Pensando l'impensabile: che succederà se la Cina svaluta il renminbi?
di Marshall Auerback* - www.nakedcapitalism.com - 18 Febbraio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri
Secondo il luogo comune per i Cinesi sarebbe ora (ovvero lo è già da tempo) di rivalutare la loro moneta, il Renminbi. Per esempio, una recente relazione della Goldman sostiene che la Cina aumenterà il valore del RMB contro il dollaro del 5% quest’anno. La teoria è che questa mossa sarebbe necessaria a rallentare un surriscaldamento dell’economia.
Ma in grande misura, essere o meno d’accordo se questo è un rimedio, dipende dall’interpretazione individuale non solo delle statistiche notoriamente fuorvianti della Cina, ma delle dinamiche fondamentali della crescita, che sono fuori da qualsiasi altro schema precedente, e non in modo positivo.
Ci domandiamo se una rivalutazione sia la risposta giusta per la Cina, e più importante, se gli stessi Cinesi vedano una rivalutazione come una cosa positiva. Il governo ha ingegnerizzato un enorme aumento del denaro [in circolazione] e del credito nell’anno passato. Infatti, sembra che ammonti ad una crescita di credito pari a 5 anni di crescita nella precedente “bolla” cinese. L’aumento del denaro e del credito è talmente grande e improvviso che si tende ad avere un aumento dell’inflazione piuttosto rapidamente, persino se ci sono risorse sottoutilizzate. Si aggiunga a questo il fatto che la Cina sta dando simultaneamente un impulso fiscale massiccio.
Questa combinazione è la ricetta per una situazione molto confusa. Se la Cina cerca di sostenere la domanda attraverso una politica fiscale, il risultato sarà probabilmente un grosso problema di inflazione. I numerosi studenti cinesi che fanno ritorno in patria imbevuti della teoria monetaria della scuola di Chicago e che assumono posizioni di autorità, potrebbero fare pressione in favore di uno sforzo aggressivo, stile Paul Volcker, per fermare l’inflazione.
E se non lo facessero? L’inflazione può decollare e poi iniziare ad ERODERE la competitività delle esportazioni cinesi. Nouriel Rubini ha indicato questa questione nel 2007: se la Cina non rivalutasse la propria moneta, l’inflazione produrrebbe comunque lo stesso effetto. Un tasso di inflazione persistentemente alto in relazione ai suoi partner commerciali spingerebbe il prezzo della merce a salire in termini di valuta nazionale, cosa che a sua volta, si tradurrebbe in prezzi di esportazione più alti.
Questa potrebbe essere la vera ragione per cui la Cina è così reticente a rivalutare la propria valuta. Gli Americani potrebbero diventare pazzi se i Cinesi svalutassero [la propria moneta], ma se l’inflazione fosse abbastanza elevata, potrebbero essere costretti a farlo, dato che eroderebbe gravemente i loro termini di vendita, causando il crollo del settore dei beni di scambio.
Oppure [sarebbe] il trionfo dei monetaristi di linea dura contro l’inflazione, e il risultato sarebbero le sommosse mentre aumenta la disoccupazione.
La situazione potrebbe farsi davvero brutta.
Questo potrebbe succedere ora in Cina, anche se è l’opposto delle opinioni che prevalgono. Il consenso è che l’inflazione sia intorno al due per cento e che persino questo è dovuto in gran parte ai prezzi più alti della carne di maiale, grazie ad un pessimo raccolto di mais.
Tuttavia, gli economisti come quelli di Lombard Street, nel Regno Unito, Jim Walzer, Simon Hunt e via dicendo, cercano di comprendere i cambiamenti di trimestre in trimestre del PIL nominale cinese, che viene riportato solo di anno in anno. E hanno calcolato tassi di crescita giganteschi a due cifre per la seconda parte dello scorso anno.
Ora questo è complicato dal fatto che i Cinesi hanno rivisto e corretto le loro cifre sul PIL, e mettono tutte le revisioni nel trimestre finale dell’anno. Ma [anche] quando questi analisti cercano di aggiustare un tale casino statistico calcolano aumenti giganteschi del PIL nominale. Lombard Street crede che fosse intorno al venticinque per cento nella seconda metà dell’anno scorso. Credono che fosse venti per cento reale, e cinque per cento inflazione.
Le economie di qualunque dimensione non crescono mai ad un tasso reale del venti per cento. E Simon Hunt dice che se si considerano le variabili sostitutive come la produzione energetica e il traffico ferroviario non si ottengono quei generi di cifre per la crescita reale, cosa che suggerirebbe che l’inflazione debba essere più alta del quattro o cinque per cento. In generale, se una cifra di PIL reale sembra sospetta, la prima cifra che si esamina criticamente è il deflatore del PIL.
Ma alcune prove suggeriscono che l’inflazione cinese potrebbe già essere a livelli di numeri a due cifre. Difficile da dirsi. Ma se è così alta, allora l’inflazione risultante causerà una reale rivalutazione dei tassi di cambio commerciali ponderati.
E ancor di più se si riprendesse il dollaro. Ciò potrebbe facilmente schiacciare il volume delle esportazioni e la redditività del settore industriale dei prodotti di scambio.
Le esportazioni sono l’unica area in cui la Cina faccia alcun profitto, perché possono vendere questi prodotti ad un prezzo 10 volte maggiore di quello che otterrebbero per un simile prodotto nell’economia nazionale (dove i profitti sono letteralmente zero).
Il settore delle esportazioni contribuisce fortemente al generale investimento fisso super-eccessivo in Cina. Una rivalutazione del dollaro vuol dire che l’investimento diretto estero andrà allo zero netto.
Ci saranno forti pressioni per una riduzione dell’investimento fisso in questo grande settore. Pertanto ci sono buone probabilità che persino senza contrazioni monetarie da parte delle autorità cinesi, il generale “boom” dell’investimento fisso in Cina si ridurrà.
Nessuno pensa a questo scenario, ma è una reale possibilità. E con l’investimento fisso ora al cinquanta per cento del PIL (senza precedenti in nessuna economia) e le esportazioni a oltre il trenta, abbiamo a che fare con rapporti mai raggiunti prima in combinazione.
Prima che i lettori controbattano che la Cina può sostenere un tale livello di investimento, consideriamo le opinioni del professor Yu Yongding, considerato da alcuni analisti come il miglior macroeconomista cinese. Come riportato dal Sydney Morning Herald:
Yu, ex direttore recentemente andato in pensione dell’Istituto di Economia e Politica Mondiale presso l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, non ha detto espressamente che stessi parlando come un pazzo. Ma la sua e-mail continuava così: “quando un paese ha un tasso di investimento superiore al 50 per cento del PIL, e in crescita, dici che tale paese non soffre di sovreccedenza della capacità produttiva! … dici sul serio? per giudicare se c’è o meno una sovreccedenza della capacità produttiva non si può fare solo un resoconto delle teste. Con una popolazione di 1,3 miliardi [di persone] e l’avidità umana, le necessità della Cina sono illimitate, si potrebbe dire che la Cina non soffrirà mai di sovreccedenza produttiva!”
La e-mail notava che secondo la mia logica, nessun paese in via di sviluppo potrebbe mai soffrire di sovreccedenza della capacità produttiva finché non diventasse ricco e che il mondo non avrebbe mai dovuto avere la Grande Depressione del 1929.
Da quella salutare critica, Yu ha ulteriormente elaborato le sue vedute.
Crede che la Cina sia intrappolata in un circolo in cui la crescita costantemente in aumento dell’investimento accresce costantemente la produzione cinese, ma in modo spiccato il consumo non è cresciuto abbastanza velocemente da assorbirla. Quindi la Cina è costretta ad aumentare l’investimento per poter fornire una domanda sufficiente per assorbire il precedente aumento dell’offerta, creando quindi circoli sempre più grandi di offerta eccedente.
In questa maniera la quota dell’investimento del prodotto interno lordo è aumentata da un quarto del PIL nel 2001 ad almeno la metà. “C’è una specie di rincorsa – la domanda che rincorre l’offerta e poi più domanda è necessaria per tener testa a più offerta,” dice “questo ovviamente è un processo insostenibile”.
A partire dal 2005 il problema della capacità produttiva sovreccedente della Cina è stato “mascherato” incrementando come mai prima le esportazioni nette – ma questa strategia è stata interrotta dalla crisi finanziaria. Poi è arrivata l’abbuffata senza precedenti al mondo di investimento-stimolato dell’anno scorso, che non sarebbe poi stata così preoccupante se avesse portato le cose di cui la gente ha bisogno. Ma la mano del governo nella destinazione delle risorse si è fatta più pesante dal momento della crisi senza riforme che rendano i funzionari più responsabili per quello che spendono.
“Come risultato delle disposizioni istituzionali in Cina, i governi locali hanno un appetito insaziabile per i grandiosi progetti di investimento e per la destinazione subottimale delle risorse,” come ha detto in precedenza Yu nella sua Richard Snape lecture per la Productivity Commission di novembre.
Quindi ci sono ora aeroporti senza città, autostrade e ferrovie ad alta velocità che corrono parallele e città dove i contadini costruiscono case per nessun altra ragione se non per demolirle nuovamente, perché sanno che riceveranno un risarcimento superiore quando il governo locale inevitabilmente esproprierà i loro terreni.
La e-mail notava che secondo la mia logica, nessun paese in via di sviluppo potrebbe mai soffrire di sovreccedenza della capacità produttiva finché non diventasse ricco e che il mondo non avrebbe mai dovuto avere la Grande Depressione del 1929.
Da quella salutare critica, Yu ha ulteriormente elaborato le sue vedute.
Crede che la Cina sia intrappolata in un circolo in cui la crescita costantemente in aumento dell’investimento accresce costantemente la produzione cinese, ma in modo spiccato il consumo non è cresciuto abbastanza velocemente da assorbirla. Quindi la Cina è costretta ad aumentare l’investimento per poter fornire una domanda sufficiente per assorbire il precedente aumento dell’offerta, creando quindi circoli sempre più grandi di offerta eccedente.
In questa maniera la quota dell’investimento del prodotto interno lordo è aumentata da un quarto del PIL nel 2001 ad almeno la metà. “C’è una specie di rincorsa – la domanda che rincorre l’offerta e poi più domanda è necessaria per tener testa a più offerta,” dice “questo ovviamente è un processo insostenibile”.
A partire dal 2005 il problema della capacità produttiva sovreccedente della Cina è stato “mascherato” incrementando come mai prima le esportazioni nette – ma questa strategia è stata interrotta dalla crisi finanziaria. Poi è arrivata l’abbuffata senza precedenti al mondo di investimento-stimolato dell’anno scorso, che non sarebbe poi stata così preoccupante se avesse portato le cose di cui la gente ha bisogno. Ma la mano del governo nella destinazione delle risorse si è fatta più pesante dal momento della crisi senza riforme che rendano i funzionari più responsabili per quello che spendono.
“Come risultato delle disposizioni istituzionali in Cina, i governi locali hanno un appetito insaziabile per i grandiosi progetti di investimento e per la destinazione subottimale delle risorse,” come ha detto in precedenza Yu nella sua Richard Snape lecture per la Productivity Commission di novembre.
Quindi ci sono ora aeroporti senza città, autostrade e ferrovie ad alta velocità che corrono parallele e città dove i contadini costruiscono case per nessun altra ragione se non per demolirle nuovamente, perché sanno che riceveranno un risarcimento superiore quando il governo locale inevitabilmente esproprierà i loro terreni.
La riduzione dell’investimento e delle esportazioni potrebbe creare una grave recessione in Cina. La Cina è andata troppo oltre questa volta. Sembrano essere dentro una scatola che nessun altro riesce a vedere. L’evento stile “cigno nero” quest’anno, per quanto concerne i veri credenti della Cina, potrebbe essere una svalutazione del renminbi. Se ciò dovesse accadere, le conseguenze politiche sarebbero altrettanto importanti di quelle economiche.
* Marshall Auerback è un fund manager e stratega degli investimenti che scrive per New Deal 2.0 e Yves Smith.
Cina o Usa: quale delle due sarà l'ultima nazione a restare in piedi?
di Richard Heinberg - www.postcarbon.org - 3 Febbraio 2010
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Oriana Bonan
Che scemo. Pensavo che i leader mondiali volessero impedire il collasso delle proprie nazioni. Di sicuro sono intenti a lavorare sodo per evitare il collasso della valuta, il collasso del sistema finanziario, il collasso del sistema alimentare, il collasso sociale, il collasso ambientale e l’insorgenza di una miseria generale e travolgente… Giusto? No.
L’evidenza ci suggerisce tutt’altro. Sempre di più, sono costretto a concludere che lo scopo del gioco giocato dai leader del mondo in realtà è non evitare il collasso; ovvero, ritardarlo per un po’, in modo che la propria nazione sia l’ultima ad affondare e la propria parte abbia l’opportunità di depredare le carcasse altrui prima di andare incontro allo stesso destino.
Lo so, suona insopportabilmente cinico. Ed infatti è possibile che questa non sia una descrizione accurata dell’atteggiamento conscio dei leader delle nazioni più piccole. Ma per gli U.S.A. e la Cina – i due Paesi che più probabilmente apriranno strada al resto del mondo – le azioni parlano più forte delle parole. (Avviso per la sanità mentale dei lettori: chi ha scarsa tolleranza alle cattive notizie dovrebbero fermarsi ora; ci sono un sacco di articoli più allegri su internet; potrebbe essere un buon momento per trovarne uno e goderselo.)
Per queste due nazioni, evitare il collasso richiederebbe la risoluzione di una serie di problemi enormi, di cui almeno quattro sono non negoziabili: il cambiamento climatico, il picco dei combustibili fossili (stagnazione e, presto, declino degli approvvigionamenti energetici), l’inerente instabilità di sistemi finanziari basati sulla crescita, e la vulnerabilità dei sistemi alimentari rispetto a fattori quali la scarsità di acqua dolce e l’erosione del suolo (in aggiunta al riscaldamento globale e alla scarsità di combustibile).
Se non si riesce a risolvere anche uno solo di questi problemi, il collasso societale sarà inevitabile, di sicuro nel giro di qualche decennio, ma forse anche solo entro pochi anni.
Allora, come vanno le cose per i nostri due concorrenti? Non molto viene detto a proposito del clima, solo vaghe promesse di azioni future. Quindi, è evidente che la strategia in questo campo è ritardare (attenzione, non ritardare gli impatti, ma piuttosto gli sforzi per affrontare il problema).
Allo stesso modo, sono poche le azioni concrete intraprese a riguardo dei sistemi alimentari: l’assunto sembra essere che l’agricoltura industriale convenzionale – responsabile della maggior parte delle enormi e crescenti vulnerabilità del sistema alimentare globale – in qualche modo si accollerà il compito di nutrire da sette a nove miliardi di essere umani.
Basta continuare a fare ciò che stiamo già facendo, ma su scala più grande e utilizzando un maggior numero di coltivazioni geneticamente modificate.
Quanto al picco di energia, esso non è riconosciuto ufficialmente, quindi la strategia adottata è la negazione del problema. Vedremo con che risultati.
E che dire del caos finanziario? Per questo aspetto, la situazione diversissima di U.S.A. e Cina giustifica una trattazione più estesa.
La Cina sale al comando!
Gli U.S.A. sono indebitati fino al collo e, per salvare banche “troppo grandi per fallire”, hanno ipotecato il salario delle generazioni future, più o meno fino a quando l’inferno non si sarà congelato.
Al contrario, la Cina ha pile e pile di danaro liquido (risultato dei suoi enormi surplus commerciali) e, per evitare che la valuta dei suo principale cliente perdesse valore, si è comprata una bella fetta del debito statunitense.
In questo ambito, sembra proprio che una nazione sia sul punto di scemare, mentre l’altra è pronta fare un balzo per raggiungere il primo posto come superpotenza economica mondiale.
Si dà il caso che questo sia un giudizio convenzionale sull’argomento. Non è difficile trovare commentatori che affermino che gli Stati Uniti, per diverse ragioni, sono una potenza del passato.
Oltre all’enorme fardello del debito, soffrono di una progressiva riduzione della base manifatturiera, di un notevole disavanzo commerciale, dell’erosione della qualità dell’educazione, e di una politica estera che, mentre serve gli interessi dei produttori di armamenti, mina gli interessi a lungo termine di tutta la nazione.
A questo proposito, un sondaggio di opinione condotto da World Public Opinion nel 2006 ha evidenziato che, in quattro importanti nazioni alleate (Egitto, Marocco, Pakistan e Indonesia) che insieme rappresentano un terzo dei musulmani del mondo, la maggior parte della popolazione ritiene che gli U.S.A. siano decisi ad insidiare o distruggere l’Islam.
In questi Paesi, la maggioranza degli intervistati appoggia eventuali attacchi a bersagli americani. E si dà il caso che la maggior parte dei futuri approvvigionamenti di petrolio proverrà da nazioni musulmane. Fantastico.
Al contrario, la Cina sta vivendo una primavera anfetaminica. Attualmente è il maggiore produttore di automobili del mondo. E, secondo quanto affermato daStuart Staniford in un recente articolo zeppo di dati, “se continuano i trend attuali, entro un paio d’anni il sistema di autostrade cinesi probabilmente sarà più vasto del sistema di strade interstatali degli Stati Uniti, mentre il numero di automobili in Cina supererà quello degli U.S.A. entro il 2017”.
Oggi, nel 2010, la Cina è il maggiore produttore di energia idroelettrica e solare ed entro il 2011 sarà anche il maggiore produttore di energia eolica. L’intelligente rete di investimenti della Cina fa apparire insignificante quella statunitense, con un rapporto di 200 a 1. I Cinesi stanno investendo pesantemente anche nell’energia nucleare. Staniford prosegue scrivendo: “Semplificando moltissimo, è come se gli U.S.A. avessero preso a prestito una montagna di soldi dalla Cina per combattere una guerra il cui scopo era liberare il petrolio iracheno in modo che la Cina potesse diventare la più grande potenza industriale che il mondo abbia mai visto”.
La politica estera della Cina consiste principalmente nel comprarsi gli amici acquistando diritti su petrolio, gas, carbone e altre risorse (in Canada, Australia, Venezuela, Iraq, Kazakistan e nell’Africa intera); gli U.S.A., invece, spendono denaro che non hanno per estirpare furfanti e, nel mentre, si fanno nuovi nemici.
In una conferenza tenuta nell’ottobre 2009, George Soros ha ostentato un candore rincuorante circa la gravità della crisi finanziaria globale in corso: “La differenza [tra la recente crisi economica] e la Grande Depressione è che questa volta al sistema finanziario non è stato permesso di collassare, e lo si è messo in cura intensiva. Infatti [comunque] il problema del credito e dell’indebitamento che abbiamo oggi è di entità persino maggiore che negli anni Trenta”. Soros poi ha proseguito parlando delle rispettive posizioni di U.S.A. e Cina:
“Tutti i Paesi, nel breve termine, hanno subito conseguenze negative, ma, nel lungo termine, ci saranno vincitori e vinti. (…) Per dirla senza mezzi termini, gli U.S.A. soffriranno la perdita maggiore mentre la Cina è sul punto di emergere come il principale vincitore. (…) La Cina è stata la principale beneficiaria della globalizzazione e si è trovata in larga misura isolata rispetto alla crisi finanziaria. Per l’Occidente – e per gli U.S.A. in particolare – la crisi è stata un evento che si è generato all’interno portando al collasso del sistema finanziario. Per la Cina, invece, si è trattato di un urto proveniente dall’esterno, che, pur avendo danneggiato le esportazioni, ha lasciato incolume il sistema finanziario, politico ed economico”.
La Cina incespica!
Ma ricordate: se non si trovano soluzioni al cambiamento climatico, al picco energetico e all’incombente crisi alimentare, vincere la gara finanziaria sarà solo un’effimera consolazione. Prendiamo in considerazione anche solo l’enigma dell’energia: la Cina è in grado di costruire centrali nucleari e generatori eoloelettrici, ma non potrà mantenere a lungo un tasso di crescita annuale dell’8% se l’energia derivante dal carbone rimane invariata o diminuisce.
Sommando i progetti di Cina e India, i due Paesi hanno attualmente in programma di costruire ben 800 centrali elettriche a carbone entro il 2020. Ma dove reperiranno il combustibile? La produzione domestica di entrambi i Paesi è già deficitaria e le importazioni sono già cominciate. Ma i Paesi esportatori di carbone non saranno in grado di tenere il passo con la crescente domanda di Cina e India.
Inoltre, esiste una scuola di pensiero secondo cui l’apparentemente irrefrenabile miracolo economico della Cina non è che una bolla che sta per scoppiare. Il mercato dei beni immobili di Beijing è surriscaldato, come quello di Las Vegas attorno al 2006. L’anno scorso, il PIL cinese è cresciuto del 9%… sulla carta.
Ma per raggiungere quell’obiettivo, il governo e le banche hanno dovuto concedere prestiti per un importo pari al 30% del PIL (il tasso di crescita nei prestiti è accelerato nell’ultima parte dell’anno; ai tassi registrati alla fine dell’anno, le banche avrebbero dato a prestito una somma pari all’intero PIL nazionale previsto per il 2010). In ogni caso, probabilmente molta parte di tale crescita si è verificata attraverso speculazioni su beni immobili e azioni dubbie.
In generale, la Cina è ad uno stadio di sviluppo economico da selvaggio West: è un’accozzaglia di influenti basi di potere capitalistico locali che non devono rendere conto a nessuno, tutte intente a destreggiarsi per creare e inflazionare patrimoni e credito. Di recente, il governo centrale ha esercitato un certo controllo sulle banche, ma la sua abilità di fermare gli schemi Ponzi a livello locale è ancora limitata.
In gennaio, la commissione regolatoria bancaria cinese ha tentato di mettere un freno ai prestiti per rallentare il rapido incremento di valore dei beni immobili e del mercato delle azioni. (C’è da dire però che nello stesso mese il gabinetto cinese ha deciso di permettere operazioni di margin trading e vendite allo scoperto per lanciare un indice di futures.)
Comunque, è significativo che ci siano prove del fatto che i tentativi della banca centrale della Cina volti a deflazionare in modo innocuo le bolle dei mercati immobiliari e della borsa probabilmente non stiano funzionando.
Secondo Joe Weisenthal di Business Insider , l’improvvisa sospensione dei prestiti "ha colto di sorpresa gli importatori e molte altre società, e potrebbe causare turbolenze negli ordini di importazione della Cina. Le lettere di credito sono improvvisamente divenute indisponibili nonostante gli accordi pregressi. Crediamo che questo porterà inevitabilmente a ritardi o cancellazioni nelle importazioni della Cina.
È probabile che l’impatto maggiore riguarderà gli ordini relativi a beni di consumo e macchinari". Traduzione: il governo si è trovato di fronte ad una scelta: lasciar scoppiare una bolla in rapida crescita, affossando il mercato, oppure deflazionare deliberatamente la bolla, rischiando di affossare l’economia per un’altra strada. La banca centrale ha scelto la seconda opzione ed è possibile che tale azzardato affossamento si stia palesando ora.
Nel frattempo, Google e l’Amministrazione Obama esercitano pressioni esterne sulla Cina al fine di allentarne la censura sulle comunicazioni elettroniche; secondo alcuni, queste mosse sono da interpretare come una riduzione delle opzioni del governo centrale per controllare sia il flusso delle informazioni che l’economia.
In un recente controeditoriale, il rubricista del New York Times Tom Friedman ha ribattuto alle espressioni di preoccupazione circa l’esplosione della bolla cinese con una robusta manifestazione di fiducia nell’irrefrenabile spinta espansionistica di Beijing. Considerando il passato di Friedman (ricordate le sue rubriche nel 2003, in cui celebrava i benefici di cui l’America avrebbe goduto con un’invasione dell’Iraq?), questo è sufficiente a generare dubbi in merito ai tempi più o meno brevi del deragliamento della locomotiva cinese.
Cosa significa "Vincere"?
Nel suo Reinventing Collapse: The Soviet Example and American Prospects (‘La reinvenzione del collasso: l’esempio sovietico e le prospettive americane’), Dmitry Orlov tratta il “gap di collasso” tra Stati Uniti e vecchia Unione Sovietica: questa, egli sostiene, in effetti era molto meglio preparata alla crisi economica e alla caduta del proprio governo centrale; quando gli U.S.A., prima o poi, seguiranno la strada dell’U.R.S.S., il dolore e la sofferenza dei cittadini sarà di gran lunga maggiore. (Qui non posso riassumere in maniera adeguata le prove e i ragionamenti di Orlov, ma sono convincenti; se non avete ancora letto il libro, fatevi un regalo.)
Quindi: qual è l’attuale situazione degli U.S.A. in termini di preparazione al collasso rispetto alla Cina?
Dopo sessant’anni di crescita economica quasi ininterrotta, gli Americani hanno sviluppato aspettative per il futuro che non sono realistiche. Sono consumatori urbanizzati la cui capacità di produzione si è raggrinzita e le cui abilità pratiche di sopravvivenza sono, nella maggior parte dei casi, rudimentali.
Al contrario, i Cinesi si affacciano su un baratro molto meno ripido. La maggior parte vive ancora in campagna, e molti di quelli che vivono in città distano una sola generazione dall’agricoltura di sussistenza e sono ancora in grado di affidarsi alle competenze pratiche, proprie o dei propri genitori, acquisite durante decenni di povertà e di immersione in una cultura agricola tradizionale.
Entrambe le nazioni si trovano di fronte a feroci sfide politiche. Negli U.S.A., il governo centrale è ormai quasi completamente paralizzato: è evidentemente incapace di risolvere persino problemi relativamente minori e la fiducia risposta in esso dalla maggioranza dei cittadini è in larga misura evaporata. I leader politici sono riusciti a polarizzare geograficamente la gente con questioni che stimolano l’emotività, poche delle quali hanno a che fare con i fattori che attualmente minano la capacità di sopravvivenza della nazione.
Il governo centrale cinese sembra molto più capace di agire in modo deciso e strategico, ma deve affrontare spinose questioni geografiche e storiche: il divario economico e sociale tra le ricche città costiere e l’interno povero e rurale è estremo e crescente; ed esiste uno scisma demografico tra chi ha meno di 40 anni ed elevate aspettative economiche, e le generazioni più anziane cresciute sotto Mao, la cui etica è fondata su collettivismo e abnegazione.
I giovani, specialmente, hanno accettato lo scambio tra libertà civili e prosperità economica. Ma questa non sarà data, le prime saranno richieste con forza. Se le aspettative dovessero essere disattese, la profondità di queste divisioni sarebbe sufficiente a lacerare la società, e i leader lo sanno bene.
Quindi, nell’eventualità di un collasso, entrambe le nazioni si troverebbero di fronte alla possibilità di un crollo dei sistemi politici con conseguenti violenze diffuse (rivolte e repressioni).
La Cina continua ad essere in vantaggio in un’area cruciale: il sistema alimentare. Nonostante i recenti trend di rapida urbanizzazione, molti cittadini coltivano ancora il proprio cibo (negli U.S.A., i coltivatori a tempo pieno si aggirano attorno al 2% della popolazione e il coltivatore medio si sta avvicinando all’età pensionabile).
Ciò non implica che la Cina sarà capace di dar da mangiare a tutta la sua popolazione; sta già diventando uno dei principali importatori di prodotti alimentari. Nel frattempo, gli U.S.A. sono ancora un importante esportatore di alimenti. La principale differenza sta nella resilienza dei rispettivi sistemi: quello degli U.S.A. è più centralizzato e più dipendente dagli idrocarburi e, quindi, probabilmente più vulnerabile.
La geopolitica del collasso
è facile capire perché la preparazione al collasso è un vantaggio per la cittadinanza: meglio si è preparati e più persone sopravvivranno. Tuttavia, c’è da chiedersi se un tasso più elevato di sopravvivenza, durante e dopo il collasso, si traduca in un vantaggio geopolitico.
Il processo del collasso sarà determinato da molti fattori, alcuni dei quali difficili da prevedere, e quindi è arduo anticipare l’entità o la portata della struttura del potere politico che eventualmente riemergerà nell’uno e nell’altro Paese.
È possibile che una o entrambe le nazioni si trasformino in una serie di unità politiche più piccole in conflitto tra loro e incapaci di impegnarsi più di tanto nelle manovre globali per l’approvvigionamento delle risorse. Le nuove unità politiche emergenti all’interno degli attuali territori della Cina e degli U.S.A. sarebbero immediatamente assalite da enormi problemi pratici, tra cui povertà, fame, disastri ambientali e migrazioni di massa.
è presumibile che rimarranno intatti ed utilizzabili dei potenti armamenti dell’era della guerra globale. Quindi, in teoria, è possibile che una di queste entità politiche più piccole possa affermarsi sul palcoscenico mondiale come impero contingente e di breve durata, con una portata geografica limitata. Ma anche in quel caso “vincere” la gara del collasso sarebbe solo una piccola consolazione.
La possibilità di un conflitto armato tra le due potenze prima del collasso non può essere completamente esclusa, ad esempio, se gli sforzi statunitensi di contenere le ambizioni nucleari dell’Iran faranno scattare una mortale reazione a catena di attacchi e contrattacchi, in cui magari sia coinvolto Israele, e che costringeranno le potenze mondiali a scegliere un campo; oppure se gli U.S.A. persisteranno nell’armare Taiwan. Ma né gli U.S.A. né la Cina vogliono un confronto militare diretto, ed entrambe le nazioni sono molto motivate ad evitarlo.
Di conseguenza, fortunatamente una guerra nucleare senza esclusione di colpi – che è ancora il peggior scenario immaginabile per l’homo sapiens e il pianeta Terra – sembra improbabile, sebbene sia possibile che, in qualche caso, l’una o l’altra nazione usi queste armi nei prossimi decenni.
Le guerre commerciali sono un’altra questione e, secondo Michael Pettis (Financial Times) , potremmo persino assistere ad una di queste guerre nel corso di quest’anno:
“(…) gli squilibri commerciali sono più necessari che mai a giustificare l’aumento degli investimenti in Paesi con surplus [cioè la Cina], ma la crescente disoccupazione li rende politicamente ed economicamente inaccettabili nei Paesi in deficit [cioè gli U.S.A.]. L’aumento del risparmio negli U.S.A. si scontrerà con il risparmio ostinatamente alto in Cina. A meno che non si elabori immediatamente una soluzione congiunta a lungo termine, il conflitto commerciale peggiorerà e sarà sempre più difficile invertire le politiche offensive. Aspetto ancora più importante, se i Paesi deficitari esigeranno un cambiamento strutturale più veloce di quanto i Paesi in surplus possano gestire, finiremo quasi certamente con un’orrenda controversia commerciale che (…) avvelenerà le relazioni per anni”.
Quanto probabile è la prospettiva che l’ultima nazione in piedi possa – come mi sono espresso nel primo paragrafo – “depredare le carcasse” dei propri concorrenti? Un simile scenario presuppone che tale nazione possa rimanere in piedi per almeno qualche anno dopo la caduta delle altre. Ma forse questo non è possibile. Si ricordino le parole profetiche di Joseph Tainter in The Collapse of Complex Societies (‘Il collasso delle società complesse’, 1988):
"Una nazione oggi non può più collassare in maniera unilaterale perché se un qualsiasi governo nazionale si disintegra, la sua popolazione e il suo territorio sono assorbiti da un'altra nazione [o sono salvati da agenzie internazioni] (…) Questa volta il collasso, se e quando si verificherà di nuovo, sarà globale. Non è più possibile che una qualsiasi nazione singola collassi."
Quando l’U.R.S.S. è crollata, gli U.S.A. e diverse multinazionali hanno potuto fare incursioni e divorare un po’ dei tesori rimasti in giro. Un esempio: da molti anni il combustibile usato dalle centrali nucleari statunitensi è uranio cannibalizzato dalle vecchie testate missilistiche sovietiche.
Subito dopo, alcuni istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale contribuirono presto ad organizzare nuove strutture finanziarie in Russia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Estonia e negli altri Paesi sorti dalla disintegrazione politica ed economica sovietica, così da limitare e invertire il processo di disintegrazione sociale che era già cominciato.
Ma ora il gioco è cambiato. Un collasso degli U.S.A. devasterebbe la Cina. Beijing perderebbe il suo cliente principale. Non solo. I buoni del tesoro accumulati per centinaia di miliardi di dollari diverrebbero privi di valore.
Se la Cina fosse stabile internamente, sarebbe possibile assorbire un tale urto, seppure con qualche difficoltà. Ma alla luce dei problemi sociali e finanziari che ribollono in Cina, un collasso degli U.S.A. sarebbe quasi certamente sufficiente a gettare l’economia di Beijing in un vortice che originerebbe crisi sia sociali sia politiche.
Un collasso della Cina devasterebbe gli U.S.A. in modo simile. Ovviamente, la perdita di una fonte di prodotti di consumo a basso prezzo sconcerterebbe i clienti di WalMart, ma lo shock andrebbe molto più a fondo. Il Tesoro perderebbe il principale acquirente straniero del debito governativo, per cui la FED sarebbe costretta ad intervenire monetizzando il debito (in parole povere, dovrebbe “accendere le stampatrici della zecca”), compromettendo quindi il valore del dollaro.
Il risultato: un crollo economico iperinflazionario. Un tale crollo, comunque, è probabilmente inevitabile a un certo punto, ma sarebbe velocizzato e aggravato da un eventuale collasso del sistema cinese.
In ogni caso, le istituzioni internazionali mondiali non sarebbero capaci di prevenire le sostanziali ricadute sociali e politiche. E l’ultima nazione a restare in piedi non resterebbe in piedi a lungo. Abbiamo raggiunto la fase in cui, come afferma Tainter, “la civiltà mondiale si disintegrerà nella sua totalità".
La maratona della transizione
Ok. I leader statunitensi e cinesi non stanno facendo nessun serio sforzo per evitare il collasso nel lungo termine (vale a dire, nei prossimi 10-20 anni). Forse la ragione è che sono giunti alla conclusione che sia un’impresa impossibile; troppi trend portano nella stessa direzione, e in effetti gestirne di petto uno qualsiasi comporterebbe enormi rischi politici nell’immediato.
In realtà, comunque, è molto più probabile che i leader stiano semplicemente rifiutando l’idea di riflettere seriamente su questi trend e sulle loro implicazioni, perché dispongono di un’alternativa: posporre il collasso mediante spesa in disavanzo, salvataggi, e ulteriori bolle finanziarie, mentre recitano la propria parte nel teatrino kabuki delle politiche sul clima e si dedicano alla geopolitica delle risorse.
In questo modo, almeno, il biasimo cadrà sulla prossima generazione di leader. Posticipare il collasso è di per sé un grosso lavoro, sufficiente a far sì che tutta l’attenzione sia dirottata altrove rispetto alla contemplazione della natura terribile e inevitabile di ciò che si sta posticipando.
Ma il rischio di dissoluzione è in qualche modo ridotto da questi sforzi a breve termine? Mhm, difficile che sia così. Infatti, più si ritarda la resa dei conti, e peggiore sarà.
Piuttosto che tentare di ritardare l’inevitabile, avrebbe più senso, semplicemente, costruire resilienza in tutta la società e rilocalizzare i sistemi sociali essenziali concernenti il cibo, la produzione e la finanza.
Non c’è bisogno di ripetere il discorso corrente su questa strategia: i lettori che non lo conoscono possono trovare consigli in abbondanza su www.transitiontowns.org , o nei libri e negli articoli di autori quali Rob Hopkins, Albert Bates, David Holmgren, Pat Murphy, e Sharon Astyk (e anche in qualche mio scritto, ad esempio Museletter #192 ).
Comprensibilmente, per i politici nazionali è difficile pensare lungo queste linee. Costruire la resilienza societale significa trascurare i dettami dell’efficienza economica; significa ridurre sistematicamente il governo centrale e le istituzioni commerciali nazionali/globali (banche e corporation). Significa anche mettere in discussione il dogma centrale del nostro mondo moderno: l’efficacia e possibilità di una crescita economica senza fine.
Quindi, l’esito migliore risiede in una strategia di resilienza e rilocalizzazione, ma i nostri leader nazionali non possono neppure contemplare una tale strategia, il che significa che quei leader sono, almeno in un certo senso, irrilevanti per il nostro futuro.
Alcuni lettori sono così in sintonia con questa linea di pensiero da ritenere che non abbia più senso prestare attenzione alla scena globale. È persino possibile che ritengano che questo articolo sia una perdita di tempo (mi aspetto di ricevere un paio di e-mail in tal senso).
Ma seguire gli eventi mondiali è più che una questione di informazione-intrattenimento: quando e come la Cina e gli U.S.A. si sfasceranno è un problema con conseguenze molto maggiori che se il Superbowl sarà vinto dai Saints di New Orleans o dai Colts di Indianapolis.
La realtà è che nessuna nazione, nessuna comunità, sarà in grado di proteggere se stessa dai venti improvvisi e violenti che riempiranno rapidamente il vuoto lasciato dall’implosione dell’una o dell’altra superpotenza.
A proposito, mi scuso con le altre 190 nazioni circa del mondo, grandi e piccole: il fatto che in questa discussione mi concentri su U.S.A. e Cina non significa che gli altri Paesi siano privi di importanza, o che i loro destini non saranno unici quanto le loro culture e le loro geografie; è solo che, probabilmente, i loro destini si dispiegheranno nel contesto del collasso globale che si diffonderà dalle due nazioni di cui stiamo parlando.
Per qualsiasi nazione – l’India, la Bolivia, la Russia, il Brasile, il Sudafrica – e per qualsiasi comunità o famiglia, la sopravvivenza richiederà un certo grado di comprensione della direzione presa dai grandi eventi, per riuscire a togliersi di mezzo quando voleranno i detriti e saper individuare in anticipo le opportunità per riorganizzarsi.
Quindi, prestate attenzione ai bollettini meteorologici da Washington e Beijing e nel frattempo costruite la resilienza locale ovunque vi troviate. Se il tetto ha bisogno di essere riparato, non cincischiate.
Nel frattempo, dopo una lunga giornata trascorsa ad organizzare gli orti collettivi della Transizione, potreste voler pregustare l’America del post-collasso leggendo A World Made by Hand (‘Un mondo fatto a mano’) di James Howard Kunstler; o assaporare trattazioni piacevolmente erudite del collasso visto come un processo esteso (come probabilmente sarà) o come evento improvviso ed estremo, leggendo i libri di John Michael Greer The Long Descent (‘La lunga discesa’) e The Ecotechnic Future (‘Il futuro ecotecnico’).
Anche se il cielo sta per caderci sulla testa, non vuol dire che sia ora di smettere di pensare.