lunedì 23 marzo 2009

La crisi dei giornali mainstream e le incognite per l'informazione alternativa online

Qui di seguito alcuni articoli che sottolineano quanto la carta stampata mainstream sia ormai in crisi profonda - dal punto di vista economico ma soprattutto sui contenuti - data la consolidata e vergognosa complicità tra giornalisti e potere politico-economico.

Ma anche l'informazione alternativa online deve attrezzarsi in tempo per evitare di cadere anch'essa nel vortice distruttivo scatenato dal rapporto incestuoso tra sostentamento economico e indipendenza dell'informazione.

Gli anticorpi vanno constantemente rafforzati.


Crollano i giornali. È l’alba di Beppe Grillo o della P2?
di Pino Cabras - Megachip - 20 Marzo 2009

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.

Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi - che però ancora facevano massa critica - per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali - molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l'analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All'opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato - gradualmente ma inesorabilmente - la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l'altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira - quella vera, non gli sfottò - che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L'esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo.

Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un'impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato.

Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l'impresa e la libertà d'intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l'insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un'idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E' un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell'ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l'ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l'unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall'impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze.



È la stampa, bellezza!
di Peter Gomez -
www.voglioscendere.ilcannocchiale.it - 22 Marzo 2009

Brutti, conformisti, omertosi e per molti versi inutili. Non è un bel periodo quello che stanno vivendo i giornali italiani. Travolti dalla crisi economica, che riduce anche del 40 per cento gli introiti pubblicitari, i quotidiani annaspano e, dopo essere sopravvissuti per anni drogando i dati di vendita e di diffusione, si trovano di fronte a un bivio: o chiudere, o tentare di far passare la nottata espellendo centinaia di giornalisti e riducendo, di molto, i costi.

La soluzione, insomma, è la solita: la cura da cavallo. Solo che questa volta tagliare le spese e cercare di innovarsi almeno un po' investendo nell'on-line non basta. O meglio, può bastare solo per allungare un'agonia cominciata nel 2000, ben prima dell'esplosione della bolla finanziaria.
Che fare, allora? Ricominciare dai fondamentali: ricordarsi cioè che un giornale trova dei lettori quando è in grado di raccontare loro (con autorevolezza) qualcosa che non sanno. Solo così ci saranno persone disposte a comprarlo.

Se devo pagare per avere delle informazioni (e delle opinioni) è ovvio che pretenda di avere informazioni (e opinioni) diverse da quelle che posso avere gratuitamente dalla tv, dalla free press o dalla rete.

Nessuno, o quasi, tra gli attempati manager e direttori che siedono ai vertici della maggioranza delle testate italiane sembra però in grado di capirlo. Raccontare cose diverse vuol dire infatti faticare molto, rompere schemi mentali, abitudini consolidate e, soprattutto, andare contro corrente. Vuol dire cioè non rinunciare a raccontare il Potere, un Potere di cui anche molti editori,direttori e giornalisti fanno parte, o dal quale attendono qualcosa.

Pensate a ciò che sta accadendo in questi mesi. Le aziende editoriali per salvarsi sperano di ottenere degli aiuti dal Governo. A Palazzo Chigi si studiano diverse soluzioni: dalla cassa integrazione, fino agli scivoli per i prepensionamenti pagati non dagli editori, ma dagli enti previdenziali. Non è ancora chiaro che cosa verrà deciso. È chiaro invece che cosa accade nell'informazione: si viaggia sotto traccia, si sta tranquilli, si cerca di non irritare troppo il manovratore.

Un esempio? Marco Lillo da le colonne de "L'espresso" racconta, dati segreti alla mano, come solo Publitalia riesca a non risentire della crisi della pubblicità. Gli investitori infatti, per tenersi buono Berlusconi, tendono a dirottare sulle sue reti le loro campagne. È una notizia, non vi pare? E lo dovrebbe essere anche per i grandi giornali che la pubblicità non riescono più a trovarla. E invece Lillo scrive e tutti gli altri tacciono. O al massimo registrano e non commentano. Pensano, così, di potersi salvare, poverini. Contano su un occhio di riguardo. E sempre più soli, con sempre meno lettori, corrono veloci e a schiena curva, verso la fine che si meritano. La chiusura.



“Ma perché non ci pagano”? Ma perché, ci hanno mai “pagati”?
di Mario Tedeschini Lalli - www.
mariotedeschini.blog.kataweb.it - 23 Marzo 2009

Oggi Massimo Russo riprende le dichiarazioni di Martin Nisenholtz, responsabile delle operazioni digitali del New York Times sulla rinnovata questione del “pagamento” del giornalismo online. Di fronte al combinarsi della storica crisi dell’editoria giornalistica con la crisi economica mondiale, improvvisamente è tornato di moda interrogarsi sul perché sul web non funzioni il modello che prevede di farsi pagare le informazioni, con una girandola di ipotesi (va attualmente per la maggiore l’idea dei micropagamenti). Nisenholtz dice a chiare lettere che qualsiasi forma di pagamento il NYT dovesse immaginare e richiedere riguarderebbe comunque solo “ricavi incrementali”, rispetto al grosso che resta (o dovrebbe restare) la pubblicità.

D’altra parte sarà ora di ricordare ai giornalisti che continuano a stupirsi che gli utenti non siano disposti a pagare per le informazioni sul web, che gli stessi utenti (o i loro padri e i loro nonni) hanno smesso di “pagare” per le informazioni anche sulla carta. Vogliamo dire che è oltre un secolo che un giornale vero non soprovavvive se non grazie alla pubblicità o - negli ultimi anni, in Italia - grazie a entrate che con il giornale e le sue notizie non c’entrano nulla, come i libri o i gadget venduti insieme al giornale?

Senza parlare dei quotidiani “free” venuti di moda negli ultimi tempi: in molte parti del mondo ci sono sempre stati eccellenti giornali settimanali locali che si sostenevano solo con la pubblicità. Per non parlare della informazione televisiva e radiofonica che è tutta free da sempre (al netto del canone Rai!).

Insomma ciò che i giornali ricavano dal vendere direttamente se stessi e le loro informazioni al loro pubblico è una frazione molto, molto minoritaria dei costi dell’impresa.

Questo non vuol dire che non occorra cercare tutti i modi, tutti i possibili canali che concorranno a finanziare l’attività giornalistica professionale - visto che, per il momento, la pubblicità online, quando c’è, vale un quindicesimo di quella negli altri mezzi. Occorre però non raccontarsi favole: da solo, in sé e per sé, il nostro prodotto non basta ad autosostenersi.


El País: La crisi minaccia la libertà di stampa in Italia
di Miguel Mora - «El País» - 23 Marzo 2009
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras


Il governo manovra per piazzare uomini di fiducia in capo ai periodici prestigiosi

Il cataclisma finanziario, il calo della pubblicità, l'adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono questioni che occupano tutti i giornali del mondo. Molti esperti, e non pochi lettori, temono che il processo incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo, assieme alla Russia, nel quale il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è duplice. Al duopolio televisivo, o piuttosto al monopolio tout court, formato da Mediaset e RAI, potrebbe presto aggiungersi una sorta di rivoluzione della stampa scritta.

Al fondo di questo movimento tellurico in incubazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono due testate milanesi molto prestigiose, il «Corriere della Sera», il più grande quotidiano italiano, e «Il Sole 24 Ore», il grande quotidiano economico del paese.

«Questa volta, Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà», ha detto Giancarlo Santalmassi, giornalista della RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando non è stato epurato, l'autunno scorso, dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale da parte del governo del Cavaliere nel 2006. Enzo Marzo, giornalista veterano del Corriere, ha concordato "pienamente" con Santalmassi. Giovedì, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa tenutosi presso la sede della Commissione europea a Roma, ha detto che la battaglia per la direzione del quotidiano è già iniziata.

Il nucleo dirigente del gruppo RCS - editore di Unedisa in Spagna - nonché proprietario del «Corriere», ha spiegato Marzo, ha ritirato la sua fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e tratta su due sostituti. Il primo è Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi, e il secondo è Roberto Napoletano, direttore de «Il Messaggero», che, ricorda Marzo, «divenne famoso nell’ultima notte elettorale, perché fu immortalato da una telecamera mentre patteggiava al telefono con il portavoce di Casini (leader della democristiana UDC dei Democratici e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che doveva piazzare il giorno dopo».

Rossella è il presidente di Medusa, la casa distributrice cinematografica di Berlusconi, e ha ricevuto la benedizione de «Il Giornale», il quotidiano della famiglia del magnate, che ha ricordato che questi lo «ha in grande simpatia, e lo ha già incaricato di dirigere le sue due più importanti testate, «Panorama» e Tg5 [il telegiornale di Canale 5].»

All'interno di RCS, Rossella conta su altri sostegni significativi: Diego Della Valle, proprietario di Tod's e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e di Ferrari nonché amministratore delegato de «La Stampa».

Ma la parola di Berlusconi sarà decisiva, ragiona senza nessun cenno di pudore il quotidiano di suo fratello, perché, mentre la crisi strangola i giornali, «l'intero sistema bancario dipende dal primo ministro.»

Napoletano ha le sue carte: non spiace a Berlusconi ed è uno dei pochi a parlare al telefono con Giulio Tremonti, ministro dell'Economia e editorialista per «Il Messaggero». Secondo «Il Giornale», il ministro «sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare» e la sua idea è quella di collocare Napoletano a «Il Sole» (proprietà, come Radio24, del padronato di Confindustria) e dare al suo attuale direttore, Ferruccio De Bortoli, il timone del «Corriere». Se non parlassimo dell’Italia, tutto questo fermento risulterebbe inverosimile, degno tutt’al più di una citazione in un pezzo di gossip. Ma tutte le fonti concordano nel segnalare che si tratta di "manovre serie e reali", il cui effetto produrrà "un terremoto".

Il malcontento del governo nei confronti di un altro grande giornale, «La Stampa» di Torino, di proprietà Fiat, è lampante. Secondo gli ambienti berlusconiani, il suo direttore, Giulio Anselmi, verrà tentato con una grande poltrona: quella di presidente dell’agenzia Ansa. Se accetta, verrà messo al suo posto un direttore meno ostile al governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani tengono testa come possono alla tempesta. Il presidente di RCS, Piergaetano Marchetti, che ha visto i profitti del gruppo abbassarsi nel 2008 a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo «gravi e immediati tagli di pubblicità.» E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo nei primi mesi dell'anno obbligherà a «ridurre il personale». «Dobbiamo agire sui costi e sui modelli di business, in Italia e all'estero.»

Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede ugualmente «chiusure e riallineamenti». In modo ironico, Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: «Entro dieci anni sarà splendido.»


Articolo originale: [QUI].