giovedì 12 marzo 2009

La vomitevole informazione italiota
















Qui di seguito una serie di articoli sul vergognoso mondo dell'informazione ufficiale italiana.
Altri conati di vomito in arrivo...


L'America che non piace ai media italiani
di Gianni Mina' - Il Manifesto - 10 Marzo 2009

L'Obama CANCELLATO
Il nuovo capo della Casa bianca sta rimediando alle violazioni dei diritti umani dell'era-Bush, a partire da Guantanamo. Ma i nostri giornali e le nostre televisioni passano oltre, minimizzano, ne parlano poco. O, persino, lo osteggiano.

La nuova America di Barack Obama mantiene le promesse riguardo i diritti umani violati a più riprese dall'amministrazione di Bush Jr. La Commissione di intelligence del Senato americano indagherà a breve sui metodi di interrogatorio e sulle modalità di detenzione messe in atto negli anni scorsi dalla Cia nei confronti di presunti terroristi. La notizia - confermata da fonti del partito democratico del Congresso - è stata ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione italiani, anche da quelli che parlano molto - ma un po' ritualmente - di diritti umani.

Il silenzio è sconcertante, specie se si considera, per esempio, che nel lager di Guantanamo, dove i detenuti erano reclusi in celle simili a stie per polli, dal 2001 al 22 gennaio di quest'anno, quando il nuovo presidente degli Stati uniti, evidentemente anche lui turbato da questo quadro, ha dato l'ordine di chiuderlo, sono transitati 775 prigionieri dei quali 420 sono stati liberati, dopo torture e offese, senza nessuna accusa o incriminazione.
Un contesto tragicamente simile a quello descritto da Claudio Fava, giornalista, scrittore e parlamentare europeo, presidente della Commissione che ha indagato sulle extraordinary rendition, in un passaggio della prefazione per il libro di Giulietto Chiesa Le carceri segrete della Cia in Europa: «Questa storia è anche un viaggio nell'orrore e nel ridicolo: nomi storpiati, abbagli, menzogne. Con un più tragico e grottesco dettaglio: delle venti extraordinary rendition che la Commissione di inchiesta ha ricostruito, almeno diciotto riguardavano casi di persone totalmente innocenti. Catturate, detenute, torturate e infine - un anno dopo, due anni dopo, cinque anni dopo - liberate con un'alzata di spalle 'c'eravamo sbagliati'. E' solo una stolta avventura della Cia? Non credo. Quegli abusi, quelle menzogne, quegli eccessi sono anche i nostri».

Anche i dati che abbiamo citato sopra sono indiscutibili e fino a qualche tempo fa, perfino nell'Italia democristiana, avrebbero imposto almeno una riflessione di prima pagina. Ora invece sono letteralmente spariti, anche in quotidiani prestigiosi come il Corriere della Sera che ha ben due vicedirettori che si dichiarano esperti nell'argomento diritti umani, Magdi Cristiano Allam, candidato dell'Udc alle europee, che appena può lancia una fatwa contro il mondo islamico, per lui radice di ogni violenza del mondo moderno, e Pierluigi Battista che, nei suoi fondi, senza nessun rispetto per i lettori, chiama «dittatore» Ugo Chavez, che in dieci anni di governo del Venezuela ha affrontato una dozzina di consultazioni elettoriali o referendarie, perdendone una sola, e accettando nell'occasione e senza discussione quel risultato.

Mi viene naturale, allora, ricordare con fastidio le faccie stolide di quei presunti esperti di strategie militari che nello studio televisivo di Bruno Vespa, fra il 2001 e il 2003, giocavano a RisiKo con i plastici raffiguranti l'Afghanistan e successivamente l'Iraq convinti, in entrambi i casi, che gli Stati Uniti avrebbero archiviato quelle pratiche strategiche in poche settimane e avrebbero «esportato la democrazia».

Invece l'Afghanistan è nuovamente in mano ai talebani, ai mercanti d'oppio e ai signori della guerra. Mentre nella terra della civiltà babilonese le vittime civili sono ormai 900mila e a Falluja e in altre zone è provato siano state utilizzate dall'armata Usa armi chimiche.

Lo sconcerto, poi, diventa totale leggendo la conclusione preliminare dell'inchiesta voluta da Barack Obama, addirittura all'indomani dell'investitura, che afferma «Nonostante gli ingenti finanziamenti disposti a partire dal 2003, con i soldi dei contribuenti americani, è impossibile trovare testimonianza di un solo cantiere aperto nella capitale irachena, fatta eccezione per quello del complesso che da pochi giorni ospita la nuova ambasciata Usa», la più faraonica sede diplomatica del governo nordamericano nel mondo, un complesso di ventuno edifici costato quasi due miliardi di dollari.

In compenso quella che fu la terra della civiltà babilonese è stata inondata di denaro, 125 miliardi di banconote che Paul Bremer, allora scelto da Bush Jr. per «ricostruire» un paese appena raso al suolo, aveva preteso in contanti.

Ora l'indagine governativa in corso sta rilevando che la metà dei soldi risulta sparita nel nulla, 57,8 miliardi di dollari, che dovevano essere destinati a scuole, ospedali, strade, abitazioni e a ricostruire i servizi essenziali, e che invece sono finiti nelle tasche degli speculatori internazionali, o fanno parte dei bilanci di ditte come la Hullyburton, creatura cara all'ex vice presidente Dick Cheney, i cui manager arrivavano in Iraq accompagnati da guardie del corpo chiamate contractors e pagate non meno di 15mila dollari al mese.

Al Pentagono, gestito allora dal disinvolto ministro Donald Rumsfeld, che stava conducendo la guerra e aveva già approvato informalmente la pratica della tortura, Bush aveva infatti affidato, senza scrupolo anche l'incarico della ricostruzione. L'ordine era di sospendere sia la legge irachena, sia quella americana.

In questo modo gli investitori hanno potuto godere di una immunità tale da traformare l'Iraq in una «zona di libera frode», in cui milioni di dollari in contanti sono stati consegnati a truffatori per opere mai portate a termine.

La stampa occidentale, compresa quella liberal nordamericana (era l'epoca dei giornalisti uccisi a Baghdad o a Falluja dal «fuoco amico») che, nell'occasione, come mi disse Noam Chomsky, aveva abdicato alla sua storia, non ebbe il coraggio e la dignità di denunciare quello scempio. Paura o cinismo? Forse solo opportunismo.

Silenzi interessati
Certo, ora che la realtà viene a galla, così meschina, così feroce, è sconcertante scoprire che, salvo alcuni casi, l'atteggiamento dell'informazione non è cambiata. Ignorare, eludere, queste notizie continua a essere la linea dei media occidentali, specie in Italia dove è passato sotto silenzio perfino l'inquietante lavoro di lobby che il presidente Bush nell'estate del 2006 fece con i senatori repubblicani McCain, Warner, Graham e Collins, compagni di partito che, assaliti evidentemente da un sussulto di coscienza, si opponevano all'approvazione della legge che avrebbe autorizzato la tortura, ora subito sospesa da Barack Obama.

Una storiaccia senza morale che avrebbe meritato, allora come adesso, uno straccio di editoriale, due righe di commento, delle penne democratiche del nostro paese o della satolla Europa. Ma la latitanza morale dei più prestigiosi editorialisti e commentatori tv diventa ancor più colpevole quando, meno di una settimana dopo, è arrivata la notizia che Bush Jr. aveva trovato un accordo con i senatori «ribelli». Ribelli a che cosa? Al cinismo e all'ipocrisia della nazione guida delle democrazie occidentali?

Eppure le conclusioni preliminari dell'inchiesta amministrativa in corso sono esplicite: «L'intero progetto di ricostruzione in Iraq è stato un pieno fallimento. Si è passati da una guerra lampo all'idea di mettere insieme uno stato dalle fondamenta, senza avere un progetto degno di questo nome alle spalle. La Coalition Provisional Authority ha dato prova di cattiva gestione, di assoluta mancanza di controllo, spalancando le porte ad ogni tipo di attività criminale».

Sono parole che mi fanno venire in mente il bellissimo documentario Ma dove sono finiti i soldi del giovane medico e giornalista iracheno Ali Fadhil, trasmesso all'epoca alle undici di sera a "C'era una volta", il programma di Rai Tre di Silvestro Montanaro, dove si vedevano i marines durante le operazioni di scarico di un aereo in Iraq prendere a calci, come se giocassero a football, i sacchi di dollari inviati per la «ricostruzione».

Norma Rangeri, nella rubrica sui programmi televisivi che tiene sul manifesto, si domandò giustamente perché nemmeno una di quelle immagini fosse stata mostrata in un telegiornale e, aggiungo io, nemmeno nei programmi di Vespa, Ferrara, Mentana, Santoro, Floris e Piroso.

Purtroppo i giornalisti liberali o riformisti, come si dice ora, sono in Italia, tendenzialmente, distratti o servili. Non provano nemmeno il disagio che Barack Obama ha espresso già il giorno successivo al suo insediamento, quando ha deciso di chiudere il lager di Guantanamo, fermare le commissioni militari, veri illegali tribunali speciali che vi agivano e mettere al bando l'uso della tortura da parte della Cia. Insomma, tentando di smontare alcuni dei passaggi più inquietanti della politica di Bush Jr. Anzi al Corriere ultimamente non nascondono la loro antipatia per le scelte di Obama. Da noi gli otto anni nefasti di W., che Oliver Stone, il regista di Platoon, Nato il 4 luglio e JFK, ha accusato pubblicamente di «aver infranto ogni limite morale», hanno trovato eco solo recentemente nella rubrica del critico televisivo del Corriere della Sera.

Aldo Grasso si è offeso perché Miguel d'Escoto, antico combattente per i diritti dei più poveri e degli esclusi, prete sospeso a divinis dal Vaticano, aveva accettato l'incarico di ministro degli esteri dell'esausto Nicaragua sandinista, scampato alla guerra sporca dei contras, le milizie del dittatore Somoza, sostenute dal presidente Usa Ronald Reagan, si era augurato, in un collegamento con il Festival di Sanremo, di poter superare l'isolazionismo che aveva caratterizzato la politica nordamericana negli anni della presidenza di Bush Jr.

D'Escoto parlava da New York come presidente (eletto per il suo prestigio internazionale) della 63a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, estemporaneamente intervistato da Paolo Bonolis in una di quelle iniziative spericolate della tv generalista, quando vuole dare prestigio a un programma nazionale e popolare.

Aveva affermato d'Escoto: «O ci amiamo o affondiamo tutti (...) Cogliamo, con l'aiuto della musica l'occasione di rinnovare lo spirito per lottare tutti insieme per un mondo migliore», accenando alla speranza di superare l'atteggiamento non collaborativo dell'America di Bush nei riguardi delle Nazioni unite.

Ma tanto era bastato al critico del Corriere per sollecitare addirittura le alte cariche dello Stato italiano a chiedere scusa agli Stati uniti.

Scusa di che, Aldo Grasso? Se è vero, come è vero, che d'Escoto ha affermato una verità inconfutabile, specie per un cittadino di un paese latinoamericano, massacrato dalla «guerra sporca» benedetta trenta anni fa da Ronald Reagan?
Questa purtroppo è la nostra informazione. Tutte le notizie non gradite agli Stati Uniti, o che sottolineano una loro sconfitta materiale e morale, vengono eluse, evitate, respinte, quasi fosse il pedaggio da pagare ancora ai vincitori della seconda guerra mondiale, per antonomasia indiscutibili, democratici e liberatori.

Invece, le «gesta» dei nordamericani, nell'ultimo mezzo secolo, sono state spesso anche scorrette, egoiste, poco eroiche. Dalla guerra in Vietnam, per di più persa miseramente, al crudele Plan Condor, voluto dal presidente Nixon e dal segretaio di stato Kissinger per coordinare fra loro le dittature militari latinoamericane degli anni '70, e aiutarli ad annientare tutte le opposizioni progressiste del continente, fino alla guerra in Iraq.

Quando si verificano eventi così inquietanti c'è, in Italia, una sorta di consegna del silenzio, una fuga dalla realtà.

Per capire con quale superficialità vengono spesso decisi i nostri destini c'è voluta, per esempio, la testardaggine di Oliver Stone, un vecchio cacciatore di documenti inoppugnabili, che diventano sceneggiature di indimenticabili film di denucnia. Questa volta, raccontando nel film W., le «imprese» del Presidente degli Stati uniti negli anni in cui è crollato anche il muro del capitalismo, si può permettere perfino il lusso di essere magnanimo e di leggere il catastrofico bilancio del suo governo come la frustrazione di un piccolo uomo schiacciato dalla figura del padre, che fu direttore della Cia, vice presidente di Reagan e poi, a sua volta, presidente.

Tutto questo però senza dimenticare di sottolineare la follia di una politica avida, corrotta e guerresca, che solo la malafede della nostra informazione ha continuato pervicacemente a ignorare.



Cronache bizantine - Io, desaparecido dai sondaggi
di Ennio Remondino - Dnews - 10 Marzo 2009

Beati voi italiani che sapete cosa accade attorno, a partire dalla grave crisi economica mondiale.
Io, in Turchia, mi devo accontentare delle cifre sulla caduta della produzione industriale, sull’aumento della disoccupazione, e sull’export turco che traballa. Da queste parti, insomma, le cose vanno abbastanza male.

Non come da voi, in Italia, che a giorni alterni almeno, uno piglia respiro.
Se Tremonti dice che il 2009 sarà peggio del 2008 uno si deprime. Per fortuna, il giorno dopo senti Berlusconi che rassicura, “La crisi non sarà tragica”. Prima di “tragica”, nella scaletta delle catastrofi, cosa viene? Crisi gravina, grave, gravissima?

A caccia di sinonimi trovo: “stallo, recessione, congiuntura, depressione, crollo, decadenza, disfacimento”. Altro dubbio: chi stabilisce la classifica personale di cosa è grave o di cosa è tragico? Perdere quei tre risparmi in azioni che, in nome della modernità e dell’ottimismo mi ero messo da parte, per me è grave. Perdere il 30-40 per cento della pubblicità su Mediaset sicuramente è grave anche per Berlusconi. La differenza relativa sta nei numeri: per me il “Grave” parte da 20 mila, per lui da 20 miliardi. Perdere il posto di lavoro è certamente tragico, ma anche questo non è eguale. La cassa integrazione è la disperazione, la non cassa integrazione del precario è semplicemente la fame.

Non siamo alla tragedia, dite voi in Italia, e io ci credo.

Non sarà tragedia, ma allora somiglia molto ad una farsa. A cominciare dai giornali.

“Venerdì nero”, titolano, “Giovedì nero”, e via col nero borsistico (che vuol dire profondo rosso nei bilanci) per tutti i giorni della settimana.

Per fortuna le borse chiudono il sabato e la domenica, giorni in cui possiamo aspettarci soltanto eventuali calamità atmosferiche. I giornali e “la notizia”, dopo 35 anni di giornalismo, sono un altro mio cruccio. Giornali italiani, ovviamente, visto che per quelli turchi mi limito alle fotografie. Leggo e non capisco.

La crisi “non tragica” pare proprio ci sia. Nel mondo il quesito attorno cui si discute è banalmente “cosa fare per uscirne”. In Italia, nel nome dell’Auditel di ruffianeria politica, sui telegiornali si litiga sulla quota di ottimismo o di realismo che servono al Paese. Se sei ottimista appartieni, di diritto, al Popolo delle Libertà. Se sei soltanto preoccupato sei un centrista indeciso e strabico. Se sei pessimista, sei irrimediabilmente di sinistra e quindi destinato a perdere.

A proposito di sinistra, un altro cruccio personale che non riesco a risolvere attraverso la lettura dei vostri giornali. Alcune cosucce le so. Veltroni s’è dimesso da segretario del Pd dopo la batosta in Sardegna, Franceschini lo sostituisce, ma soltanto sino al congresso d’autunno. La sinistra rimasta fuori del Parlamento italiano si spezza in due per aumentare le possibilità di escludersi anche da quello di Strasburgo.

Ilvo Diamanti lancia una sorta di “Chi l’ha visto” alla ricerca di quasi 3 milioni di elettori genericamente di sinistra che sembrano evaporati anche dai sondaggi. Non è che siamo migrati tutti all’estero, in fuga dai Gattopardi di ieri e di oggi?



Presidenza Rai: i king maker di un king travicello
di Pino Cabras - Megachip - 10 Marzo 2009

Ferruccio De Bortoli ha detto no. Non sarà presidente della Rai. A convincere l’attuale direttore de «Il Sole 24 Ore», che pure è uno navigato assai, non sono bastati gli ennesimi ‘king maker’ dell’inciucio spartitorio radiotelevisivo, Dario Franceschini e Gianni Letta.

Nel declinare l’invito, De Bortoli ha definito la Rai un “patrimonio del Paese”. La frase è più pregnante di quanto non sembri. Sembra contenere il riferimento a un servizio pubblico non cannibalizzato dai partiti. Un mondo dove non esistono conflitti d’interesse macroscopici e dove le opposizioni non se ne stanno lì, subalterne, a negoziare qualche minuto di un palinsesto assurdo. Un mondo dove i ‘king maker’ non sono Berlusconi o i suoi plenipotenziari né Franceschini.

Non sarà dunque De Bortoli la foglia di fico dell’oscena spartizione (dove c’è un leone che prende quasi tutto e un PD che elemosina alcune poltrone). Diciamo oscena, anche nel senso proprio di ‘obscaena’, cioè fuori dalla scena; eppure già nota nei nomi chiave. Il Tg1 ha già toccato molte volte nella sua storia il fondo della faziosità, ma con Maurizio Belpietro alla direzione si inizierebbe a scavare.

Non è nemmeno bastato il ‘graditur’ dell’editore di De Bortoli, la Confindustria guidata da Emma Marcegaglia, sempre così filogovernativa. ‘Graditur’, ‘promoveatur ut removeatur’ e via di latinorum per mandare in altri lidi uno che, lui ci tiene a dirlo, «fa il giornalista», talvolta con autonomia.

Avanti un altro. Il padrone del 'kombinat politica-tv' chiede al PD un’altra proposta per la massima carica di Viale Mazzini. Franceschini mica dice di no, quando c’è da trovare un king travicello. «Se Berlusconi intende dire che accetterà qualsiasi nome dell’opposizione, ho molte idee in proposito». Tanto dovrà essere uno che non dovrà obiettare agli organigrammi che gli consegneranno prima delle riunioni del consiglio di amministrazione. Un mestieraccio, in cui avere la dignità di dire no è incompatibile con il vero compito assegnato. Forse stavolta non basterà nemmeno Lucia Annunziata. Nomineranno una pianta?