lunedì 9 marzo 2009

Iraq: meno truppe, piu' business

In Iraq, nonostante autobombe e kamikaze colpiscano ancora (solo 4 giorni fa un’autobomba nel mercato del bestiame di Hamza a 120 Km a sud di Baghdad ha provocato almeno 12 morti e circa 60 feriti), il livello di violenza e' in effetti calato drasticamente nel corso degli ultimi mesi.

E ieri gli Stati Uniti hanno deciso di accellerare il ritiro delle proprie truppe riducendole di circa 12.000 unità nei prossimi sei mesi, secondo quanto annunciato dal portavoce del governo iracheno, Ali al-Dabbagh, nel corso di una conferenza stampa a Baghdad insieme al portavoce dell'esercito statunitense in Iraq, il generale David Perkins.
Il generale Perkins ha spiegato infatti che "Due brigate combattenti che dovevano essere ritirate nei prossimi sei mesi, insieme con servizi di supporto come logistica, genio e intelligence, non saranno sostituite".

Gli Usa hanno oggi in Iraq circa 142.000 militari. Una brigata combattente ha dai 4.000 ai 5.000 soldati. Il portavoce iracheno al Dabbagh ha ricordato che anche "4.000 soldati britannici avranno lasciato l'Iraq nel luglio 2009, conformemente all'accordo di sicurezza fra la Gran Bretagna e l'Iraq".

Qui di seguito un aggiornamento sulla situazione irachena, in particolare sui promettenti business pronti a partire.
E' quasi finito il tempo delle armi e inizia invece il momento di passare all'incasso.



Iraq, L’Italia al gran bazar di Baghdad
di Giovanni Porzio - Panorama.it - 7 Marzo 2009

L’Italia torna in Iraq. A sei anni dalla caduta di Saddam Hussein, non sono i soldati a rimettere piede in Mesopotamia ma le aziende italiane interessate al gigantesco business della ricostruzione e allo sfruttamento dei più ricchi giacimenti inesplorati di idrocarburi del pianeta. Dopo la visita questa settimana a Baghdad del ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, l’ENI, in pole position per i pozzi di Nassiriya, potrebbe essere la prima compagnia petrolifera occidentale a firmare un contratto con il governo iracheno. “Nei mesi scorsi il numero di delegazioni è cresciuto” conferma a Panorama l’ambasciatore Maurizio Melani. “Arrivano piccoli e medi imprenditori, come pure i manager delle grandi industrie”.

A richiamare le imprese sulle rive del Tigri è il miglioramento della sicurezza, frutto della nuova strategia del Pentagono e del rafforzamento del governo di Nuri al-Maliki. Tanto che Barack Obama ha annunciato la “fine della guerra” e il ritiro delle forze americane entro il 31 agosto 2010. Gli insorti sono ancora attivi a Mosul e a Diyala, i kamikaze continuano a fare vittime, ma il numero degli attentati è drasticamente diminuito.

Nella capitale si respira un’atmosfera diversa. I Marines sono spariti dalle strade, ora controllate dalla polizia irachena. Molti posti di blocco sono stati rimossi e alcuni tratti dei muri di protezione intorno ai quartieri sono stati demoliti. Sulla Zona verde non piovono più razzi.

I negozi di Karrada street, stracolmi di elettrodomestici e abbigliamento turco, non chiudono prima delle 22. Mutanabbi, la via dei librai, è stata ricostruita. Le rivendite di alcolici e persino qualche locale notturno hanno riaperto. E il venerdì il lungofiume Abu Nawas si riempie di coppie e famiglie che osservano divertite il rinnovarsi della tradizione del “masgouf”, la carpa del Tigri arrostita sui fuochi di legna.

La presenza italiana non è venuta meno neppure negli anni più duri del conflitto. La missione archeologica ha completato la riabilitazione del Museo nazionale, inaugurato il 23 febbraio. Il Provincial Reconstruction Team di Nassiriya è da tempo impegnato in programmi di formazione. E nella base di Camp Dublin, a Baghdad, i carabinieri hanno già addestrato oltre 3 mila agenti della polizia irachena.

Ora sono le imprese a farsi avanti. Le aziende italiane hanno già firmato contratti di fornitura per 1 miliardo di dollari nel settore petrolifero, nell’agroalimentare e nei trasporti. La Fincantieri ha varato il 28 gennaio il primo di quattro pattugliatori ordinati dalla marina irachena. Altri accordi riguardano la costruzione di complessi ospedalieri modulari da assemblare in loco.

Inoltre il governo di Baghdad ha chiesto la collaborazione italiana (Astaldi, Snam progetti, Saipem) in progetti di massima rilevanza strategica: la riabilitazione delle raffinerie e delle centrali elettriche e la costruzione del nuovo porto di Fao.

Diciotto anni di embargo e guerra hanno devastato le infrastrutture. Le raffinerie producono a un terzo della capacità; gli oleodotti sono stati sabotati e le corrose pipeline sottomarine sono al collasso; metà della popolazione è senza elettricità, acqua potabile e assistenza sanitaria. Il porto di Fao, con terminal petrolifero, è dunque di decisiva importanza per lo sviluppo dell’Iraq. Insieme al ripristino delle maggiori centrali elettriche: Dora, a Baghdad, e Baiji, a nord della capitale.

Ma è soprattutto l’immensa torta degli idrocarburi ad attirare le major del petrolio. Messe alla porta nel 1972 da Saddam con un decreto di nazionalizzazione, tornano alla carica per rientrare nel ricco mercato mesopotamico: “L’Iraq è la nuova frontiera, la nuova mecca del greggio” afferma l’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, che è già stato due volte a Baghdad, l’ultima il 31 dicembre.

I cinesi sono stati i primi ad approfittare dell’opportunità offerta dal ministro del Petrolio, Hussein Sharistani, alle compagnie straniere. In agosto la China National Petroleum e la Zhenhua Oil hanno firmato un contratto da 3 miliardi di dollari per lo sfruttamento dei pozzi di Ahdab.

Un altro accordo è stato sottoscritto con la Turkish Petroleum. Exxon Mobil, Shell, Total, Chevron Amoco e BP sono in lizza per i giacimenti di Rumaila, Kirkuk, Zubair, West Kurna, Bai Hassan, e Maysan.

Per Nassiriya (l’Italia è il secondo importatore di petrolio iracheno) è in corso una trattativa privata, senza gara d’appalto. Ed è questo l’aspetto più controverso, dal punto di vista giuridico, della vicenda.

La nuova legge sugli idrocarburi è bloccata in parlamento per l’opposizione dei kurdi, che rivendicano una maggiore indipendenza nello sfruttamento dei campi di Kirkuk. Contenzioso che ha spinto Baghdad a escludere dai futuri negoziati le compagnie che hanno siglato accordi con il governo autonomo del Kurdistan.

Sharistani è però deciso ad aumentare la produzione a 6 milioni di barili al giorno nel prossimo decennio. E per questo ha bisogno della tecnologia occidentale. In assenza di normative il ministero del Petrolio si limita a negoziare “contratti di servizio” che prevedono la fornitura di impianti e know-how in cambio di greggio: senza cioè quella condivisione della produzione (”Production Sharing Agreements”) che equivarrebbe, secondo molti deputati iracheni, a una svendita delle risorse nazionali.

La storica diffidenza nei confronti delle “sette sorelle” petrolifere si è manifestata a novembre, quando il parlamento ha bocciato una joint-venture di 4 miliardi di dollari che avrebbe dato alla Shell una posizione di monopolio nel settore del gas. L’accordo, ancora in discussione, assegnerebbe alla società anglo-olandese i diritti esclusivi sull’utilizzo di tutto il gas prodotto nella regione di Bassora.

Le difficoltà non scoraggiano gli investitori italiani: neppure il crollo del prezzo del greggio, che ha costretto Baghdad a rivedere il budget e a tagliare il 40 per cento dei fondi per la ricostruzione. La Drillmec (gruppo Trevi) ha firmato un contratto garantito da una lettera di credito di 104,2 milioni di dollari per la fornitura entro il 2009 di sei impianti di perforazione. E la Edison, interessata alle centrali elettriche, è in corsa anche per aggiudicarsi i giacimenti di gas di Akkas e Mansuriyah, con una capacità di 4-5 miliardi di metri cubi di metano all’anno.




Allora avevamo ragione. L''ENI e il petrolio di Nassiriya
di Fabio Alberti* - www.osservatorioiraq.it - 1 Marzo 2009

Allora avevamo ragione. L’Italia è andata a Nassiriya, per il petrolio. O, almeno, anche per il petrolio. Dopo tutte le smentite seguite in questi anni alle segnalazioni di Un ponte per… ora abbiamo la conferma: sia l’ENI che il Ministero del petrolio iracheno hanno confermato l’esistenza di una gara di tipo particolare “riservata” a ENI, Nippon Oil, e Repsol per Nassiriya, un giacimento di 4,4 miliardi barili con una potenzialità di 300.000 di barili/giorno. L’ENI si è detta “fiduciosa” di aggiudicarsela, e i commenti di Paolo Scaroni, il suo amministratore delegato, ostentano sempre maggiore ottimismo. In sostanza l’affare è fatto.

Ricapitoliamo per chi avesse la memoria corta.
Fine anni ’90, l’Iraq era sotto embargo, l’ENI firma un Production Sharing Agreement con l’azienda petrolifera di Stato irachena per lo sfruttamento del giacimento petrolifero di Nassiriya. L’accordo, secondo un documento del Dipartimento del Commercio statunitense, è in compartecipazione con la spagnola Repsol, vale 2 miliardi di dollari, e ha una durata di 23 anni dall’aprile 1997. Tale accordo è stato confermato dal Governo Berlusconi nelle risposte a interpellanze in merito presentate alla Camera e al Senato. Esso, ci hanno però detto i Ministri, subirà modifiche nel 2001, e non è stato mai onorato.

Febbraio 2003, gli Usa stanno preparando la guerra all’Iraq. Il Ministero delle Attività Produttive pubblica un rapporto, commissionato al professor Cassano, docente di statistica economica all'università di Teramo sei mesi prima della guerra, intitolato “Iraq: le opportunità del dopo Saddam”, nel quale si dice che l’Italia “non deve perdere l’occasione”, e si suggerisce di farsi garantire dagli Stati Uniti che il pre-contratto dell’ENI a Nassiriya sarà in ogni caso onorato.
Non sappiamo se il suggerimento sia stato seguito, ma sembra improbabile che nei colloqui con gli Stati Uniti prima della guerra non si sia mai parlato del futuro del petrolio iracheno.

Il 15 aprile 2003 l'allora Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini annuncia la decisione italiana di partecipare all’occupazione dell’Iraq con una “missione che ha scopo emergenziale e umanitario”. In quella sede il Ministro afferma che devono essere ancora prese decisioni sulla collocazione territoriale della missione militare.

Maggio 2003. Alla “Force-generation Conference for Iraq” convocata dalla Gran Bretagna, che sovrintende l’occupazione del sud Iraq, l’Italia chiede, e ottiene, di stanziare i propri militari nella provincia di Dhi Qar, con capitale Nassiriya.

Giugno 2003, come riferito dal Sole 24 Ore, una delegazione dell'ENI si reca a Nassiriya, a bordo di un aereo militare italiano, prima dell’arrivo delle truppe.

12 novembre 2003, un attentato uccide 19 carabinieri. Claudio Gatti (corrispondente del Sole 24 ore a New York) scrive in un suo articolo, citando fonti della CIA, che l'attentato di Nassiriya era una segnale diretto a colpire non tanto i militari italiani quanto gli interessi petroliferi del nostro Paese, un efferato avvertimento teso ad allontanare l'ENI, cioè ovvero l'operatore economico italiano nella zona.

Tra il 2003 e il 2005 alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica vengono presentate 14 tra interpellanze e interrogazioni che chiedono conto al Governo del possibile legame tra la destinazione a Nassiriya del contingente italiano e gli interessi dell’ENI nella zona.

Il sottosegretario Alfredo Mantica il 22 gennaio 2004, rispondendo a una interrogazione dell’Onorevole Elettra Deiana, afferma: “Nego qualunque collegamento tra la presenza delle truppe e quegli affari”.

Il 30 giugno 2005, il sottosegretario Cosimo Ventucci ribadisce: “Non è suffragata da nessun elemento concreto l'ipotesi che la zona di Nassiriya sia stata scelta come luogo di intervento delle truppe italiane in relazione ad interessi petroliferi del nostro Paese”. Lo stesso Ventucci però, in una intervista, definisce “intelligente” quella scelta. Mentre l'11 novembre 2004 l'allora Ministro degli Affari Esteri Frattini, nella prima Relazione sulla partecipazione italiana alle operazioni internazionali scriveva: "Possiamo attenderci benefici economici dalla stabilizzazione di regioni sensibili per i nostri approvvigionamenti";

L’ENI - va da sé - ha sempre smentito, ma non ha mai smesso di lavorare per mantenere il “diritto di prelazione” su Nassiriya.

Il 5 gennaio 2009 Platts Oilgram, l'autorevolissima agenzia di informazione sull’energia della McGrow Hill, rivela, citando fonti irachene del ministero del Petrolio, che fin dallo scorso agosto era stato firmato un Memorandum of Understanding congiunto con l’ENI e la giapponese Nippon Oil per lo sviluppo del giacimento di Nassiriya e la costruzione di una raffineria della capacità di 300.000 barili al giorno. Platt riferisce anche che all’interno del ministero del Petrolio erano state sollevate obiezioni perché l’accordo era stato realizzato senza gara di appalto e senza il coinvolgimento dell’ufficio competente per i contratti e le licenze. La stessa Platts Oilgram ha informato il 13 gennaio che l’accordo prevederebbe per la Nippon Oil la costruzione della raffineria, e per l’ENI lo sviluppo del giacimento petrolifero.

In effetti nell’agosto 2008 l’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, si era recato in Iraq dichiarando al rientro (a margine di "Cortina Incontra"): "Nella nostra ultima visita in Iraq ci siamo presentati con tutti gli argomenti che ENI può mettere sul tavolo … E credo che la nostra presenza in quel paese possa essere articolata".

Se le rivelazioni di Platt sono vere, l’ENI avrebbe in tasca Nassiriya sin da agosto, e la gara annunciata in questi giorni potrebbe essere nient’altro che la ratifica di una decisione già presa, forse non a caso con due governi “amici”.

Facciamo attenzione ai tempi. In aprile cade il Governo Prodi, che aveva ritirato le truppe, nello stesso mese Scaroni annuncia “L’ENI è pronta a tornare in Iraq” (Repubblica, Corriere della Sera).
Fonti confidenziali ci hanno riferito che l’anno precedente, a seguito del ritiro del contingente militare italiano, gli Usa sarebbero intervenuti per contrastare le trattative sin da allora in corso su Nassiriya.

Ultimo atto. La gara di appalto "riservata".

Dopo una procedura di prequalificazione, con la quale sono state selezionate 35 imprese internazionali (per l’Italia, l’ENI e il Gruppo Edison), ammesse a partecipare al primo round di gare per l'assegnazione di contratti di servizio per lo sviluppo di 8 fra giacimenti petroliferi e di gas iracheni, il ministero del Petrolio di Baghdad ha poi annunciato un secondo giro di gare per la assegnazione di altri 11 giacimenti. Entrambi i round dovrebbero concludersi con l'assegnazione dei contratti entro il 2009. Inspiegabilmente, però, in nessuno dei due round è compreso il giacimento di Nassiriya.

Perché? Era forse già “assegnato”. Cosa ha discusso a Baghdad Paolo Scaroni nella visita lampo di dicembre 2008, appena pochi giorni prima dell’annuncio del secondo round di gare di appalto?

Attendiamo l’esito della gara su Nassiriya per trarre conclusioni. Forse due più due non fa sempre quattro.


*Fabio Alberti è presidente dell'organizzazione non governativa "Un ponte per..."



Iraq, Il Parlamento taglia ulteriormente il budget per il 2009

da www.osservatorioiraq.it - 6 Marzo 2009

Il Parlamento iracheno ha approvato il budget per il 2009, ma con ulteriori tagli rispetto a quelli già fatti, a causa del calo dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali.

Ieri i diversi blocchi politici sono riusciti finalmente a trovare un compromesso, dopo una impasse che durava da settimane, accordandosi su 58,6 miliardi di dollari – una riduzione di altri 4 miliardi di dollari all’incirca, rispetto alla proposta presentata, già frutto di due precedenti tagli che si erano resi necessari.

In origine, nel luglio 2008, il budget per il 2009 era stato fissato in 80 miliardi di dollari, ridotti poi a 67 miliardi in dicembre, e poi in gennaio a 62 miliardi – la cifra arrivata alla discussione del Parlamento.

L’Iraq dipende dai proventi della vendita del petrolio per oltre il 90% delle entrate statali, e il prezzo del greggio è crollato dai 150 dollari al barile di metà luglio 2008, agli attuali 45 dollari – provocando gravi problemi.

Di recente, il premier Nuri al Maliki aveva sottolineato la necessità di diversificare l’economia, esortando al tempo stesso ad aumentare la produzione petrolifera, che nell’ultimo periodo è calata.

Secondo Sami al-Atrushi, un parlamentare membro della commissione Finanze, gli ultimi tagli al budget per il 2009 riguarderebbero spese non indispensabili dei vari ministeri, e non andrebbero a influire sugli stipendi dei dipendenti statali (che sono pari a un terzo delle previsioni di spesa per quest’anno). Informazione confermata da Abbas al Bayati, un deputato sciita molto vicino al governo, che ha riferito che alcuni parlamentari avevano proposto di tagliare il budget del 10%, ma poi l’accordo è stato trovato sul 7 per cento.

Il budget, approvato ieri a maggioranza dei 165 presenti (su un totale di 275 deputati), si basa su una ipotesi di 50 dollari al barile per i prezzi del petrolio, e una capacità di esportazione di 2 milioni di barili al giorno.

“Il governo sa che non è realistico”, è stato il commento di Khalid al Attiya, uno dei due vice presidenti dell’assemblea, che ha aggiunto che il deficit – 20,3 miliardi di dollari secondo le proiezioni – verrà finanziato con le rimanenze non spese del budget per il 2008.

Ora si passa alla ratifica da parte del Consiglio di presidenza, composto dal presidente Jalal Talabani e dai suoi due vice.

La discussione del budget in Parlamento andava avanti da tempo, senza progressi, e in mezzo alle preoccupazioni per il calo dei prezzi del greggio. Ieri, i deputati hanno fatto pressioni perché venisse approvato, dato che l’impasse rischiava di avere ripercussioni in altri settori.

"Il budget dovrebbe essere scollegato dalle questioni politiche, ma, sfortunatamente, viene visto da una prospettiva politica", aveva commentato in una conferenza stampa prima del voto Baha al-Araji, un parlamentare sciita che appartiene al blocco che fa riferimento a Muqtada al-Sadr.

"E’ vero che è pieno di buchi, imperfezioni, e c’è ampio spazio per sprechi e ruberie, ma non possiamo bloccarlo oltre, perché dobbiamo offrire servizi alla nostra gente", aveva sottolineato.



Iraq, ''Il padrino di Teflon''
La nuova Falluja vista da vicino e ancora in rovine
di Dahr Jamail - Tom Dispatch - 12 Febbraio 2009

Attraversando Falluja, una tempo la città sunnita più ribelle in questo Paese, ho visto pochi segni di ricostruzione in corso, di qualsiasi tipo. Almeno il 70% delle infrastrutture cittadine é andato distrutto nel corso dei massicci attacchi statunitensi, prima in aprile e poi nel novembre 2004. Quattro anni più tardi, nel “nuovo Iraq”, la città continua a languire.

Gli scheletri di edifici polverizzati allora dalle bombe, dai mortai, e dalle artiglierie americane sono tuttora allineati lungo la strada principale di Falluja, o quello che ne resta. Uno dei pochi segni tangibili della ricostruzione della città: in questa strada, andata in gran parte distrutta nell’assedio del novembre 2004, sono in corso dei lavori per asfaltarla di nuovo.

Qui la disoccupazione dilaga, le infrastrutture sono tuttora in larga parte in rovina, e decine di migliaia di abitanti scappati nel 2004 sono ancora rifugiati altrove. Ci si poteva aspettare altro, visto lo sforzo fatto per distruggere questa città, e le poche risorse dedicate in seguito alla sua ricostruzione? Falluja è un posto dove i residenti iracheni sono ancora obbligati a portare una carta d’identità biometrica rilasciata dalle autorità statunitensi, e a mostrarla ogni volta che entrano o escono dalla città. Questa carta d’identità la si può ottenere solo dopo che i militari Usa hanno effettuato uno scanning della retina e preso le impronte digitali alle persone.

Il trauma degli attacchi del 2004 é ancora visibile ovunque. Innumerevoli muri di ristoranti, negozi, e case, tuttora bucherellati dai colpi dei proiettili, rendono impossibile trovare un qualunque punto d’osservazione che non riveli le conseguenze di quegli assedi.

Tutto e tutti a Falluja sono stati colpiti al cuore da quell’esperienza, ma non tutti stanno vivendo le conseguenze della devastazione della città allo stesso modo. In realtà, per gran parte del mio “tour” di Falluja, sono rimasto all’interno di una BMW blindata del valore di 420.000 dollari, completa di tutti gli accessori necessari nell’Iraq del XXI° secolo, inclusi compartimento alcolici e finestrini a prova di proiettile.

Una delle ultime volte che mi avevano portato in giro per Falluja in macchina – nell’aprile 2004 – ero con un piccolo gruppo di giornalisti e attivisti. Eravamo riusciti a entrare nella città, allora sotto assedio, dentro un autobus sghangherato, portando aiuti umanitari. Dopo aver osservato con orrore gli F16 Usa sganciare bombe sulla città mentre ci avvicinavamo ad essa dalle campagne circostanti, eravamo entrati e avevamo trovato le strade totalmente deserte, fatta eccezione per i posti di blocco dei mujahidin.

Sarebbe un eufemismo dire che il mio nuovo mezzo di trasporto rappresentava un miglioramento rispetto al 2004, che mi ha lasciato un po' disorientato. La BMW era di proprietà dello sceicco Aifan Sadun, capo del Movimento del Risveglio di Falluja. Grazie al Movimento del Risveglio, che aveva iniziato a formarsi nel 2006 nella provincia di al-Anbar, all'epoca il focolaio dell’insurrezione sunnita – movimento al quale le forze di occupazione americane hanno fornito una notevole quantità di denaro, armi e sostegno di altro tipo – la violenza in gran parte della provincia adesso è praticamente azzerata. E’ impossibile non notare una cosa del genere a Falluja, un tempo nota come la città della resistenza, dato che lì erano avvenuti i combattimenti più duri durante gli anni dell’occupazione americana.

Oggi, a 34 anni, lo sceicco Aifan é forse l’uomo più ricco di Falluja, grazie alla convergenza dei suoi interessi con quelli delle forze d’occupazione statunitensi. La svolta di Aifan è stata questa: era lo sceicco giusto, nel posto giusto, al momento giusto, quando cioè gli americani, disperati per i loro fallimenti in Iraq, decisero di appoggiare la ricostruzione di un’elite tribale nella provincia, dove l’insurrezione sunnita era stata particolarmente feroce dal 2004 al 2006.

Nel "settore dell'edilizia"

Che non ci siano equivoci: non si è trattato di un piano strategico studiato con calma, "made in Usa". Si è trattato di una soluzione d’emergenza, improvvisata sul momento. Dopo tutto, quando i pianificatori statunitensi presero la decisione di appoggiare il Movimento del Risveglio, questo era già per certi aspetti cosa fatta.

Verso la fine del 2006, più o meno, mesi prima che la nuova strategia di Bush – la "surge" - mandasse altri 30.000 soldati americani a Baghdad e dintorni, gli Usa avevano iniziato a pagare acconti agli sceicchi nella zona di al-Anbar, e ad armare le milizie sunnite che questi sceicchi stavano organizzando. Di conseguenza, il numero degli attacchi da parte degli insorti iniziò a calare rapidamente, e così gli americani decisero di allargare questa strategia ad altre province. Le milizie crebbero fino a raggiungere la dimensione di quasi 100.000 combattenti sunniti, pagati per la maggior parte 300 dollari al mese: un reddito non da poco in una città devastata e afflitta da una disoccupazione esorbitante come Falluja.

Il progetto si rivelò presto un successo, e i gruppi venivano chiamati "il Risveglio", i "Figli dell’Iraq" (al-Sahwa) o, termine preferito per un certo periodo dalle forze armate Usa, "Cittadini locali preoccupati". Comunque si chiamassero, la maggior parte dei loro membri erano ex combattenti della resistenza; molti erano anche ex membri del partito Ba'ath di Saddam Hussein, e molti di loro erano – e, ovviamente, sono tuttora – entrambe le cose.

Ma c’é di più nella strategia che gli americani alla fine scelsero per domare l’insurrezione e i gruppi locali di "al Qaeda in Iraq" (AQI), che dall'insurrezione erano nati. In un’intervista con i miei colleghi David Enders e Richard Rowley, nell’estate 2007, lo sceicco Aifan lo dice molto esplicitamente: “Saddam appoggiava alcune tribù e alcuni sceicchi. Usava il potere di alcuni sceicchi nelle loro rispettive aree. In cambio offriva loro denaro, all’inizio. In seguito vennero i grandi appalti, altro denaro, e questo rese questi sceicchi molto ricchi. In Iraq, puoi fare affari con chiunque se hai i soldi. Gli americani hanno usato la stessa strategia, ma l’hanno allargata a tutti gli sceicchi”.

L’obbiettivo principale degli americani non é mai stata la ricostruzione della provincia devastata di al-Anbar. Questa era soltanto l’etichetta data a un progetto il cui vero obbiettivo – dal punto di vista statunitense – era salvare vite americane e ridurre drasticamente il livello di violenza in Iraq prima delle elezioni presidenziali Usa del 2008.

Al giorno d’oggi, sceicchi influenti come Aifan vi diranno che sono ‘nel settore dell'edilizia’. E’ un delicato giro di parole per coprire le loro vere attività, e la voce sotto la quale avvengono molti dei pagamenti. Vedetela in questo modo: ogni spacciatore ha bisogno di un prestanome. Gli Stati Uniti hanno comprato gli sceicchi, che a loro volta avevano tutto l'interesse a farsi comprare. Hanno riacquistato un tipo di potere che era loro sfuggito di mano, e tutti i soldi e le armi hanno permesso loro di dare un impulso consistente al reclutamento di gente nelle tribù sotto il loro controllo, e di costruire il Movimento del Risveglio.

Le ragioni – perché sono più di una – per le quali i leader tribali sono stati così disposti a collaborare con gli occupanti del loro Paese sono, perlomeno col senno di poi, relativamente chiare. Quelli che avevano collaborato con Saddam Hussein nella provincia di al-Anbar, e che avevano avuto il suo appoggio, e poi inizialmente avevano dato il loro appoggio alla resistenza, divennero molto più desiderosi di lavorare con le forze di occupazione quando videro che "al-Qaeda in Iraq" stava erodendo il loro potere.

Nonostante molti sceicchi avessero inizialmente collaborato con AQI, essa si rivelò una minaccia per loro nel momento in cui tentò di imporre la propria ideologia sunnita estremista nella regione - e, cosa forse ancora più significativa, quando iniziò a tentare di interferire nel contrabbando transfrontaliero che aveva permesso a molti sceicchi di continuare a essere ricchi. Vedendo crescere AQI, e vedendo minacciati i propri interessi finanziari e la propria base politica, gli sceicchi furono praticamente obbligati a schierarsi con gli americani.

Di conseguenza, questi sceicchi ottennero supporto per le proprie milizie private, ribattezzate Gruppi del Risveglio, e oltre a ciò, firmarono contratti “edili” con gli americani, intascando milioni di dollari, anche se spesso e volentieri non venivano utilizzati per nessun cantiere. Già nell’aprile 2006 la Rand Corporation aveva pubblicato un rapporto intitolato “Il risveglio di al Anbar”, che identificava in un gruppo di sceicchi un tempo a capo del contrabbando locale e della criminalità organizzata nella zona i nuovi potenziali alleati degli Stati Uniti.

Un esempio clamoroso é lo sceicco Abdul Sattar Abu Risha, il fondatore dei primi gruppi del Risveglio ad al-Anbar, e successivamente il capo dell’intero movimento fino al giorno in cui venne assassinato nel 2007, poco dopo aver incontrato il presidente Bush. Era un fatto risaputo nella regione che Abu Risha fosse principalmente un contrabbandiere, che tentava di difendere i propri affari attraverso un’alleanza con gli americani.

Visti i profitti che il rapporto di cooperazione con gli americani comporta, non c’è da stupirsi se ogni volta che uno sceicco del Movimento del Risveglio viene assassinato, ce n'é sempre un altro pronto a sostituirlo. In effetti, Abu Risha fu presto sostituito nel suo ruolo di “presidente” del Risveglio di al Anbar da suo fratello, lo sceicco Ahmad Abu Risha, anche lui al momento “nel settore dell'edilizia”.

Il sogno di una nuova Dubai

Durante la visita di George W. Bush in Iraq, nel settembre 2007, il mio ospite durante il mio giro a Falluja, lo sceicco Aifan, ebbe il piacere di incontrare il presidente. Secondo lo sceicco, Bush era “molto intelligente, e un fratello”. Nell’estate 2008, lo sceicco avrebbe incontrato Barack Obama. Interrogato su cosa pensasse di Obama, lo sceicco ha risposto a Richard Rowley: “La politica estera Usa tende a non cambiare con un nuovo presidente”. Una foto dello sceicco assieme al Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki é in bella mostra, assieme ad altre, nella sua casa di Falluja.

Per comprendere a fondo le ragioni per le quali capi tribali come Aifan cominciarono a collaborare così strettamente con le forze americane, bisogna tenere in conto la forza delle ondate di violenza che si stavano abbattendo su tutto l’Iraq nel 2006. Mentre autobomba e kamikaze sunniti massacravano gli sciiti, così squadroni della morte e milizie sciiti assassinavano a loro volta i sunniti, quotidianamente.

Prima dell’invasione Usa del 2003, i sunniti erano quasi la maggioranza a Baghdad, la capitale irachena. Nel 2006, erano una minoranza in rapida diminuzione, cacciati via in gran parte dai numerosi quartieri misti di sciiti e sunniti che un tempo erano sparsi in tutta la città, e anche da alcuni quartieri esclusivamente sunniti. Solo a Baghdad, centinaia di migliaia di sunniti dovettero fuggire dalle loro case.

Sul suo blog, Informed Comment, Juan Cole riporta che probabilmente i sunniti ora costituiscono appena il 10-15% della popolazione di Baghdad. Non c’é da stupirsi quindi se i loro leader tribali, inferiori come numero e come armamento su tutti i fronti, sentissero il bisogno di aiuto e, senza avere molte alternative, lo hanno trovato in un’alleanza con la maggiore forza militare del pianeta. Vedendo le proprie finanze, i propri mezzi di sostentamento, e persino le proprie vite minacciati, hanno fatto ricorso alla classica tattica di chi é circondato, che si riassume nella massima: ‘I nemici dei miei nemici sono miei amici’.

Il risultato oggi? Lo sceicco Aifan è un multimilionario. E le sue ambizioni non sono più quelle di un contrabbandiere locale. Vuole "trasformare Anbar nella nuova Dubai”, ha detto a me e a due miei colleghi, mentre percorrevamo le strade malandate di Falluja.

La casa dello sceicco é un palazzo appropriatamente enorme, sorvegliatissimo, e completo di posto di blocco vicino alla strada, due torrette di guardia, e persino due mitragliatrici pesanti piazzate vicino alla porta del suo ufficio. Un gruppo di guardie lo circonda in ogni momento, e vive nel palazzo a tempo pieno per sicurezza.

Durante la nostra prima visita a casa sua, i miei compagni e io abbiamo finito per passare la notte lì, visto che non avevamo fatto in tempo a completare le interviste prima che calasse il sole. Mancavano pochi giorni alle recenti elezioni provinciali, nelle quali la lista dei membri del Risveglio di cui lui faceva parte sarebbe arrivata al secondo posto. Mentre sgranocchiavamo dei deliziosi kebab, lo sceicco ci parlava con orgoglio della sua campagna elettorale, che sperava lo avrebbe catapultato ai piani alti del municipio. “Mi candido”, insisteva, “perché se non lo faccio, certa gentaccia resterà attaccata alla poltrona. Se non ci candidiamo, non possiamo cambiare le cose”.

Dato che la maggior parte dei gruppi sunniti avevano boicottato le elezioni del 2005,l'Iraqi Islamic Party (IIP) un gruppo fortemente religioso, aveva preso il controllo delle sedi del potere a Falluja. Mentre ero con lui, lo sceicco Aifan era visibilmente preoccupato e irritato dalle voci secondo le quali l'IIP stava cercando di fare pressioni sugli elettori e di manipolare le elezioni. “Combatteremo con ogni mezzo necessario se vinceranno con la frode”, aveva detto categoricamente – e, come avrei scoperto presto, aveva già iniziato la sua battaglia contro l'IIP.

Il John Gotti iracheno

A tarda notte, Aifan decise improvvisamente che lo avremmo dovuto accompagnare in una breve visita nel capoluogo della provincia, Ramadi. Voleva consultarsi con un compatriota, lo sceicco Abu Risha, per scrivere assieme a lui una lettera di protesta sulle presunte frodi a opera dell'IIP nel periodo precedente le elezioni. E’ stato interessante notare come, solo due anni dopo la formazione del movimento del Risveglio, i due sceicchi avessero più paura di un partito sunnita che di "al-Qaeda in Iraq".

Durante il tragitto, fece sfoggio degli optional della BMW, tra cui i suoi spessi finestrini dai vetri antiproiettile (estremamente utili se temete di essere assassinati), il comodo compartimento alcolici contenente Johnny Walker e alcune bibite gassate, e uno stereo ultimo modello. Mentre guidava, cellulare in mano e un walkie-talkie a fianco per tenersi in continuo contatto con le sue guardie del corpo che erano nei fuoristrada dietro e di fronte a noi, continuò a parlare entusiasticamente con noi. Essendo seduto davanti, non potevo fare a meno di notare, fin troppo, la pistola che era riposta opportunamente a fianco dello sceicco, sul sedile. Nel retro, per terra, c'erano un fucile a canne mozze e un AK-47.

Il compound di Abu Risha a Ramadi era addirittura più grande del palazzo dello sceicco Aifan – e persino più sorvegliato. Appena arrivati, trovammo un funzionario elettorale già pronto a trascrivere il reclamo scritto di Aifan in merito alle accuse di frodi. Era presente anche il capo della polizia provinciale, un chiaro segno del potere e dell’influenza di questi due uomini uniti da un legame di soldi e potere (Abu Risha é proprietario persino di un allevamento di cammelli).

Una volta terminata la visita, tornammo a Falluja per una cena leggera a casa dello sceicco Aifan, prima di coricarci per la notte come suoi ospiti. Durante la cena la figlia dello sceicco, una bimba timida di circa 7 anni, sedeva accanto a lui. A un certo punto, lo sceicco prese improvvisamente un biglietto da 100 dollari da un mazzo di banconote che avrebbe fatto impallidire qualsiasi mafioso da film, sorrise benevolmente, e aggiunse che non avrebbe dovuto dire nulla alla mamma del regalo.

Era evidente che lo sceicco banconote da 100 dollari ne aveva da buttar via, visti i milioni di dollari che gli sono stati fatti arrivare per i cosiddetti progetti di edilizia. E' così che paga i circa 900 uomini che costituiscono la sua milizia privata. Tutto grazie alle forze armate americane, che continuano a pagare regolarmente – piccoli mattoni di banconote di quei 100 dollari – dato che l’Iraq del dopo invasione rimane in gran parte un'economia di soli contanti.

Prima del nostro viaggio per Ramadi, una pattuglia di Marines americani aveva fatto visita allo sceicco Aifan. Salendo le scale che conducono alla sua sala riunioni, i soldati avevano confiscato le munizioni delle guardie di sicurezza dello sceicco, riconsegnandole solo al termine della loro visita. Era stato un modo delicato per far capire chi é che comanda tuttora in questa parte dell'Iraq, e che rivela fino a che punto arrivi la fiducia tra questi partner uniti dalla necessità.

Dopo un caloroso benvenuto da parte dello sceicco al comandante dei Marines, i due uomini si erano seduti per parlare. Ambedue visibilmente distratti, si guardavano intorno nervosamente. Giocando nervosamente con il suo rosario, muovendo nevroticamente le gambe come uno scolaretto impreparato, lo sceicco diceva al proprio ospite che tutto stava andando per il meglio. La riunione venne ripetutamente interrotta dalle chiamate al cellulare dello sceicco, che, a un certo punto, si era allontanato brevemente per dare il benvenuto a un altro ospite.

Dopo la riunione, fu servito un banchetto. Mentre se ne stavano andando, chiesi a uno dei Marine se incontri del genere fossero all’ordine del giorno. “E’ il nostro lavoro”, rispose. “Andiamo a far visita agli sceicchi. E questo tizio è come John Gotti (Gotti, soprannominato il “padrino di Teflon”, era a capo della famiglia Gambino a New York prima di essere incarcerato).

Avrei preferito evitare di passare la notte a casa dello sceicco, ma le alternative – almeno quelle sicure – erano pari a zero. Nonostante il lusso che ci circondava, iniziammo a capire qualcosa del più recente dilemma dell’Iraq: avevamo una certa "sicurezza", ma nessuna libertà.

Oltre i cancelli del complesso fortificato dello sceicco Aifan, i generatori ronzavano nella notte, fornendo elettricità in una terra nella quale se non ci si può permettere un generatore privato o uno da condividere con il proprio vicino, si è nei guai. A Falluja, come a Baghdad, quattro ore di elettricità al giorno dalla rete pubblica sono considerate un colpo di fortuna. Di solito, un coprifuoco volontario rendeva le strade relativamente deserte dopo che faceva buio.

La città nella quale Aifan vive, ovviamente, è ancora un cumulo di macerie, e i suoi abitanti vivono per lo più in uno stato di sopportazione esistenziale. I Gruppi del Risveglio hanno guadagnato il rispetto di molti iracheni a causa della “sicurezza” che forniscono, ma a quale prezzo?

La ricostruzione deve ancora iniziare veramente nelle zone sunnite, e il movimento, sceicchi e compagnia bella, funzionerà solo finché gli americani continueranno a fare arrivare ai leader tribali i “fondi per la ricostruzione”. Cosa succederà quando questo si fermerà, come sicuramente dovrà essere col tempo? Gli abitanti di Falluja staranno meglio? Oppure questo processo ha semplicemente posto le basi per futuri massacri?


Dahr Jamail, giornalista indipendente, segue il Medio Oriente da oltre 5 anni. E’ l’autore di Beyond the Green Zone: Dispatches from an Unembedded Journalist in Occupied Iraq. Lavora per Inter Press Service, e scrive regolarmente per Tom Dispatch. Ha pubblicato anche su Le Monde Diplomatique, l’Independent, il Guardian, lo scozzese Sunday Herald, The Nation, e Foreign Policy in Focus, per citarne alcuni. Per visitare il suo sito, clicca qui. [Ringraziamenti: a Bhashwati Sengupta, Richard Rowley, Jacqueline Soohen, e David Enders, che hanno contribuito alle ricerche per questo articolo.]

(Traduzione di Tommaso Giordani per Osservatorio Iraq)