Proprio oggi infatti la Cina ha chiesto agli Stati Uniti di annullare "immediatamente" il programmato incontro alla Casa Bianca tra il presidente Obama e il Dalai Lama.
Questa dura presa di posizione fa seguito all'annuncio di ieri della Casa Bianca, secondo cui Obama incontrerà il Dalai Lama a Washington il 18 Febbraio nonostante i precedenti ammonimenti venuti da Pechino. Anche se l'amministrazione Obama ha sempre sottolineato che il presidente vedrà il Dalai Lama nel suo ruolo di leader spirituale e che Washington non mette in discussione il fatto che il Tibet faccia parte del territorio cinese.
Ma così recita un comunicato del ministero degli Esteri cinese "Esortiamo gli Stati Uniti a comprendere il carattere molto sensibile della questione tibetana, e rispettare scrupolosamente il loro impegno sull’appartenenza del Tibet alla Cina e la loro opposizione all’indipendenza tibetana".
Un chiaro avvertimento che un eventuale incontro tra Obama e il Dalai Lama potrebbe danneggiare gravemente i rapporti tra i due Paesi, già piuttosto tesi dall'inizio dell'anno, e che potrebbe comportare conseguenze imprevedibili.
Perchè gli Usa provocano la Cina
di Enrico Piovesana - Peacdereporter - 8 Febbraio 2010
Cosa c'è dietro all'escalation della tensione alimentata da Washington nei confronti di Pechino?
Perché gli Stati Uniti continuano a provocare la Cina? Se lo chiedono in molti, anche negli Usa.
L'escalation. Prima l'aggressivo pressing sulle emissioni inquinanti, accompagnato dalla minaccia di Obama di spiare la Cina con i satelliti militari a scopo ambientale.
Poi il durissimo attacco della Clinton alle politiche informatiche cinesi in seguito al caso Google (azienda legata alla più potente agenzia d'intelligence Usa, la National Securty Agency) che con insolito clamore ha denunciato un attacco informatico non diverso dai tanti già subiti in passato.
Pochi giorni dopo, l'annuncio statunitense della vendita di sei miliardi e mezzo di dollari di armamenti a Taiwan in funzione anti-cinese, proprio nel momento in cui i due paesi stanno iniziando a riavvicinarsi.
Poi l'annuncio dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama a Washington.
Infine le sorprendenti dichiarazioni del presidente americano, che - proprio alla viglia dei nuovi allarmi sulla crescente disoccupazione Usa - ha apertamente accusato la Cina di mettere in difficoltà il commercio Usa impedendo la ripresa occupazionale, quasi a indicare all'opinione pubblica americana un capro espiatorio esterno per la crisi economica.
I rischi. Che interesse ha Washington ad alzare la tensione con il paese che tiene a galla artificialmente l'economia Usa in crisi, continuando a finanziare l'astronomico debito pubblico Usa (Pechino detiene ormai 800 miliardi di dollari di buoni del Tesoro americano) e a sostenere il valore del biglietto verde detenendo riserve in valuta Usa per due triliardi di dollari?
Se la Cina, stanca di sostenere la decadente egemonia economica Usa basata sul dollaro, decidesse di sfidarla creando un'alternativa basata sullo yuan, vendendo i suoi Bot americani e diversificando le sue riserve, per gli Stati Uniti sarebbe la fine.
Il problema, osservano da mesi gli analisti economici di oltreoceano, è che Pechino pare decisa ad imboccare proprio questa strada.
L'allarme. Il primo campanello di allarme è suonato nei palazzi di Washington quando, lo scorso marzo, il premier cinese Wen Jiabao ha espresso preoccupazione per il futuro degli investimenti cinesi in Bot americani alla luce della debolezza dell'economia Usa.
Pochi giorni dopo il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha avanzato la proposta di abbandonare il dollaro come moneta di riserva internazionale per sostituirlo con la valuta-paniere del Fondo Monetario Internazionale (i Diritti Speciali di Prelievo) in cui inserire anche lo yuan.
Nello stesso periodo il governo cinese ha negoziato scambi valutari (swap) per 650 miliardi di yuan con le banche centrali di Hong Kong, Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Bielorussia, Argentina e Giamaica, consentendo di fatto a questi paesi di commerciare con la Cina senza ricorrere al dollaro.
A maggio Pechino ha iniziato a comperare, per la prima volta, buoni del Tesoro Usa a breve scadenza (invece che a lunga scadenza, come aveva sempre fatto) per garantirsi una maggiore flessibilità di disinvestimento, diminuendo i rischi di perdite in caso di vendita.
A settembre il governo cinese ha iniziato a vendere all'estero i suoi primi buoni del Tesoro: ulteriore passo verso l'internazionalizzazione della valuta cinese.
Il 1° gennaio 2010, con l'entrata in vigore del Trattato di libero commercio tra la Cina e i paesi dell'Asean (Vietnam, Laos, Cambogia, Birmania, Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei e Filippine, Giappone e Corea del Sud), lo yuan cinese ha iniziato la sua trasformazione in moneta di scambio regionale asiatica: esito apertamente auspicato dal governo di Pechino.
L'impotenza. Insomma, vista da Washington la situazione appare molto chiara: la Cina si sta preparando a voltare le spalle al dollaro, e a farlo in maniera tale da non subire danni economici, ovvero gettando le basi di un sistema commerciale e finanziario internazionale alternativo e basato sulla valuta cinese.
Una gran brutto affare per l'agonizzante potenza economica Usa, costretta a cooperare con chi si sta preparando a prendere il suo posto. Una situazione che risulta certamente umiliante e pericolosa agli occhi di molti esponenti del mondo politico, economico e militare americano. Poteri forti che, secondo alcuni, potrebbero essere dietro alla recente escalation di provocazioni nei confronti di Pechino.
La soluzione? Nell'aprile del 2009, quando la tensione Usa-Cina aveva appena iniziato a montare, il giornalista economico Ilvio Pannullo, scriveva su Business Online: "Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l'inizio di una strategia della tensione per portare a qualche 'incidente' capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l'esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese".
Per certi influenti ambienti della politica Usa, continuava Pannullo, è "insopportabile l'idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino. Oggi è in ballo la fine dell'egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine. (...) Il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l'enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa".
Cina-Usa, la tensione sta già scendendo
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 8 Febbraio 2010
Parla Francesco Sisci: "I tempi elettorali americani non coincidono con i tempi lunghi cinesi"
Cina e Stati Uniti, il G2 del nuovo ordine mondiale, sembrano ai ferri corti sui temi della libertà di comunicazione, dei diritti umani e delle urgenze in politica estera. Sullo sfondo, tensioni finanziarie e commerciali.
Francesco Sisci, esperto di Cina e inviato de La Stampa a Pechino, spiega perché lui intravede già un riavvicinamento tra i due Paesi. I problemi tuttavia non mancano. Alla radice, interessi geopolitici, economici e un diverso modo di intendere i tempi della politica e della diplomazia.
Dall'inizio dell'anno la temperatura dello scontro tra Cina e Usa si è fatta improvvisamente alta. Proprio quando sembrava si andasse inevitabilmente verso un G2 di fatto. Lei però ritiene che le cose vadano già meglio. Perché?
La febbre si sta abbassando, diciamo che siamo attorno ai 38, 39°. Il punto è che uno scontro duro è insostenibile. Non conviene a nessuno, perché le due economie sono troppo interlacciate. Per la Cina significherebbe perdere le proprie riserve monetarie; per l'America, perdere l'unica economia disposta a comprarle il debito.
Sicuramente però gli Usa provano un sentimento di fiducia tradita. L'amministrazione Obama ha passato il primo anno scommettendo sulla Cina e ratificando l'idea di G2. La Cina doveva darle in cambio l'accordo a Copenaghen sul clima, aiuto con la Corea del Nord, L'Iran, l'Afghanistan, e la rivalutazione dello Yuan-Renminbi. Su questi dossier, Obama non ha ottenuto praticamente nulla.
L'aiuto è arrivato in un altro settore: la Cina ha continuato a comprare bond del Tesoro Usa. Le riserve cinesi hanno superato i 2.400 miliardi di dollari, la maggior parte dei nouovi bond (300 miliardi) sono americani.
Poi c'è l'aiuto industriale: la Cina ha commissionato all'America molte attrezzature per il risparmio energetico. Però l'impatto economico arriverà lentamente e Obama ha scadenze elettorali.
Sui temi di politica estera - per ragioni di tradizione culturale e interesse geopolitico - la Cina è restia a interventi immediati e preferisce le pressioni dietro le quinte. Ma, per l'America, ciò che non si vede, non è spendibile elettoralmente.
Facciamo una ricostruzione dei momenti salienti di questa crisi.
Prima c'è stata la delusione per la Conferenza Onu sul clima di Copenaghen.
Poi ci sono stati due episodi che hanno aumentato la tensione: la condanna del dissidente Liu Xiaobo, il giorno di Natale, e la condanna a morte del narcotrafficante di passaporto britannico Akmal Shaikh, il 28 dicembre. La Cina ha sottovalutato l'effetto moltiplicatore di questi due casi.
A quel punto, credo che negli Usa sia scattato il semaforo verde per lo scandalo Google, che in realtà bolliva in pentola da mesi. La vicenda ha tre aspetti. Uno riguarda la libertà di comunicazione, che in Cina non c'è, ma lo si sapeva anche prima. E Google aveva già accettato di operare in Cina sotto censura. Poi c'è un problema di sicurezza. I cinesi entrano nei siti e nella posta altrui, ma questo lo fanno tutti i governi seri, anche quello americano. E' ovvio che, da utente, uno si fida più di un governo democratico - che ha dei limiti visibili - che di uno autoritario. Infine c'è il problema commerciale. Google ha una posizione minoritaria sul mercato cinese, diversamente che nel resto del mondo.
L'elemento chiave è però la politica interna americana: il 19 gennaio c'è la sconfitta elettorale in Massachusetts; il discorso di Hillary Clinton sulla libertà di internet è del 21 gennaio.
I cinesi l'hanno vissuto come un fulmine a ciel sereno perché non avevano capito che nei rapporti bilaterali bisogna considerare anche il problema della politica interna Usa. Tra l'altro, mentre Obama perdeva elettori a destra e sinistra, anche i cinesi si sono trovati in difficoltà: a Copenaghen si sono sentiti traditi.
Pensavano: annunciamo che abbattiamo unilateralmente le emissioni del 40%. Inoltre non chiediamo soldi per farlo. Credevano che questo li avrebbe messi in buona luce ed esentati dal controllo internazionale. Invece c'è stato lo scontro sul monitoraggio internazionale che per la Cina è un intrusione. Lì c'è stato l'inizio dello scollamento.
Quali sono invece le potenziali tappe di un riavvicinamento?
A questo punto la Cina ha capito che deve portare qualcosa al tavolo di Obama. Il primo dossier potrebbe essere la Corea del Nord. Wang Jiarui, capo del dipartimento Affari Internazionali, è partito per Pyongyang e dovrebbe tornare con la disponibilità di Kim Yong-Il a riprendere i colloqui a sei sul disarmo.
Il tono del portavoce del Ministero degli Esteri cinese Ma Zhaoxu è tornato nel frattempo molto misurato anche perché nel frattempo l'America ha rincarato la dose con la faccenda della vendita delle armi a Taiwan e la questione del Dalai Lama.
La Cina si sta affrettando a produrre qualche risultato tangibile. Se questo accade, il rapporto tra Usa e Cina potrebbe uscire rafforzato e, a ben pensarci, la Cina sarebbe forse l'unico paese ad avere offerto qualcosa di realmente concreto agli Stati Uniti.
Ci sono due appuntamenti da tenere d'occhio: Il viaggio in Cina del segretario della Difesa Usa Robert Gates, previsto tra febbraio e marzo. Non è chiaro se sia stato cancellato o no. Poi c'è il vertice di Washington sul disarmo nucleare ad aprile: bisogna vedere se Hu Jintao ci andrà.
Si capirà tutto nelle prossime settimane.
Di sicuro c'è che la diplomazia cinese sta lavorando a pieno regime. Lo dimostra tra l'altro il rilascio da parte della Corea del Nord dell'attivista americano, il missionario Robert Park, che si era introdotto clandestinamente nel paese a Natale.
Nel rapporto tra i due paesi, ci sono due punti che per il futuro della Cina mi sembrano più importanti di altri: la rivalutazione del Renminbi e il trasferimento di tecnologie verdi.
Su entrambi i punti non c'è disaccordo. La Cina ha già detto che rivaluterà la moneta, probabilmente del 10 percento entro la fine di quest'anno e poi ancora in seguito. Il problema è: quando farlo? Per Obama è un problema elettorale, per la Cina di economia interna. Significa svalutazione delle riserve, penalizzazione dell'export e arrivo di fondi speculativi che Pechino proprio non vorrebbe. Quindi la Cina sta cercando di capire quando rivalutare. Intanto sposta la data sempre un po' più in là.
Sull'altro tema, l'America ha ormai abbassato il livello di guardia e accettato di trasferire tecnologie duali (che hanno un'applicazione sia civile sia militare, ndr). C'è ovviamente il nucleare. E' inoltre già stato firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per un impianto solare avanzato. Poi turbine, impianti eolici.
Ma il punto è che si parla di grandi complessi industriali: la Cina costruirà 30 nuove centrali atomiche, ma ci vogliono vent'anni per farne una. Dal momento in cui si firmano i contratti a quando l'economia americana ne vedrà gli effetti, ci vorrà del tempo. Di nuovo, per Obama è un problema di scadenze elettorali.
Per la Cina è tuttavia più interessante comprare tecnologie dall'America, piuttosto che da altri, anche per ragioni politiche.
In che cosa Usa e Cina faticano a capirsi?
Ci sono profonde differenze culturali e paradossalmente più i due paesi si avvicinano, più le differenze vengono a galla. Ma il problema è soprattutto di tempi, per cui le agende di Cina e Usa sono diverse.
Il tempo americano è elettorale, è stretto, anche perché c'è la stampa che ti mette sotto pressione ogni giorno.
Il tempo cinese è molto più lungo. Un presidente sta al potere dieci anni e - anche se i risultati in politica estera sono importanti anche per lui - non ha scadenze elettorali. Questi tempi diversi creano condizionamenti folli. Su alcune questioni internazionali ci vogliono tempi lunghi, allora i cinesi tendono a porle fuori dall'agenda principale: l'Africa, l'America latina. Ma alcuni dossier - Afghanistan, Iran, Corea del Nord - sono al centro dell'attenzione e l'America chiede risultati immediati.
Nel dossier Afghanistan che c'entra la Cina?
I cinesi sono proprietari di concessioni minerarie in Afghanistan. Come mai? Perché nessun altro voleva prenderle. La sicurezza di questi siti è garantita da esercito afghano e Nato che ora chiedono alla Cina una collaborazione.
Non solo. L'America ha chiesto alla Cina di sfruttare il suo accesso all'Afghanistan attraverso lo Xinjiang, una vecchia strada che fu già utilizzata dagli Usa per rifornire i mujaheddin durante la guerra contro l'Urss. Allora i rifornimenti arrivavano soprattutto dal Pakistan ma, storia poco nota, anche dalla Cina. Quindi la Cina c'è già in qualche modo implicata.
Qual è il sentimento diffuso nella società cinese verso l'America di Obama?
Oggi discutevo con un imprenditore cinese che mi diceva: "Ma perché gli americani ci danno così fastidio sul nulla?"
L'uomo della strada se ne frega del dissidente Liu Xiaobo.
Sull'esecuzione di Shaikh è d'accordo con la condanna. Dice: "C'è la pena di morte per traffico di droga, la applicano con noi, perché non dovrebbero applicarla con uno straniero?".
Su Copenaghen i cinesi sono d'accordo con il loro governo e su Google sono generalmente utenti di Baidu. Sanno che il governo entra nelle mail, ma non si fidano di altri governi più che del loro. Noi occidentali siamo più portati a schierarci con Google, loro sono scettici nei confronti di tutti.
Le armi a Taiwan e il Dalai Lama sono invece argomenti che infiammano il sentimento nazional-patriottico della Cina. Il concetto è: "Gli americani sono stupidi a crearci sempre problemi. Sai che c'è? Tu vendi armi a Taiwan e io le vendo all'Iran".
Quindi in realtà il governo è più disposto a mediare, guarda più sul lungo termine, rispetto a un'opinione pubblica già abbastanza infervorata.
E la Cina va all'arrembaggio del capitalismo americano
di Federico Rampini - La Repubblica - 10 Febbraio 2010
Da Pechino 10 miliardi di investimenti a Wall Street Il Fondo sovrano Cic diversifica i suoi investimenti in Bond del Tesoro statunitense
La Cina ha deciso di non nascondere nulla: almeno per quanto riguarda i suoi investimenti a Wall Street. In un´operazione-trasparenza, il fondo sovrano della Repubblica Popolare – China Investment Corporation (Cic) – ha pubblicato la lista di tutte la partecipazioni azionarie che ha comprato nella Borsa Usa.
Ne viene fuori una mappa significativa della penetrazione del governo di Pechino nei più bei nomi del capitalismo americano. Al primo posto le banche: Morgan Stanley, Bank of America e Citigroup. Ma anche gruppi che producono beni di largo consumo: dalla Motorola (telefonini) alla Coca Cola, da Johnson&Johnson (prodotti per la casa e cosmesi) alle carte di credito Visa. In tutto sono 9,6 miliardi di dollari di acquisizioni compiute fino al 31 dicembre dell´anno scorso.
Pochi spiccioli, in realtà, rispetto ai mezzi finanziari di cui dispone la Cic. Il fondo sovrano ha una dotazione di 300 miliardi di dollari, una parte dei quali sono investiti nel capitale di aziende cinesi (soprattutto banche), il resto in titoli del debito pubblico americano o altre obbligazioni semi-pubbliche (incluse quelle emesse da Fannie Mae, il gigante dei mutui immobiliari). Ma è proprio l´eccessiva esposizione verso i Treasury Bond ad avere innescato un inizio di diversificazione in favore delle azioni.
A più riprese l´anno scorso il premier cinese Wen Jiabao ha espresso il timore che la montagna di debito pubblico americano finisca per essere "deprezzata" in una spirale di inflazione futura. Le partecipazioni nel capitale di società quotate possono rappresentare un´alternativa, se l´andamento della Borsa fa da scudo contro l´inflazione. In passato però erano stati gli americani a elevare barriere contro la penetrazione cinese nelle loro aziende.
Il caso più importante fu nel 2006 il veto politico di Washington contro l´ingresso di Pechino nella Cnooc, una compagnia petrolifera californiana. Oggi forse l´Amministrazione Obama non potrebbe permettersi un gesto analogo: la Cina è diventata il suo principale creditore, grazie ai 2.300 miliardi di dollari di riserve valutarie controllate dalla sua banca centrale. Gli stessi dirigenti cinesi però sembrano avere voluto prevenire i sospetti degli Stati Uniti.
L´operazione-trasparenza compiuta con la pubblicazione del portafoglio azionario della Cic forse sarebbe stata evitabile: altri fondi sovrani stranieri riescono a sottrarsi. La Cic invece ha preferito dare prova del massimo rispetto delle regole. I dirigenti del fondo cinese hanno compilato nei dettagli il modulo 13F della Securities and Exchange Commission (Sec), l´autorità di vigilanza sulla Borsa.
Morgan Stanley vi figura come la partecipazione più importante (1,7 miliardi di dollari), seguita da Blackrock (650 milioni). Alcuni di questi investimenti risalgono al 2007 e furono decisi poco prima che Wall Street crollasse per il crac della Lehman. All´epoca lo scarso tempismo della Cic provocò dure polemiche in Cina.
I dirigenti del fondo sovrano furono accusati di avere sperperato denaro pubblico per venire in aiuto alle grandi banche americane, e di aver fatto degli investimenti dissennati comprando le azioni ai massimi. In seguito però il fondo sovrano ha continuato a comprare, nel corso del 2008 e 2009, approfittando della caduta delle Borse: così oggi molti dei suoi investimenti risultano in attivo.
Non è comunque la grande industria americana il suo bersaglio prioritario. Tra gli investimenti azionari della Cic al primo posto figura (per 3,5 miliardi) il gruppo canadese Teck Resources, un colosso del settore minerario. Energia, materie prime e risorse naturali sono gli obiettivi privilegiati per "riciclare" la ricchezza che la Cina ha accumulato con i suoi attivi commerciali verso il resto del mondo.
Traduzione di Alessandro Lattanzio per www.eurasia-rivista.org
Il nuovo segretario generale della Shanghai Cooperation Organization (SCO), Muratbek Sansyzbayevich Imanaliev, ha detto in una conferenza stampa a Pechino, all’inizio di questa settimana, che il conflitto in Afghanistan e l‘ampliamento dei membri della SCO, volto a includere l’Iran e il Pakistan, sono i temi in cima all’ordine del giorno della SCO nel 2010.
Certo, questi problemi, probabilmente, domineranno la preparazione per il vertice annuale della SCO, che avrà luogo a Tashkent, in Uzbekistan, nella prossima estate.
La SCO è stata fondata nel 2001 da sei membri originali: Russia e Cina, insieme con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.
Formalmente la SCO è stata creata per istituzionalizzare la cooperazione, tra i soci fondatori, nella sicurezza dei confini, nell’antiterrorismo e nella lotta contro estremisti e l’attivismo separatista, come pure per la cooperazione economica.
Più in generale, la SCO si è affermata come un fattore sempre più importante negli affari dell’Asia centrale, nelle relazioni sino-russe, e la formazione di una “coalizione” internazionale, liberamente organizzata intorno a Pechino e Mosca – in opposizione a quello che, i suoi membri, ritengono l’eccessivo unilateralismo degli Stati Uniti.
Nel 2004, la Mongolia è diventata il primo stato a ricevere lo status di osservatore nella SCO; nel 2005, anche Iran, India e Pakistan, è stato concesso lo status di osservatore nella SCO. Se si comprendono le popolazioni e l’estensione territoriale dei quattro stati osservatori, insieme a quelli dei sei membri del nucleo, la SCO è diventata la più grande organizzazione per la sicurezza regionale, in termini di numero di persone e di quantità di territorio coperto.
Tra le altre cose, l’inclusione di Iran, India e Pakistan, in qualità di osservatori espande in modo significativo, il latente ma già considerevole potenziale della SCO nell’esercitare influenza sullo sviluppo e la commercializzazione del petrolio e del gas dell’Asia centrale.
Negli ultimi tre anni, la Russia ha spinto affinché l’Iran abbia riconosciuta una piena adesione della SCO. La Cina ha continuamente resistito a questa spinta. In pubblico, i funzionari cinesi dicono solo che il problema deve essere studiato, mentre un meccanismo formale, attraverso il quale la SCO può adottare nuovi membri, non esiste ancora.
In privato, i funzionari cinesi dicono che l’Iran cambierebbe la natura e la funzione della SCO in modo importante. In particolare, l’adesione iraniana renderebbe più difficile per Pechino insistere, come fa regolarmente, che la SCO non sia un’alleanza diretta contro un qualsiasi paese specifico, ad esempio gli Stati Uniti.
Non è chiaro se Pechino sia pronta a sostenere la piena adesione per l’Iran della SCO. Ma, come Andrei Ibanov, un analista russo, ha scritto questa settimana sul China Global Times, Pechino ha incrementato la sua posizione strategica “consentendole un ruolo più diretto, nel sostenere, più velocemente che mai, i suoi interessi nazionali”.
E, come abbiamo sottolineato più volte su questo blog e altrove, mentre dal 2007 la Cina è diventata più decisa nel sostenere i propri interessi percepiti nei confronti dell’Iran, anche la pressione degli Stati Uniti su Pechino, per adottare una linea dura contro Teheran si intensifica. Ci aspettiamo sicuramente che il trend continui.
In questo contesto, sostiene Ibanov: “La mossa migliore della Cina, in particolare come leader della SCO, sarebbe quello di incoraggiare e facilitare l’accettazione dell’adesione dell’Iran nel patto, prima che un nuovo round di sanzioni sia comminato.
In questo modo, non solo si rafforzerebbe la capacità della Cina di avere accesso alle fonti di energia dell’Iran, ma frenerebbe, anche molto seriamente, qualsiasi iniziativa unilaterale, che siano sanzioni o missili puntati, contro l’Iran e le sue installazioni nucleari.”
Due anni fa, un generale dell’intelligence dell’Esercito Popolare di Liberazione ci ha detto, a Pechino, che la Cina sarebbe d’accordo per la piena adesione iraniana nella SCO, “solo se gli Stati Uniti forzassero la mano”.
Dato l’antagonismo gratuito verso la Cina dell’amministrazione Obama, oltre l’Iran ance su altre questioni, sarà interessante vedere se Pechino sarà più aperta alla prospettiva di adesione completo alla SCO della Repubblica islamica.
Sull’approccio dell’amministrazione Obama verso la Cina, siamo stati sorpresi dal trovarci seriamente d’accordo con un recente articolo pubblicato a questo proposito sul The Wall Street Journal da George Gilder, un intellettuale caro ai repubblicani conservatori e neo-conservatore per molti anni. Non siamo d’accordo con Gilder su molti argomenti, con particolare riguardo al Medio Oriente. Ma il suo saggio, dal titolo “Perché inimicarsi la Cina?”, contiene brani di vera comprensione:
‘E’ iniziato lo scorso giugno, a Pechino, quando il segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner si mise a concionare il premier cinese Wen Jiaboa, tanto che apparve come un uomo messo alle stretta da un chiacchierone al cocktail party. Mr. Geithner arringava i cinesi sulla … necessità della svalutazione della moneta cinese; è difficile immaginare riuscire a persuadere i possessori cinesi di un trilione di dollari di riserve.
Questa settimana, in un incontro con i democratici al Senato, il presidente Obama ha continuato a preoccuparsi per il dollaro troppo forte verso lo yuan, in un momento in cui la maggior parte degli investitori del mondo teme che la Cina agisca per le sue parole e faccia collassare il dollaro…
Sì, i cinesi sono inutilmente aggressivi nel dispiegamento di missili contro Taiwan, ma non vi è assolutamente alcuna prospettiva di una riuscita difesa di quel paese da parte degli Stati Uniti. Mandargli 6 miliardi dollari di nuove armi è una provocazione inutile verso la Cina, e che non ha nessun valore per la difesa del Stati Uniti o Taiwan…
[Ma] una politica estera di gente seria, in un momento di crisi, si renderà conto che l’attuale regime cinese è il migliore che possiamo aspettarci da questo paese. La rivitalizzazione del capitalismo asiatico cinese rimane il più importante evento positivo nel mondo, degli scorso 30 anni.
Non solo ha portato un miliardo di persone fuori dalla miseria e dall’oppressione, ma ha trasformato la Cina da un nemico comunista degli Stati Uniti, in un partner capitalista ormai indispensabile. E’ ironico che i liberali, che una volta hanno accolto con favore la pacificazione del mostruoso regime di Mao Zedong, oggi siano apertamente bellicosi per i vari episodi oscuri di hacking su Internet…
Gli Stati Uniti sono dipendente dalla Cina per la loro salute economica e militare, come la crescita economica della Cina dipende dagli Stati Uniti per i suoi mercati chiave, la riserva finanziaria e il regime capitalista globale degli scambi.
E una follia auto-distruttiva, sacrificare questa sinergia, al centro del capitalismo globale, al fine di ottenere concessioni sul riscaldamento globale, l’indebolimento del dollaro o la politica di Internet.
Di quanti nemici abbiamo bisogno?’
Quanti davvero. Questo blog è, per molti aspetti, dedicato alla tesi secondo cui gli Stati Uniti non hanno bisogno che la Repubblica islamica sia un nemico.
E’ un segnale inquietante di quanto fuori strada sia andata la politica estera dell’amministrazione di Obama, tanto che sia i Leverett che George Gilder sentono il dovere di sottolineare quanto possa essere pericoloso, per gli Stati Uniti, fare della Cina un nemico.