necessario debbono dissanguare i popoli per assicurare le indispensabili e periodiche trasfusioni senza le quali il capitalismo non potrebbe funzionare. Se non saranno guerre tra stati a far uscire il Capitale dalla crisi, che siano pure le guerre civili, l’attacco alle masse popolari.

Politiche di durissimi sacrifici attendono dunque anche gli italiani. Il cui risveglio dopo il sogno dell’opulenza e della crescita senza fine, sarà senz’altro doloroso. Se poi all’Italia dovesse accadere, a breve, qualcosa di simile a ciò che sta accadendo alla Grecia, il populismo berlusconiano, quello che meglio di tutti ha incarnato quel sogno, salterà come un birillo, un ramo secco che sarà travolto dalla piena.

Il cavaliere si farà da parte o sarà costretto a digerire il piatto che da anni stanno preparando nelle retrocucine: un governo di unità nazionale d’emergenza. Un’Unione sacra, che per conto del regime plutocratico, scaricherà sulla povera gente i costi salatissimi per salvare il salvabile, ovvero per salvare con l’Euro tutto l’edificio di Eurolandia. Noi ribadiamo che siamo solo agli inizi di una crisi epocale, destinata a ferire a morte non solo qualche “maiale” ma tutta l’Unione europea.

Saranno gli eventi a fare spazio ad una soluzione rivoluzionaria, ad un’uscita non solo dalla crisi, ma ad una fuoriuscita dal capitalismo. la cui prima irrinunciabile misura sarà nient’altro che l’annullamento del debito pubblico, fatte salve le fasce sociali più deboli che dovessero avere in tasca qualche migliaio di Euro di titoli di stato.


Dalla Grecia all'Eurozona e oltre. Così la crisi minaccia l'America
di Niall Ferguson - Fiancial Times - 13 Febbraio 2010
Traduzione di Rita Baldassarre per Il Corriere della Sera

Ad Atene è cominciata e già si diffonde a Lisbona e Madrid, ma sarebbe un grave errore immaginare che l’attuale crisi dei debiti di Stato resterà confinata alle economie più deboli dell’Eurozona.

Perché siamo davanti a qualcosa di più grande di un semplice problema mediterraneo con un acronimo che sa di fattoria (i cosiddetti Paesi «Pigs», Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna).

Si tratta invece di una crisi fiscale del mondo occidentale, le cui ramificazioni sono molto più estese di quanto non sospettino oggi gli investitori. Proprio per come è stata congegnata l'unione monetaria, non esiste un meccanismo automatico per consentire il recupero della Grecia.

Le possibilità restano tre: varare una stretta fiscale tra le più rigide mai applicate nella storia dell'Europa moderna; dichiarare l'inadempienza completa o parziale per il debito del governo greco; oppure (come sembra più probabile) una sorta di salvataggio condotto da Berlino.

Queste stranezze dell’Eurozona non devono però distogliere la nostra attenzione dalla natura generale della crisi fiscale. Quello che dobbiamo imparare è che non esiste il pranzo gratis alla Keynes.

I disavanzi non ci hanno «salvato», è stata la politica monetaria a farlo. Innanzitutto, l’impatto della spesa pubblica (quel sacrosanto «moltiplicatore») è stato di molto inferiore a quanto si auguravano i sostenitori degli incentivi all’economia. Secondo, le economie aperte in un mondo globalizzato lamentano una buona dose di «dispersione».

Infine, e questo è il caso più cruciale, l’esplosione del debito pubblico ci presenta il conto da pagare molto prima di quanto non ci aspettiamo. Per la maggiore economia mondiale, gli Stati Uniti, il giorno del giudizio sembra ancora abbastanza remoto.

Man mano che la situazione peggiora nell’eurozona, ecco che il dollaro si rafforza, mentre gli investitori nervosi corrono a ormeggiare i loro capitali nel «porto sicuro» del debito pubblico americano.

Questo effetto potrebbe protrarsi per qualche mese, proprio come accadde quando dollaro e titoli di Stato fecero causa comune nel momento più buio del panico bancario scatenato sul finire del 2008.

Eppure, basta un’occhiata superficiale alla posizione fiscale del governo federale (per non parlare dei singoli Stati) per capire che l’espressione «porto sicuro» è ridicola.

Il debito pubblico americano è un porto sicuro proprio come lo fu Pearl Harbor nel 1941. Persino secondo le nuove proiezioni di spesa emanate dalla Casa Bianca, il debito federale lordo in mano pubblica supererà il 100% del Pil in soli due anni.

Quest'anno, come lo scorso anno, il deficit federale si aggirerà attorno al 10% del Pil. Le proiezioni di lungo periodo dell’Ufficio bilancio del Congresso suggeriscono che gli Stati Uniti non riusciranno mai più a pareggiare il bilancio.

Proprio così, mai più. Di recente il Fondo monetario internazionale ha pubblicato le stime degli adeguamenti fiscali che le economie sviluppate dovrebbero implementare per ritrovare stabilità nel corso del prossimo decennio. I Paesi peggiori si sono rivelati Giappone e Regno Unito (una stretta fiscale del 13% del Pil).

Poi vengono Irlanda, Spagna e Grecia (9%). E al sesto posto? Tocca proprio all’America, che dovrà inasprire la politica fiscale di un 8,8% del Pil per soddisfare le richieste del Fondo monetario internazionale.

L’aumento vertiginoso del debito pubblico minaccia le economie nel modo seguente, come hanno dimostrato numerose ricerche empiriche: il sollevare timori di inadempienza e/oppure di svalutazione, prima ancora che di reale inflazione, fa schizzare verso l’alto i tassi di interesse.

Tassi reali più elevati, a loro volta, fungono da freno alla crescita, specie quando anche il settore privato è massicciamente indebitato—come nel caso di quasi tutte le economie occidentali, tra cui gli Stati Uniti. Benché il risparmio delle famiglie americane sia cresciuto dall’inizio della Grande Recessione, non è salito abbastanza per assorbire il trilione di dollari delle emissioni nette del Tesoro ogni anno.

Solo due cose si sono finora frapposte tra gli Stati Uniti e un maggior rendimento dei titoli: l’acquisto di titoli di Stato per opera della Federal Reserve, e l’accumulo delle riserve in dollari da parte delle autorità monetarie cinesi.

Ma oggi la Fed sta frenando gli acquisti e si prevede che voglia accelerare l'alleggerimento quantitativo. Nel frattempo, i cinesi hanno ridotto di molto i loro acquisti di titoli di Stato, da circa il 47% delle nuove emissioni nel 2006 al 20% nel 2008, fino a un 5% stimato l’anno scorso.

Non ci si meraviglia pertanto se la Morgan Stanley prevede che i rendimenti a dieci anni saliranno da circa il 3,5% al 5,5% quest’anno. Su un debito federale lordo che si avvicina rapidamente ai 1500 miliardi di dollari, questo significa oltre 300 miliardi di interessi extra da pagare— e ci si arriva molto facilmente, se si pensa che la scadenza media del debito oggi è inferiore ai 50 mesi.

Il nuovo budget del governo Obama prevede ottimisticamente una crescita del Pil del 3,6% nei prossimi cinque anni, con un'inflazione media dell'1,4%. Ma con i tassi reali in risalita, la crescita potrebbe rivelarsi più lenta. In tali circostanze, gli interessi da pagare potrebbero balzare in avanti, come quota delle entrate federali: da un decimo a un quinto, a un quarto.

La scorsa settimana Moody’s ha avvertito gli investitori di non dare per scontata la valutazione «tripla A» normalmente assegnata agli Stati Uniti. L'ammonimento ricorda la «domanda killer» di Larry Summers (prima di riprendere l'incarico di governo): «Per quanto tempo ancora il più grande spendaccione mondiale potrà restare la più grande potenza mondiale?».

Riflettendoci bene, è giusto che la crisi fiscale dell’Occidente sia iniziata in Grecia, culla della nostra civiltà. Ben presto varcherà la Manica per sbarcare in Gran Bretagna e già ci si chiede quando toccherà l'ultimo bastione della potenza occidentale, sull’altra sponda dell'Atlantico: resta questa la domanda cruciale.


La favola del paese che va
di Massimo Giannini - La Repubblica - 13 Febbraio 2010

La recessione mondiale ci presenta il conto. E per l'Italia è un conto salatissimo. Il crollo del 4,9 per cento del Prodotto interno lordo generato dalla nazione nel 2009 non colpisce tanto per la sua dimensione epocale: uno schianto di questa portata non si registrava da ben trentanove anni.

Stupisce anche per la sua progressione tendenziale: nel quarto trimestre dell'anno passato politici incoscienti e analisti confidenti scommettevano su una ripresa, magari anche modesta, e invece il Pil è caduto ancora (del 2,8 per cento sul quarto trimestre 2008, e dello 0,2 sui tre trimestri precedenti).

Alla faccia di Berlusconi e Tremonti, dunque, la nave non va proprio. E stavolta il premier non può raccontare all'opinione pubblica la solita favola rassicurante, che ripete come un esorcismo da due anni a questa parte: "l'Italia va meglio degli altri". Nell'ultima parte del 2009, quanto a tassi di crescita, anche i Paesi più in affanno nel G7 (dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna) hanno dato segnali di risveglio.

Solo noi continuiamo a languire, e a deperire, nel "grande sonno" dell'accidiosa propaganda governativa. Ecco cosa significa accontentarsi del "meno peggio", come ha scritto tre giorni fa Tito Boeri su questo giornale.

L'Italia paga il costo del suo immobilismo. La sedicente "politica del fare", soprattutto in economia, è precipitata ormai da troppo tempo in un renitente "governo del non fare".

È vero. Questa stralunata "Berlusconomics", attendista e rinunciataria, ha consentito all'Italia di sfilarsi momentaneamente dal girone infernale del Club Med. Oggi, quando si parla di "Pigs", i "maiali" che infettano Eurolandia con i loro conti pubblici in disordine, si evocano Portogallo, Grecia e Spagna. A giudizio dei mercati, la "I" di mezzo non è più l'Italia, che è uscita dall'acronimo infamante.

È l'Irlanda, come conferma uno studio appena uscita su lavoce. info. Se si prendono in esame i tre criteri fondamentali per stabilire la tenuta di un Paese (solvibilità, liquidità e recessione con cambio sopravvalutato) il caso irlandese è persino più grave di quello greco.

Il debito estero di Dublino è pari a nove volte il Pil, quello pubblico (sull'estero) è oltre il doppio delle entrate, le riserve della Banca centrale coprono solo un 460mo del debito a breve, il cambio reale si è apprezzato del 13 per cento dal 2005 e il Pil è crollato del 7,5 per cento.

Il caso italiano, all'opposto, è quello meno grave, almeno per quanto riguarda il deficit, il debito estero, le riserve, il cambio reale. Ma la stessa cosa non si può dire per la crescita, che invece ci vede fortemente penalizzati anche rispetto a quelli che gli economisti chiamano i "porci con le ali", cioè Spagna, Portogallo e Grecia.

Qui sta il vero dramma italiano di questi anni. Sul fronte della finanza pubblica abbiamo evitato la bancarotta, con una pura logica di riduzione del danno.

Le tasse non sono affatto calate (e infatti la pressione fiscale cresce in termini reali) ma almeno la caduta di gettito non è stata disastrosa. La spesa corrente non è stata ridotta (viceversa, continua a crescere nell'ordine dei 2 punti percentuali) ma almeno il suo aumento non è stato rovinoso.

Questo ha permesso al ministro del Tesoro di restare a galla nella tempesta perfetta, evitando che un attacco speculativo sugli spread o un fallimento all'asta dei titoli di Stato si trasformassero in un iceberg fatale.

Ma sul fronte delle riforme di sistema e delle misure per lo sviluppo il Paese vive forse uno dei periodi più bui della sua storia. Non si vede uno straccio di politica economica. La riforma fiscale, annunciata in pompa magna dal Cavaliere, è già finita nel solaio di Tremonti e nel dimenticatoio dei contribuenti. La riforma del Welfare, auspicata solennemente da Sacconi, giace in un limbo inafferrabile. Non si vede, soprattutto, un barlume di politica industriale.

La Fiat delocalizza in Brasile e in Messico e chiude Termini Imerese, e Scajola non trova di meglio da fare che giocare al gatto col topo sugli incentivi e smerciare ogni giorno improbabili piani di riconversione.

Le multinazionali pesanti come Alcoa e Glaxo se ne vanno, lasciando per strada operai e impiegati, le grandi industrie della ricerca come Motorola e Italtel chiudono, licenziando ingegneri e personale qualificato.

A dispetto delle risibili rassicurazioni politiche e manageriali di questi mesi, stiamo per cedere altri pezzi pregiati della nostra produzione nazionale: Alitalia prima o poi finirà in pancia ai francesi di Air France, Telecom presto o tardi finirà in braccio agli spagnoli di Telefonica.

La "scelta strategica" di Berlusconi per sostenere la crescita, finora, è stata una sola: il gigantesco "cantiere in deroga" a tutto (leggi, regolamenti, controlli) costruito dalle mani sapienti di Bertolaso e dei suoi operosi collaboratori. Il glorioso "modello Protezione Civile Spa": un'altra bolla speculativa, tra le tante gonfiate ed esplose in questi anni di gelatina.

Per il resto, cosa rimarrà dell'Azienda Italia? Cosa produrremo tra dieci anni? Basteranno le piccole e medie imprese del Quarto Capitalismo a salvarci? In quali settori saremo più bravi, o almeno più competitivi? Nessuno lo sa. Soprattutto, nessuno lo dice, tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli.

L'Economist uscito ieri, in un'inchiesta a tutto campo sulle prospettive del 2010, vede all'orizzonte "nuovi pericoli per l'economia mondiale". Se il governo li affronta così, confuso, sfiancato e indeciso a tutto, l'Italia potrà anche uscire dal recinto dei "pig". Ma dovrà scordarsi per sempre di entrare in quello dei "big".