domenica 1 marzo 2009

Deliri italioti

Qui di seguito una serie di articoli che descrivono bene le varie sfaccettature della tragicommedia italiota di questi ultimi tempi.






Gratta e vinci
di bamboccioni-alla-riscossa.org - 27 Febbraio 2009

Lavorare non paga. Gli stipendi degli italiani sono fermi inchiodati dal 2001. E tra i più bassi d’Europa. Per investire in Borsa, poi, non ci sono i chiari di luna giusti: le azioni continuano a scendere come le cascate del Niagara; oggi, in media, valgono la metà di un anno fa. E soprattutto. Adesso come adesso, anche diventare imprenditori di sè stessi - come suggeriva anni addietro, con un pizzico di paternalismo, il nostro premier - sta diventando un’impresa sempre più complicata. Visto che nel 2008 i fallimenti sono raddoppiati. E che le banche - complice l’arcinota crisi dei mutui subprime - hanno per giunta chiuso i rubinetti del credito. Risultato: in questi tempi difficili, agli italiani che vogliono davvero guadagnare qualche soldo, non restano grandi chance. Salvo buttarsi sul “Gratta e Vinci”.

Domanda: nel senso delle cartelle che si vendono in tabaccheria, stile “Miliardario”, “Battibanco” e “Prenditutto”? Beh, anche. Ma c’è di meglio. Perchè nel nostro ex Belpaese esiste per davvero un business, per dirla all’americana, in cui chi “gratta”, vince sempre. E non è quello del gioco (più o meno) d’azzardo. Ma quello delle mafie s.p.a. Mafie che l’anno scorso, in barba alle turbolenze finanziarie, hanno continuato a “ciucciare” all’economia sana cifre da capogiro (per un fatturato da 130 miliardi di euro all’anno; qualcosa come il 6% circa dell’intero Pil italiano). Mafie che quest’anno - proprio grazie alla crisi - dovrebbero fare ancora meglio.

I lettori del “Corriere della Sera” che lunedì scorso hanno avuto la pazienza di arrivare fino ai meandri dell’inserto economia, infatti, hanno scoperto (a pagina 11) l’acqua calda. Le banche ultimamente faticano a concedere prestiti. E così sempre più aziende, soprattutto quelle medie e piccole, si rivolgono agli usurai. Che poi, spesso e volentieri, altro non sono che i soliti bravi picciotti di Camorra, N’drangheta & co.

Un settore, quello dello strozzinaggio, di cui si parla pochissimo. Ma che vale tantissimo (all’incirca 30 miliardi di euro all’anno, secondo le stime di Confesercenti; poco meno delle 3 Finanziarie messe in cantiere dal ministro Tremonti di qui al 2010). E soprattutto: il cosiddetto rischio d’impresa, in questo ramo dell’economia nostrana, è prossimo allo zero. Come ha spiegato al Corriere il numero due di Confindustria Sicilia, Antonello Montante: “Il fenomeno cresce sempre di più”. E tanto per dare qualche numero e fare qualche esempio: rimanendo al Sud, solo in Calabria, sono diecimila le imprese vittime dell’usura (di stampo mafioso e non). Ma nel 2007 - questi sono gli ultimi dati disponibili - le denunce di commercianti e imprenditori calabresi contro gli usurai sono state ben, si fa per dire, 37. Di più. In tutto l’ex Belpaese le vittime degli strozzini dovrebbero essere addirittura 600mila. Come a dire 3 città grandi come Brescia. Ma le persone, che nel 2008, si sono rivolte allo Stato per avere accesso al Fondo di solidarietà istituito presso il ministero dell’Interno sono state solo 313. Totale-totale: lo 0,5%. Non proprio una folla.

Merito, o meglio demerito, della legge antiusura. Che secondo Teresa Principato, sostituto procuratore all’Antimafia nazionale, “sarebbe da modificare” perchè provoca “intoppi” e “tempi lunghi”. “Se le vittime dell’usura che hanno affidato la loro denuncia allo Stato - ha osservato la pm in un’intervista al solito Corriere - non hanno una risposta ragionevolmente rapida, possono subire conseguenze gravissime”. E infatti gli “usurati” la loro denuncia, a quanto pare, non la fanno proprio. Ergo: per Teresa Principato, non c’è dubbio che tenga. Bisognerebbe modificare la legge e trovare una “via ragionevole” per risolvere il problema. Una preoccupazione - nonostante i numeri del fenomeno e i timori di un suo aggravarsi - che però non sembra sfiorare affatto il ministro della Giustizia del Berlusconi IV, Angiolino Alfano. Che per ora pare in ben altre faccende affaccendato. Come l’indispensabile modifica della legge sulle intercettazioni. O l’urgentissima separazione delle carriere (tra pm e giudici). Provedimenti chiave per il “capobottega”. Forse un po’ meno per i suoi amministrati.

Amministrati che comunque e a loro volta sembrano in ben altre faccende affacendati. Stretti tra l’eterno carovita e la crisi, gli italiani ultimamente non affollano certo le piazze per far uscire la Giustizia con la “G” maiuscola dallo stato comatoso in cui versa ormai da anni (il 95% dei reati, per la cronaca, è sistematicamente prescritto). Ma in compenso affollano per davvero le tabaccherie. Per fare che? Ma per tentare la fortuna. Comprando appunto tessere di “Battibanco”, “Milionario” e “Prenditutto” a go-go. Solo nel 2008 sono stati venduti “Gratta e Vinci” per 47 miliardi e 506 milioni di euro. Come a dire: una spesa di circa 800 euro a testa. Non resta che sperare che i più - viste le leggi e i tribunali colabrodo - non decidano di convertirsi. E passare direttamente a ben più lucrosi “Gratta e Vinci”. Finiremmo per diventare una bizzarra Repubblica dei fichi d’India. Sempre che non lo siamo già.



La pasta salata
di Felice Capretta - 28 Febbraio 2009

Incredibilmente la free press, che ricordiamo viene distribuita gratuitamente a migliaia di pendolari tutte le mattine, per una volta ha colto la notizia da mandare in prima pagina:

Condannati i principali produttori di pasta per intese restrittive della concorrenza.

Nel 2007 e per metà del 2008 si gridava alla dolorosa inflazione di pane e pasta. Colpa del prezzo del petrolio e delle speculazioni sulle materie prime, si diceva. Sicuramente il prezzo del petrolio e le speculazioni non hanno aiutato.

Risulta comunque che i principali produttori di pasta si accordavano tra loro sui prezzi a cui vendere la pasta alle aziende della distribuzione (supermarket e grossisti), anzichè combattere tra loro sul cosiddetto libero mercato a colpi di qualità di prodotto, sconti, pubblicità.

Risultato, i prezzi salivano.

L'antitrust per una volta ha fatto il suo dovere: ha sanzionato con una multa da 12.496.333 euro le aziende produttrici di pasta e le associazioni di categoria per intese restrittive della concorrenza.

E' evidente che il reato è particolarmente grave anche per chi non conosce la normativa in materia di tutela della concorrenza.

Ecco i nomi dei colpevoli. Per una volta pubblicati.

  • Amato
  • Barilla
  • Colussi
  • De Cecco
  • Divella
  • Garofalo
  • Nestlè
  • Rummo
  • Zara
  • Berruto
  • Delverde
  • Granoro
  • Riscossa
  • Tandoi
  • Cellino
  • Chirico
  • De Matteis
  • Di Martino
  • Fabianelli
  • Ferrara
  • Liguori
  • Mennucci
  • Russo
  • La Molisana
  • Tamma
  • Valdigrano

condannata anche l'Unipi, Unione Industriali Pastai Italiani, l'associazione di categoria: probabilmente il luogo dove il complotto si tramava. Solitamente sono proprio le associazioni di categoria i luoghi principe dove avvengono gli accordi di cartello.

L'Autorità ha sanzionato per la misera cifra di 1.000 euro anche l’intesa realizzata da Unionalimentari che ha divulgato una propria circolare per indirizzare gli associati verso un aumento uniforme di prezzo.

In particolare l’intesa realizzata da Unipi e dai 26 produttori è durata dall’ottobre 2006 almeno fino al primo marzo 2008. In due anni, fino al maggio 2008, il prezzo di vendita della pasta ai distributori ha registrato un incremento medio pari al 51,8%, mentre il prezzo finale al consumatore è cresciuto nello stesso periodo del 36%. (ADNKRONOS)



Piccolo spot.





Mavaff...


La TV genera mostri e il pubblico li fa diventare divi
di Massimo Fini - 28 Febbraio 2009

Caro Fini, sono un’ammiratrice di Paolo Bonolis, come di altri personaggi della tv, ma trovo scandaloso che prenda un milione di euro per condurre il Festival di Sanremo. Questo in un periodo di crisi economica in cui a tutti noi italiani è richiesto di tirare la cinghia.
Giorgia Melli, Bologna

CHI È CAUSA del suo mal pianga se stesso. Siete stati voi, con la vostra idolatria per la tv e i suoi cosiddetti divi, a creare questi ‘mostri’. Ma la cosa più grave non è che Bonolis (che tra l’altro non è dei peggiori) o la Ventura, la Marcuzzi o Celentano o i cantanti prendano i cachet che prendono, in periodo di crisi o di non crisi. La cosa più grave è il peso che costoro hanno acquistato nella vita pubblica italiana, nel costume e persino nel dibattito delle idee. Ai vecchi tempi il pomeriggio di Natale, quando gli adulti sono stufi, un po’ stanchi e i bambini rompono si dava al cugino scemo e un po’ goliarda il compito di tenerli a bada divertendoli con qualche giochetto. I conduttori dello spettacolo televisivo non fanno niente di molto diverso con una platea di adulti infantilizzati e rimbecilliti dall’ascolto ipnotico. E’ stata l’enorme platea del pubblico della tv a decretare non solo il loro successo ma anche il loro prestigio.

Sulle questioni di costume ma anche etiche, ma anche politiche la loro parola è molto più interpellata e ascoltata di quella di Emanuele Severino o Salvatore Veca o Pier Aldo Rovatti. Nella nostra società il denaro è la misura del valore e se Bonolis prende un milione di euro e un ricercatore universitario 1.200, vuol dire che il secondo non vale niente, non conta niente rispetto al primo che è diventato il vero maître à penser. Ed è per questo, e non solo perché buttiamo i soldi a vanvera, che l’Italia è conciata com’è conciata.


Nel Granducato di Curlandia
di Massimo Fini - 28 Febbraio 2009

Nel Granducato di Curlandia ai confini del mondo, della realtà, della ragione, della logica, dell’equità, della giustizia, dell’etica e della decenza, accadono cose assai curiose.
Il Granduca di Curlandia è imputato in un processo dov’è accusato di aver pagato 600mila svanziche ad un testimone, un certo Millius, abitante di un Regno viciniore, perché dichiarasse il falso in altri due processi dove pure il Granduca era imputato per corruzione, falso in bilancio e finanziamenti illeciti per 10 miliardi di svanziche, a un boiardo locale. Il processo era alle ultime battute, ma il Granduca, che gode di un vasto consenso popolare, fece approvare una legge che lo sottraeva a qualsiasi processo, finché fosse rimasto in carica.

Il processo andò avanti per gli altri imputati, il Tribunale di Curlandia sentenziò, in primo grado, che il testimone era stato effettivamente corrotto condannandolo a quattro anni e mezzo di reclusione. Se il Millius è corrotto la logica vorrebbe che il Granduca sia il corruttore dato che le 600mila svanziche sono state pagate da una sua società e nel suo interesse.

Ma il Granducato di Curlandia è un Regno ai confini della logica e quindi l’avvocato del Granduca ha affermato che "la sentenza non consente di dire che il Granduca è un corruttore" cosa che oltre ad esser gravissima in sé riverserebbe sugli altri due processi da cui il Granduca è uscito proprio grazie alle testimonianze false di Millius. Comunque siamo in primo grado e vale per Millius (e quindi, indirettamente, anche per il Granduca) la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva.

Ma verrà il giorno in cui il Granduca dovrà lasciare il suo scranno a un qualche erede e potrà quindi essere processato. Ma il processo dovrà ricominciare dall’inizio. Poiché in Curlandia i processi durano un’infinità di tempo ci sarebbe stato comunque il rischio della prescrizione. Per il Granduca è diventata certezza. Nel frattempo infatti il Granduca ha fatto votare una legge che dimezza i tempi della prescrizione. A suo tempo quando la legge fu varata qualcuno ne fece notare l’assurdità: poiché in Curlandia i tempi dei processi continuano ad allungarsi la logica avrebbe voluto che fossero allungati anche i tempi della prescrizione e non abbreviati.

Ma il Granducato di Curlandia vive ai confini del mondo della logica. Il dimezzamento della prescrizione è uno dei motivi per cui tutta una schiera di malandrini invece che in galera è a piede libero, cosa di cui la gente di Curlandia si lamenta assai, non addebitandola però al Granduca ma ai magistrati che applicano le leggi volute dal Granduca. È uno dei prezzi che gli abitanti di Curlandia hanno dovuto pagare per assicurare al Granduca la certezza dell’impunità dato che il suo processo non arriverà mai a sentenza.

La cosa divertente è che il Granduca, il suo Gran Visir della Giustizia, i suoi Commodori sono dei severi assertori della certezza della pena. Quando riguarda gente di altri giri. Curlandia è infestata, per la verità non più che in passato, da stupri, compiuti sia da aborigeni che da individui venuti d’altrove. Lo stupro è un reato assai grave, ma non tanto più grave, poniamo, della corruzione di un testimone o di un magistrato. Per i presunti stupratori si è inventato un istituto mai esistito nell’ordinamento di Curlandia: l’anticipo della pena.

Chi è accusato di stupro deve essere sbattuto in galera subito a prescindere, nonostante l’istituto della carcerazione preventiva abbia tutt’altro scopo che quello di un anticipo di pena. La presunzione di innocenza, sempre invocata a gran voce dal Granduca, dal suo Gran Visir, dai Commodori quando ci son di mezzo loro, è diventata una presunzione di colpevolezza. E se uno di questi presunti stupratori, come può accadere per ogni reato, risultasse, dopo due anni di galera, innocente? Allora si può star sicuri che nel Granducato di Curlandia, regno ai confini del mondo, della realtà, della ragione, della logica, dell’equità, della giustizia, dell’etica e della decenza, il Granduca, il Gran Visir e i Commodori sarebbero i primi a menar scandalo gettando la croce addosso al magistrato colpevole di aver applicato le leggi da loro volute.




Un seduttore androgino di nome Silvio
di
Andrea Cortellessa – ilriformista.it - 27 Febbraio 2009

IMMAGINE. Un libro sul «corpo del capo», una foto che lo ritrae, inequivocabile. L’altra faccia del machista e dongiovanni è un Berlusconi «che non ha mai smesso di civettare con noi». Il complimento più bello mai ricevuto dal premier? «Sei una gran bella figa!». Unico scopo, allontanare da sé la morte, «il vero tabù».

berlusconidancingGuardate la fotografia qui a destra. Sembra passato tanto tempo da quando ci s’invitava a non demonizzarlo, a liberarci dalla sua «ossessione». Si ricorderà come il dimissionario segretario del Pd, nella campagna elettorale destinata a sancirne il definitivo trionfo, si spinse sino a censurare il nome del «candidato dello schieramento avverso». Come se ogni censura non fosse in primo luogo una preterizione: presenza tanto più schiacciante quanto più rimossa. Un calco vuoto che s’è rivelato maschera funebre: pietra tombale su ogni residua ipotesi di poterglisi opporre.

La verità è che incredibilmente la «sinistra italiana» - o quanto ci ostiniamo a designare con quest’ossimoro storico - non ha ancora smesso di sottovalutare Berlusconi. Se i suoi fan lo idolatrano acriticamente, nostro compito storico è allora esercitare una critica dell’idolo, del feticcio-Berlusconi. Anzitutto prendendo atto che è la sua l’entità storica più rilevante degli ultimi sessant’anni, in Italia; e tra le più importanti in assoluto. Alla fine dello scorso secolo James G. Ballard ironizzava sul panico di cui erano preda i redattori di un magazine che vedeva trionfare, al referendum fra i lettori su chi fosse stato il più importante personaggio del Novecento, ovviamente Adolf Hitler. È un residuo di moralismo buonista (che sta passando di moda a una tale velocità da minacciare di farcelo presto rimpiangere) quello che sdegna queste scale di grandezza - non ovviamente, «di valori».

Ma se alcuni fra i maggiori filosofi del secolo passato non hanno mancato di interrogare la figura demoniaca di Hitler, latita ancora un vero sforzo ermeneutico su cosa significhi (o, piuttosto, su cosa abissalmente si rifiuti di significare) Berlusconi. (Unica rilevante eccezione, poco prima del suicidio del 1994, Guy Debord dei Commentari.) Pesa ovviamente, in tal senso, la non trascurabile circostanza che Hitler è morto, e Berlusconi no. Il suo potere di intimidazione, tale da soddisfare la più abietta libido serviendi dei veti introiettati, è così evidente da non venir più neppure percepito. Non ci fa indignare neppure che la sola Rai mancasse, giorni fa, tra le reti televisive inviate a documentare il processo Mills. È sin troppo ovvio che sia così. Ma non suona casuale che il sempre antiretorico, mai apocalittico Marco Belpoliti includa fra i ringraziamenti di questo suo libro straordinario, Il corpo del capo (pp. 160, € 12.00), il direttore di Guanda Luigi Brioschi: il quale gli ha consentito di scriverlo, il libro, «con la serenità di sapere d’avere un editore che lo avrebbe stampato, cosa che di questi tempi non è scontata».

La prima cosa da dire è che questo saggio (nel quale hanno un rilievo assolutamente non marginale le ventuno fotografie che, per la sua gran parte, commenta) costituisce un primo importante passo nella direzione di un compito storico. Prima condizione per combattere Berlusconi - ossia per scongiurare che la sua figura si perpetui, in futuro, come paradigma politico dominante - è infatti capirlo. Anche se sforzarsi di farlo inevitabilmente ci porta ad avvicinarci, a lui, più di quanto saremmo disposti a fare: come nel caso del detective che s’identifica col serial killer. Solo in questo senso il libro di Belpoliti può assomigliare a quello che più lo ha anticipato - col suo stile, com’è ovvio, fisicamente istintivo quanto quello di Belpoliti è concettualmente analitico -: Il Duca di Mantova di Franco Cordelli (il quale ne ebbe in cambio, ricorda Belpoliti, una causa da Cesare Previti: recentemente vinta dallo scrittore, come egli stesso racconta - riproducendone le carte processuali - nell’Almanacco Guanda sul Romanzo della politica curato da Ranieri Polese). Insieme alle analisi mediologiche della scuola di Alberto Abruzzese e all’acume giornalistico di Filippo Ceccarelli, è del resto proprio il «romanzo-conversazione» di Cordelli a costituire pressoché l’unica fonte italiana di una bibliografia - come sempre, in Belpoliti - d’invidiabile densità interdisciplinare.

Una delle intuizioni del Duca di Mantova di Cordelli (che, sin dalla scelta del titolo verdiano, scrive questa storia italiana all’insegna del melodramma, per lo stile, e della seduzione proterva per il contenuto) è che appunto la seduzione esercitata da Berlusconi sui suoi elettori-sudditi sia di natura fondamentalmente sessuale. Proprio il Berlusconi machista e dongiovanni (in omaggio a una sin troppo ovvia vulgata psicanalitica) farebbe leva, in realtà, su una propria segreta componente androgina. Il volto risolutamente glabro, l’ossessione per la capigliatura e in generale per il corpo, la struttura delle pose con le quali ha sempre studiato di proporsi, lo sguardo che rivolge in camera restando, tuttavia, sempre sfuggente (sono, le prime del libro, le pagine più suggestive di Belpoliti: che compie il miracolo di tradurre in acuminata filosofia politica, ma anche in una specie di raggelante satira di costume, tutte le tradizioni di pensiero sull’immagine: da Barthes alla Sontag, da Baudrillard a Morin, passando per le intuizioni di Calvino e Pasolini), mostrano un Berlusconi che con noi, in effetti, non ha mai smesso di civettare. Nella classica analisi di Georg Simmel (che il pc si ostina a tradurlo in «Rimmel») «lo sguardo con la coda dell’occhio, il capo voltato a metà […] un allontanarsi che al tempo stesso è collegato a un concedersi furtivamente».

È quanto mostra l’immagine qui riprodotta. Berlusconi è ritratto mentre raccoglie l’ovazione dei suoi, a una convention di Forza Italia. Il passo nel quale lo scatto di Giorgio Lotti lo ha immobilizzato - centro della foto, la postura dei piedi - è quello col quale l’étoile del balletto offre il proprio corpo glorioso all’abbraccio della folla entusiasta. «Un ammiccamento, un gesto di una civetteria inusuale, ma anche un chiaro messaggio di natura sessuale». E del resto lo stesso Berlusconi una volta ha osato dichiarare: «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silvioooo, Silvioooo: sei una gran bella figa!” È stato il complimento più bello della mia vita».

berlusconi-tetroMa la parte più emozionante del libro è l’ultima. Qui si fa strada - dopo i visual studies e la body history mutuata da Sergio Luzzatto - un’altra costellazione di pensiero. E anche la scrittura di Belpoliti cambia. Da analitica quasi gelidamente connotativa (la solo apparente indifferenza rispetto a Baudrillard e Warhol), s’innerva di torsioni che non gli sono abituali: per spingersi a toccare il vero tabù, il limite indicibile della mirabile e orrorosa ventura che condensiamo nel nome-mana di Berlusconi. La sua morte, cioè. Fantasmatizzata da molti, sempre scongiurata dal diretto interessato.

Anche le sue ultime esternazioni, improntate a un ineffabile humour noir surrealista - Eluana Englaro capace di partorire, i desaparecidos in gita -, a ben vedere mirano a un unico scopo: allontanare da sé l’idea della morte. Venuto meno, come ci ha mostrato Zygmunt Bauman, il pensiero della morte individuale come limite (termine che circoscrive l’esistenza e le dà senso), è tramontata di converso l’ipotesi di un’immortalità delle opere (cioè di quanto intendiamo lasciare al futuro) - come evidenzia la politica culturale che proprio a Berlusconi fa capo. Ci resta solo, dunque, la pratica di un’indeterminata medicalizzazione dell’esistenza. E infatti, mai come in questo momento, la pratica politica e il progetto individuale di Berlusconi coincidono. L’immortalità, relativa, è solo quella che possiamo acquistare: e in questo campo, certo, lui non conosce rivali.

Ma la nostra immagine rivela di noi, sempre, più di quanto ci studiamo di farle dire. L’ultima fotografia del libro, realizzata l’anno scorso da Alex Majoli, sembra mostrarci un Berlusconi «letterale». Che finalmente somiglia, cioè, a quanto - persino in lui - è reale: «È fermo davanti a una tenda bianca, le mani dietro la schiena, il volto girato verso di noi. Non sorride, e gli occhi appaiono lontani, spenti. I due pesanti tendaggi giallo oro sui lati, tenuti da due cordoni, suggeriscono una messa in scena quasi lugubre». Solo qui il corpo del capo mostra la propria umana fragilità (come Robert Guédiguian, qualche anno fa, ci mostrò quello di François Mitterrand, in visita ai sepolcri reali di Saint-Denis, nel film Le passeggiate al campo di Marte). Ineluttabilmente «il Menzogna» - come lo chiamò nei suoi ultimi versi Giovanni Raboni - si avvicina a quanto per tutta la vita ha fuggito e negato: la verità. La sua e quella di tutti: cioè «l’insondabile intimità con la morte». Perché prima o poi, conclude Belpoliti, «il tempo della verità di sé arriva per tutti, governati e governanti, umili e potenti, gregari e capi».




Appello contro la Dittatura Bancaria e Tecnofinanziaria
di Massimo Fini - www.movimentozero.org - 26 Febbraio 2009

No alla vita basata sul prestito e sull’usura
No al debito eterno degli Stati, dei Popoli e dei Cittadini
Il Popolo (attraverso lo Stato) torni titolare della Sovranità Monetaria.

La questione della Sovranità Monetaria non è questione economica. Riguarda tutti gli aspetti della nostra vita. La Banca Centrale Europea, proprietà delle Banche Nazionali Europee, come Bankitalia, emette le banconote di Euro. Per questa stampa pretende un controvalore al 100% del valore nominale della banconota (100 euro per la banconota da 100 Euro), appropriandosi del poter d’acquisto del denaro che crea a costo zero e senza garantirlo minimamente.

E’ un’incredibile regalia truffaldina ai danni della popolazione intera. Gli Stati pagano questa cifra con titoli di Stato, quindi indebitandosi. Su questo debito inestinguibile, pagheranno (pagheremo) gli interessi passivi per sempre. Con le tasse dei cittadini, o vendendo a privati beni primari, come le fonti d’acqua.

Per contenere il debito pubblico, che è generato soprattutto dal costo dell’emissione del danaro che lo Stato paga alla BCE, ogni governo è costretto ad aumentare una pressione contributiva diretta ed indiretta sempre più alta nel tempo, che per alcuni soggetti, i più deboli, corrisponde ad un prelievo forzoso di oltre il 60% del proprio guadagno.

Questo enorme profitto è incamerato ingiustamente, illegittimamente ed anticostituzionalmente dalla BCE, ovvero dai suoi soci, le Banche Nazionali, a loro volta controllate da soggetti privati. Queste Banche sono di proprietà privata, e, soprattutto, di gestione privata, anche se ingannevolmente vengono fatte passare per “pubbliche”. Gli utili che traggono dalla emissione monetaria vengono occultati attraverso bilanci ingannevoli, in cui si fa un’arbitraria compensazione dei guadagni da Signoraggio con inesistenti uscite patrimoniali. Dopo 60 anni di Signoraggio (il guadagno sull’emissione) esercitato da Bankitalia e BCE, l’Italia ha un enorme debito pubblico generato esclusivamente dai costi per l’emissione del danaro pagati alle Banche Centrali.

Se l’emissione del danaro fosse stata affidata allo Stato, senza creare debito, oggi non avremmo un solo euro di debito pubblico e le tasse da reddito potrebbero non esistere od incidere minimamente sui redditi da lavoro. Tutti i costi sociali (pubblico impiego, opere, scuole, ospedali) si sarebbero potuti coprire con i proventi da IVA (imposta sul valore aggiunto) magari maggiorata al 30% per i prodotti di lusso e non popolari, e da tasse su transazioni soggette a pubblica registrazione.

Senza usura contro lo Stato da parte delle Banche Centrali, che ha costretto lo Stato a vessare i propri cittadini con tasse spropositate (ricordate il prelievo sul conto corrente voluto dal banchiere Ciampi, travestito da uomo politico?), non bisognerebbe lavorare 30 anni per comprare una piccola casa, pagando tassi da usura. Non esisterebbe il degrado sociale, la povertà, il precariato, la delinquenza come mezzo di sopravvivenza di massa.

Senza il Signoraggio delle Banche Centrali gli Stati non avrebbero più debiti e non sarebbero più costretti a tassare e tartassare i propri cittadini, a sottoporli a forme di controllo poliziesco per la determinazione dei redditi. I guadagni da lavoro dipendente ed autonomo sarebbero tutti legittimi, provati e dichiarabili senza timore, senza evasione, senza elusione, e l’unica tassa da riscuotere sarebbe quella sull’acquisto di beni e servizi, favorendo quelli per la sussistenza con aliquote più basse ed alzando le aliquote per i prodotti voluttuari e di lusso.

Ritornando la sovranità monetaria nelle mani degli Stati sovrani si eliminerebbe il debito degli stessi e di conseguenza di larga parte della popolazione. L’esistenza di noi tutti, condizionata e vincolata fin dalla nascita dal principio usurocratico del debito sarebbe sollevata dall’angoscia da rata, da scoperto di conto corrente, da pignoramento, da sfratto, da banca dati della puntualità dei pagamenti. Le nostre vite sarebbero liberate dall’assillo dal lavoro, del doppio lavoro, del bisogno di guadagnare tanto, per poi pagare il 60% del proprio guadagno allo Stato, perché lo Stato è sotto l’usura dei Banchieri.

Merita trattazione a parte l’analisi delle influenze sulla nostra vita dell’assillo economico. Influenze negative di carattere psichico, culturale, sociale. Con i drammi della povertà, dell’emigrazione, del doppio lavoro familiare, del lavoro precario, del lavoro insicuro, delle pensioni minime, che, senza la voracità da usura delle Banche Centrali, si sarebbero potuti evitare.


Sottoponiamo l’appello a deputati, senatori, giornalisti, intellettuali, contestatori,
anticonformisti, per promuovere la proposta di legge che faccia tornare l’emissione monetaria in mano statale, ovvero politica e popolare. Diffondiamo la verità negata: viviamo in una dittatura bancaria che impone a tutti l’angoscia esistenziale della vita basata sui debiti.

Azzeriamo il debito degli Stati
Eliminiamo la schiavitù degli indebitati per sopravvivere
Riprendiamoci la nostra vita e la nostra libertà.

Massimo Fini, Marco Francesco De Marco, Valerio Lo Monaco, Alessio Mannino, Andrea Marcon