sabato 21 marzo 2009

Crisi economica: la bancarotta degli USA è insensibile agli stimoli

Le stime del Congresso USA che prevedono un deficit record per l'anno fiscale 2009 non spingeranno Barack Obama ad abbandonare l'obiettivo/chimera di dimezzare il deficit entro quattro anni. Infatti il presidente degli Stati Uniti nel suo messaggio radio settimanale ha dichiarato "In totale, la nostra legge di bilancio portera' la quota di spesa discrezionale per gli interventi interni ai minimi di quasi mezzo secolo. E continueremo a fare scelte dure come questa nei mesi e negli anni a venire, affinche', mentre la nostra economia si riprende, faremo il necessario per abbattere il deficit".

Intanto per il 2010 Obama ha presentato una proposta di legge di bilancio da 3.550 miliardi di dollari, che verra' discussa dal Congresso la prossima settimana.
Ma ieri l'Ufficio Bilancio del Congresso ha presentato nuove stime che parlano di un inaudito deficit a 1.845 miliardi di dollari per l'anno fiscale in corso, che termina il prossimo 30 settembre, contro i 1.200 miliardi della precedente stima diffusa a gennaio.
Una cifra pari al 13,1% del Pil e quattro volte superiore al deficit 2008.
L'Ufficio Bilancio del Congresso ha spiegato di aver rivisto le stime sulla base del piano di stimolo da 787 miliardi.

E subito dopo l'annuncio degli analisti del Congresso, i repubblicani ne hanno ovviamente approfittato per attaccare la politica economica di Obama, giudicata troppo dispendiosa.
"E' peggio anche delle previsioni piu' pessimistiche" ha dichiarato il capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell.
Ma Obama ha reagito spiegando che le sue proposte offrono soluzioni a lungo termine ai problemi strutturali dell'America, come "l'alto costo della sanita', la dipendenza dalle importazioni di petrolio, il deficit della scuola e il deficit fiscale".

Ma non c'è misura che possa modificare lo stato di bancarotta in cui versano gli USA.



Le "Cassandre" insistono: la crisi peggiorerà

di Mauro Bottarelli - Il Sussidiario.net - 20 Marzo 2009

«Anche un gatto morto se cade dal terzo piano su qualcosa che lo fa rimbalzare torna su almeno una volta. Ma questo non significa che sia meno morto». Ambrose Evans-Pritchard, editorialista economico del Daily Telegraph, è noto per i suoi adagi taglienti e i suoi giudizi chirurgici: pochi, come quello appena riportato, sanno raccontare con cinismo e ironia la follia irrazionale di questi giorni sui mercati.

Ma anche Oltreoceano c’è chi non lesina critiche molto pesanti alle scelte dell’amministrazione Bush prima e di Obama poi, ma soprattutto alla Fed e alla sua suicida politica di tassi zero. Per Paul Craig Roberts, vice segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Reagan, quanto sta accadendo in America rischia infatti soltanto di rendere la crisi più lunga e dura. A partire dagli errori compiuti esattamente un anno fa, quando Roberts avanzò una proposta tanto provocatoria quanto coraggiosa per spezzare il circolo vizioso dello tsunami subprime e provare a evitare che vengano minati del tutto anche i fondamentali dell’economia: eliminare la regola del “mark to market”.

«Quella regola - spiega Roberts - obbliga le istituzioni finanziarie a scrivere sui libri contabili i loro mutui subprime ai valori di mercato correnti; invece per uscire dalla spirale in cui ci siamo infilati bisognerebbe consentire alle istituzioni speculative di mantenere questi strumenti derivati iscritti in bilancio al loro valore di carico, o almeno al 90% del loro valore iniziale. Così si guadagnerebbe tempo e si potrebbe sperare nella formazione di un mercato ad hoc».

Il problema, secondo Roberts, è che quegli strumenti finanziari sono finiti nei guai prima che si creasse un mercato in grado di fissare correttamente i prezzi in base al rischio e al potenziale di guadagno. «Quegli strumenti erano venduti direttamente dalle istituzioni che li emettevano agli investitori: comunque non quotati o fluttuanti in alcuna Borsa. Ora che sono malfamati e il loro valore è sconosciuto, nessuno li vuol comprare, è ovvio. È la non liquidabilità che ne abbassa il valore. Questa caduta libera ha trascinato le banche e i fondi speculativi all’insolvenza, per di più obbligandole, per far cassa, a vendere le azioni solide su mercati borsistici, accelerandone così il declino e infettando del male anche le aree sane dell’economia. Sospendere l’obbligo del “mark to market” avrebbe alleviato la pressione dalla Borsa e la Federal Reserve potrebbe evitare di abbassare ancora i tassi d’interesse per inserire liquidità nell’economia attraverso un sistema bancario che è danneggiato».

È come continuare a pompare acqua in una tubatura che perde: «Tassi d’interesse ancora più bassi peggiorano la crisi accelerando il declino del dollaro; ora che l’inflazione cresce, altra liquidità peggiora solo la crisi economica. In effetti non esiste un problema generale di scarsa liquidità: i problemi di liquidità riguardano solo questi strumenti finanziari mal concepiti».

Eppure proprio il giorno prima del clamoroso tracollo di Bear Stearns, un report di Standard&Poor’s vedeva la luce in fondo al tunnel subprime. Peccato che i fatti abbiano precipitato la situazione nel buio. «S&P sbagliava - rincara Roberts -. All’inizio la crisi toccava soltanto le banche e gli istituti che erogavano mutui, ora sono le istituzioni finanziarie non-deposit-taking a essere nei guai, basti pensare alle banche d’affari o a fondi come il Carlyle Capital. I derivati dei subprime, quindi, non sono affatto gli unici strumenti derivati a essere al centro della crisi».

Altro tema scottante è lo stato attuale dell’economia americana: qualcuno parla di recessione, altri di stagflazione come nei tardi anni Settanta, altri di depressione. «L’economia americana è già in recessione da almeno un anno, un anno e mezzo e lo è stata per la maggior parte del Ventunesimo secolo. Il Prodotto interno lordo, l’inflazione, la produttività e il numero di occupati sono altrettanti indicatori che nelle ultime decadi sono stati intaccati un po’ alla volta ma inesorabilmente e alle radici mentre le varie amministrazioni “aggiustavano” i numeri per farsi belli con l’opinione pubblica. Inoltre ora abbiamo la certezza che le statistiche sul Prodotto interno lordo e la produttività calcolavano in modo errato parti di produzione offshore delle aziende americane come Pil statunitense. Il basso costo del lavoro ottenuto utilizzando forza lavoro cinese ha gonfiato le statistiche di crescita della produttività.

Inoltre l’economia americana è stata mantenuta in vita nel Ventunesimo secolo attraverso l’aumento del debito dei consumatori, non dalla crescita reale del reddito delle famiglie. I consumatori non possono più sostenere aumenti del debito per finanziare i propri consumi: in questo modo è impossibile che l’economia possa crescere. La stagflazione dei tardi anni Settanta fu frutto della politica keynesiana di gestione della domanda che pompava in alto la domanda dei consumatori attraverso denaro facile, ma diminuiva la produzione con alte tasse marginali. La politica di supply-side dell’amministrazione Reagan ribaltò questo scorretto mix di politiche, curando la stagflazione e ridando forza al dollaro. Ovviamente, continuando a fare errori come quelli che si stanno compiendo, il rischio di stagflazione può tornare».

L’indice è puntato contro la politica di tagli drastici dei tassi sposata in pieno dalla Fed di Ben Bernanke e benedetta da George W. Bush prima e da Barack Obama poi. «Con gli Stati Uniti dipendenti dagli stranieri per finanziare sia le guerre (ovvero il deficit del budget governativo domestico) sia il deficit commerciale, un basso tasso di interesse combinato con un valore declinante del dollaro farà fuggire gli investitori stranieri. In questo momento, il dollaro necessita tassi d’interesse più alti. Gli Stati Uniti non possono sanare il loro deficit commerciale perché la produzione offshore delle corporation statunitensi per il mercato americano contano come import. Producendo all’estero per il mercato interno, le corporations americane hanno fatto esplodere il deficit commerciale e distrutto milioni di posti di lavoro americani nella classe media».

Insomma, una soluzione alternativa c’era e Roberts l’aveva proposta un anno fa. La solita protervia degli ultra-liberisti? Forse, peccato che proprio ieri - a un anno di distanza - Puru Saxena, ascoltatissimo amministratore delegato della Puru Saxena Wealth Management, regalava queste parole in un’intervista alla Cnbc: «Gli Stati Uniti sono già in bancarotta visto che il loro debito sorpassa di quattro volte il valore della loro economia. Gli Usa sono pesantemente a rischio di iper-inflazione».

Non solo. Per Stephen Roach, capo del ramo asiatico di Morgan Stanley, «il fatto che la Fed abbia annunciato la decisione di comprare 300 miliardi di dollari in buoni del Tesoro legati al debito pubblico americano è un pessimo segnale: pompare soldi, ora, non serve a nulla se non a creare le condizioni di ulteriori crisi».

Saranno anche tutti ultra-libertisti e Chicago Boys ma, a occhio e croce, fino a ora le miracolose ricette di neo-keynesiani e neo-colbertisti hanno miseramente fallito nel loro tentativo di arginare la tempesta perfetta della crisi e del credit crunch.



FMI: Il peggio deve ancora venire
di Roberto Petrini - La Repubblica - 21 Marzo 2009

Il peggio deve ancora venire. Il Fondo monetario internazionale, che ieri a Washington ha pubblicato i nuovi aggiornamenti della situazione economica internazionale, avverte che «non c´è da illudersi», che «davanti a noi abbiamo ancora tempi molto difficili» e che dunque bisogna agire «con decisione e varare nuove misure di stimolo». Il quadro, già allarmante, viene dipinto con toni ancora più preoccupati dall´Fmi che invita le autorità del globo ad affrontare con decisione il problema della capitalizzazione delle banche (senza escludere le nazionalizzazioni) e a tagliare il nodo degli «asset tossici» prodotti dalla crisi dei mutui subprime.

Il panorama delle stime di crescita a livello globale si fa sempre più fosco: è confermato che quest´anno il Pil mondiale per la prima volta in sessant´anni, all´incirca dalla Seconda guerra mondiale, si contrarrà (tra lo 0,5 e l´1,5 per cento) mentre quello delle economie avanzate subirà una riduzione valutata tra i 3 e i 3,5 punti percentuali. Una «crescita graduale» si avrà solo a partire dal prossimo anno.

La situazione dell´Italia non è diversa da quella degli altri paesi, ma i dati sul deficit-Pil, stimato dall´Fmi per il 2009 al 4,8 per cento (5,2 nel 2010), desta particolare allarme per la cronica instabilità dei nostri conti pubblici. L´aggiornamento appesantisce notevolmente le proiezioni del governo che, nel recente Programma di stabilità, prevedeva per quest´anno un deficit-Pil al 3,7 per cento: al disavanzo si aggiunge ora un 0,2 per cento di Pil pari al costo delle misure anticrisi.

Non consola che la media dei deficit dei paesi del G20 arriverà al 5,9 per cento, che la Germania sarà al 4 e la Francia al 6 per cento. Tant´è che il direttore esecutivo dell´Fmi per l´Italia, Arrigo Sadun, ha sentito il bisogno di esprimersi con toni rassicurati: «L´Italia non è a rischio default, siamo meno esposti degli altri alla crisi dei subprime e dei derivati», ha detto ieri a Parigi. Il Fondo dedica anche uno studio al mercato del lavoro italiano giudicato arretrato e urgentemente da riformare.

Quanto agli Stati Uniti, che quest´anno, sempre secondo l´Fmi, vedranno una riduzione del Pil del 2,6 per cento, si cercano con il lanternino alcuni segnali di vitalità dell´economia che marginalmente emergono. E´ il caso dell´indice dell´attività manifatturiere dell´area di Philadelphia, redatto dalla locale Fed, che ha ridotto le perdite: -35 a marzo rispetto a -41,3 a gennaio. Lo stesso vale per il sussidio di disoccupazione: nella settimana terminata il 7 marzo ha raggiunto il record di 5,4 milioni di americani. Tuttavia le richieste in quest´ultima settimana monitorata sono calate: sono state 12 mila in meno.