martedì 10 marzo 2009

Crisi economica globale: la fine del PIL?

Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale nel 2009 potrebbe non esserci crescita a livello mondiale ma un calo del PIL globale.
Lo ha affermato il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, in un discorso pronunciato a Dar es Salaam (Tanzania) dove sono riuniti i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei 53 Paesi africani per tentare di prospettare strategie anticrisi per il continente.

Per Strauss-Kahn, "Il mondo è in grande recessione. L'Fmi si aspetta che la crescita mondiale rallenti sotto lo zero quest'anno, la peggiore prestazione da sempre per molti di noi. Il continuo peggioramento della situazione finanziaria globale, combinato col calo dei consumi e della fiducia delle imprese stanno deprimendo la domanda globale".

Il Fondo monetario internazionale avverte anche che le banche nel mondo rischiano di dover fronteggiare altre perdite, perchè non tutte le attività a rischio sono ancora state rivelate. Per Kahn le nuove perdite bancarie corrisponderebbero ad una "grossa somma". Infatti già in molti, tra cui l'Ue, in vista del G20 di Londra, hanno chiesto di raddoppiare il fondo del Fmi per la crisi, portandolo da 250 a 500 miliardi di dollari.

Intanto ieri il commissario Ue agli Affari economici e monetari Joaquin Almunia al termine della riunione dei ministri finanziari dell'Eurogruppo a Bruxelles e alla vigilia dell'incontro mensile dell'Ecofin aveva dichiarato "La ripresa ci metterà più tempo di quanto si potesse prevedere qualche mese fa. I rischi al ribasso per la crescita sono aumentati perché da una parte i flussi di credito restano bassissimi e dall'altra abbiamo bruttissime cifre sulla produzione industriale e bruttissime notizie sul fronte della ripresa della fiducia sui mercati. Se i piani di sostegno alle banche avranno effetti positivi è ancora presto per poterlo dire. Presenteremo le nuove previsioni a maggio, ma tenendo conto dei rischi al ribasso che si sono materializzati tendo a pensare che questo scenario per una ripresa sarà più nel 2010 che nel 2009".

Aumenta quindi la speranza che il PIL sparisca presto dalla scena mondiale quale unico e fallace punto di riferimento per giudicare le condizioni economiche di un Paese.



Il Signor PIL: un buffone pericoloso

di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 9 Marzo 2009

Siamo bombardati da notizie che descrivono la nostra realtà, la qualità della nostra vita, il livello d’importanza della nostra nazione attraverso statistiche e numeri. Non esiste servizio, articolo o telegiornale che nel descrivere l’andamento piuttosto che lo stato dell’economia non parta e non finisca con una sterile elencazione di percentuali e grafici, che hanno come indiscusso nonché unico punto di riferimento il PIL: il Prodotto Interno Lordo. Noi ascoltiamo attoniti i commenti, mentre il nostro occhio inorridisce davanti a grafici e proiezioni che non hanno nulla di comprensibile. Istintivamente siamo portati a disinteressarci rispetto a quanto viene detto, dando ragione a quanti credono che la conoscenza sia potere e che dunque debba essere competenza di pochi.

Nel far questo, purtroppo, nessuno che ci dice questo signor PIL, in realtà, chi sia, da dove viene, come si calcola e soprattutto quale direzione ci suggerisce di prendere. Iniziamo a capire chi sia questo sconosciuto dispensatore di saggezza. Per Prodotto Interno Lordo s’intende in economia il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno) e destinati ad usi finali (consumi finali, investimenti, esportazioni nette); non viene quindi conteggiato nel calcolo la produzione destinata ai consumi intermedi, che rappresentano il valore dei beni e dei servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e nuovi servizi.

Il signor PIL può essere considerato anche come il valore totale della spesa fatta dalle famiglie per i consumi e dalle imprese per gli investimenti (l'identità vale in quanto la quota del prodotto destinata alla vendita ma non effettivamente venduta si traduce in un aumento delle scorte, che sono una componente degli investimenti) oppure come la somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese. Tale Prodotto è detto Interno in quanto comprende il valore dei beni e dei servizi prodotti all'interno di un paese, indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce. È detto poi Lordo perché è al lordo degli ammortamenti, intendendosi per ammortamento il procedimento con il quale si distribuiscono su più anni i costi dei beni a utilità pluriennale.

Ad oggi è la misura basilare usata in macroeconomia ed è l’indicatore a partire dal quale vengono pianificate le politiche economiche del governo. Sappiamo, quindi, che se il signor PIL ingrassa il nostro governo è contento e ci racconta che tutto va bene, ma se il signor PIL, dopo essersi divorato mezzo mondo, inizia a perdere anche un grammo di tutto quel lardo ammassato in anni e anni di saccheggi, ecco che i governanti lanciano l’allarme: siamo in recessione, dobbiamo fare qualcosa per invertire la tendenza.

L’aspetto ridicolo della questione sta nel fatto che questo misterioso santone non solo concentra l’attenzione delle masse su di un concetto di sviluppo insostenibile, ma anche come indicatore macroeconomico è sostanzialmente fallace. Il Prodotto Interno Lordo si calcola, infatti, sui prezzi di mercato (PILM), arrivando così all’assurdo di considerare un avanzamento del benessere della società persino un aumento delle tasse (!). Se, infatti, il governo decide di aumentare le tasse sul lavoro o sull’impresa il risultato sarà l’inevitabile aumento dei prezzi per via della traslazione dell’effetto della tassa sul consumatore finale. Si registrerà, così, un aumento del PIL per la felicità dei governanti che – s’immagina – non soffriranno particolarmente dell’aumento dei prezzi. Dopotutto è il mercato, dolcezza.

Se si volesse conoscere veramente il livello di produttività di un paese si dovrebbe seguire sicuramente un altro il criterio. In primo luogo, non si dovrebbero calcolare gli ammortamenti come utile, perché l’attività economica per essere descritta correttamente deve essere descritta per quella che è e non per quella che sarà o per quella che dovrebbe essere. Non più, dunque, un Prodotto Interno Lordo ma un Prodotto Interno Netto. In secondo luogo, non dovrebbero essere utilizzati come riferimento economico i prezzi del mercato ma i costi dei fattori (PINF), il prezzo cioè al netto delle imposte indirette.

Ma andiamo oltre. Ciò che più importa è la direzione che ci indica il nostro falso tuttologo dell’economia. L’assillo dell’economia rimane, infatti, sempre e soltanto uno: crescere. Crescere sempre, senza immaginare un possibile limite ambientale né un’eventuale saturazione del mercato. Il nostro signor PIL oltre ad essere un ciarlatano è anche particolarmente stupido. Ad oggi non ha infatti ancora afferrato un semplice fatto che per gli scienziati è ovvio: la dimensione della terra è fissa. Né la superficie né la massa del pianeta possono crescere o restringersi. La stessa cosa vale per la quantità dell’energia terrestre: la quantità assorbita dalla Terra, seppur impressionante, è equivalente a quella che la terra irradia. La dimensione dell’intero sistema – la quantità delle acque, delle terre, dell’aria, dei minerali e di tutte le altre risorse presenti nel pianeta su cui viviamo - è fissa. Abbiamo così un’economia lineare che prevede l’estrazione, la lavorazione, la distribuzione, il consumo e il rifiuto dei beni mentre il nostro ecosistema è circolare, in costante trasformazione e perenne trasformazione.

Il cambiamento più importante avvenuto in tempi recenti sulla Terra è stato l’enorme crescita dell’economia che ha richiesto una parte sempre più grande delle risorse planetarie. La popolazione mondiale ha impiegato millenni per arrivare agli inizi del novecento a contare due miliardi di anime, salvo poi impiegare solo un secolo, quello appena trascorso, per triplicarsi. Il numero degli animali, delle automobili, delle case e dei frigoriferi è, come se non bastasse, aumentato in modo ancor più esponenziale. L’attuale monolitica idea alla base della nostra economia sta ora raggiungendo il punto di rottura, il momento cioè in cui la corsa allo sviluppo supererà la sostenibilità terrestre. Basta pensare che se tutto il mondo consumasse come gli Stati Uniti sarebbero necessari cinque pianeti come il nostro, per comprendere l’insostenibilità di questo modo di produrre e di consumare. Di pianeta, infatti, ne abbiamo solo uno.

Seguendo le dritte del nostro buffone, infatti, le principali filosofie di pensiero degli economisti sono tutte concentrare al sistema della circolazione del settore, a come distribuire in modo efficiente l’energia e le risorse, mentre tendono ad ignorare il suo sistema di smaltimento. È questo il motivo per cui questo menzognero ciarlatano non fa altro che ripeterci continuamente che non ci sono limiti alla possibilità della sua crescita.

È questo, dunque, un sistema in crisi. Un sistema che non funziona perché non può funzionare. Per nostra fortuna esistono persone che riescono ancora a ragionare con la propria testa e a riconoscere le bugie. Esistono persone che lavorano nell’ estrazione per salvare le foreste e la salute dei nostri mari e dei nostri laghi; persone che lavorano nella lavorazione per produrre in modo pulito, persone che si occupano dei lavoratori, del commercio equo e solidale, del consumo consapevole; persone che si attivano per bloccare discariche ed inceneritori e, cosa molto importante, per riportare il nostro governo sulla retta via, in modo che sia veramente formato dal popolo per il popolo. Tocca solo credere a quanto ci dicono e sostenere i loro sforzi, ognuno secondo le proprie possibilità.




Nella Grande Crisi la “sovranità del Consumatore” non basta più
di Marcello Villari - Megachip - 8 Marzo 2009

Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.

Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.

Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri - cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.

E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.

Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.

Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.

Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.

All’origine di questa visione “leggera” - per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.

Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud - i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).

Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.

Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.

In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.

Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?

In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.

Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola - era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.

Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…

Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…

Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama - ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia…




I denti dei sovrani che ridono in brutti tempi
di Paolo Ciofi - Megachip - 9 Marzo 2009

Al termine della sua «ricognizione» al centro di Roma, come lui stesso l’ha chiamata, ha constatato che le cose vanno piuttosto bene: i commercianti vendono, i consumatori acquistano, i prezzi scendono… La produzione crolla? La cassa integrazione aumenta del 560 per cento? Quisquilie e pinzellacchere, per dirla con Totò. A meno che non si tratti delle solite dicerie degli untori, cioè dei comunisti.

Dunque, la parola d’ordine è chiara: continuate a spendere, la crisi non è così tragica. È questo il pensiero stupendo, profondo come l’acqua in un catino, del capo del governo. Non di un dilettante allo sbaraglio, e neanche di un alieno piovuto in Italia da un altro mondo. Ma come può spendere chi non lavora e non ha un soldo in tasca? Berlusconi dovrebbe spiegarlo ai licenziati e ai disoccupati, ai quali nega i soldi per vivere.

Lui, che all’inizio di quest’anno - secondo i dati resi noti da «Italia Oggi» - ha intascato come principale azionista del gruppo Fininvest-Mediaset la modesta somma di 159 milioni, 335 mila, 953 euro e 92 centesimi: dividendi superiori di oltre la metà ai 102 milioni che si era messo in tasca l’anno prima. Se non lo sapevate, nella tempesta della crisi c’è anche chi guadagna.

Come il finanziere Berlusconi appunto, che senza imbarazzi e senza vergogna può tranquillamente continuare a spendere, con il portafoglio gonfio al posto del cuore e del cervello. I finanzieri - denunciava Roosevelt, il presidente del New Deal che ha salvato il capitalismo - considerano il governo «una mera appendice dei loro affari».

E aggiungeva: «Ora sappiamo che il governo esercitato dalla finanza organizzata è altrettanto pericoloso del governo della malavita organizzata». L’ottimismo del capo del governo fa spavento. Berlusconi ride? Attenzione, ci ammonisce il sommo poeta romanesco: «Chi ride che fa? Mostra li denti».