mercoledì 4 marzo 2009

Una crisi a ventaglio

La crisi economica mondiale colpisce anche l'Australia che registra la prima crescita in negativo da 8 anni. Secondo i dati pubblicati oggi, nel quarto trimestre 2008 il Pil e' diminuito dello 0,5% rispetto al terzo trimestre, quando la crescita si attestava ancora all'1%.
Il tasso annuo per il 2008 diventa cosi' 0,3%, il peggiore in 17 anni. Una seconda contrazione nel primo trimestre 2009 segnerebbe tecnicamente l'entrata in recessione.

Intanto la scorsa notte nel centro di Atene e' stata incendiata una banca, rappresentando un preecedente di cio' che potrebbe ripetersi ben presto anche in altri Paesi.

E da oggi cambiano pure i vertici di Ubs, la prima banca svizzera. Il presidente Peter Kurer, lascia l'incarico e non si presentera' per essere rieletto dall'assemblea generale del prossimo 15 aprile. Un altro segnale da tenere a mente in futuro.



La parola con la "D"
da Bamboccioni alla riscossa - 4 Marzo 2009

Per pronunciare quella parolina semplice semplice con la “P” ha impiegato quasi sei mesi. Però, alla fine, ce l’ha fatta. Lui, l’inguaribile “ottimista” di Arcore - al secolo Berlusconi Silvio; per la cronaca anche primo ministro del nostro (ex) Belpaese - una manciata di giorni fa è riuscito finalmente a dire a microfoni aperti che cominciava ad essere un tantino preoccupato per l’andazzo dell’economia: “La crisi ha dimensioni non ben definite. Noi la guardiamo con preoccupazione”. Un evento. Un evento di cui val la pena segnarsi la data: era il 13 febbraio 2009.

La “crisi” era esplosa con il crac della banca americana Lehman Brothers, fallita il 15 settembre del 2008. Erano passati la bellezza di 152 giorni di sfrenato ottimismo (“Le nostre banche sono solide”; "Non è un nuovo ‘29" ; “Comprate azioni Eni e Enel” e vedrete che ridere; e cose così). E i quotidiani italiani - Corriere e Stampa, in testa - ci “aprirono” increduli il giornale. Con tanto di titoloni a tutta pagina: “Berlusconi è preoccupato”. Peccato solo che presto la lingua del Cavaliere potrebbe essere chiamata a una sfida ben più ardua. Pronunciare l’impronunciabile. Sdoganando anche in Italia quel vocabolo con la “D” che da un paio di mesi sta al centro del dibattito economico mondiale. Ma che anche grazie a lui stenta a trovare posto sui New York Times e le Cnn de’ noantri. La “D” è quella di “Depressione”.

L’ultimo a parlarne non è stato un catastrofistra nostrano alle vongole. Ma l’economista americano - e premio nobel 2008 per l’economia - Paul Krugman. Che sul suo blog, ospitato dalle pagine on line del New York Times, ieri ha scritto nero su bianco: la banca centrale americana sta facendo di tutto e di più per arginare la crisi. Ma “l’economia mondiale sta ancora precipitando”. Evidentemente - ed ecco la parolina o parolaccia con la “D” - “evitare le depressioni“, ha sentenziato Krugman poche ore prima che le Borse di mezzo mondo crollassero per l’ennesima volta, “è molto più difficile di quel che ci è stato insegnato” da certe teorie economiche del passato. Del resto: il premio Nobel, da tempo, ripete a ogni pie’ sospinto che i casi sono due. O si azzecca la ricetta giusta. O l’economia mondiale finirà a ramengo. Ultimamente i politici di mezzo mondo non stanno proprio azzeccando tutto. E quindi: “Sì possiamo avere un’altra depressione - aveva già detto senza mezzi termini Krugman non più tardi di un mesetto fa - perchè quelli che rifiutano di imparare dalla storia, possono essere condannati a ripeterla”. Una preoccupazione condivisa anche da un altro celebre economista americano, Nouriel Roubini. Che è stato uno dei pochissimi - nel settembre del 2006 - a prevedere la crisi dei mutui subprime. E che ieri sul suo blog ha scritto un pezzo dal titolo inequivocabile: “Il rischio crescente di una quasi depressione globale”.

Fumose disquisizioni da accademici? Niente affatto. La parola depressione è già entrata ufficialmente anche nei recinti dell’Alta finanza che conta. Tanto che a fine gennaio - come aveva riportato anche il blog del Financial Times - un analista economico della banca d’affari americana Merril Lynch, David Rosenberg aveva scritto una nota intitolata “Alcune scomode verità”. Per dire che, sì, per una “depressione” non c’era una “definizione ufficiale. Sappiamo solo che ne sono esistite in passato: ce ne sono state non meno di quattro nell’Ottocento e una nel Novecento”, quel famoso ‘29 che aveva trascinato la Germania al nazismo e il mondo alla seconda guerra mondiale . E quindi? E quindi “probabilmente ne stiamo affrontando una oggi”, aveva concluso Rosenberg. Una solfa non proprio allegra. Ma ripetuta quasi pari pari anche dal numero uno del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss Kahn ad inizio febbraio: “Le economie avanzate sono già in una depressione e la crisi finanziaria può farsi ancora più grave”.

Parole e pareri pesanti. Che fanno il paio con una gaffe altrettanto di peso. Quella del premier inglese, Gordon Brown. Che sempre a inizio febbraio, durante un’audizione in parlamento, si è lasciato scappare sempre quella maledetta parola con la “D”: “Dovremmo trovare un accordo a livello mondiale su un impulso monetario e fiscale per portare il mondo fuori dalla depressione“, aveva detto Brown. Salvo poi correggersi con una nota inviata alla stampa: non voleva dire depressione, ma recessione. Peccato che poi a chiarire meglio il concetto ci ha pensato il segretario all’infanzia del suo governo, Ed Balls. Che pochi giorni dopo ha sintetizzato la situazione con toni non meno cupi: “Questa è la crisi finanziaria più estrema e seria da quella degli anni Trenta e la realtà è che sta per cominciare la pù seria recessione globale degli ultimi cento anni”. Come a dire: se non è zuppa, è pan bagnato.

E in Italia? E in Italia, zut. Silenzio. Le Borse crollano, il pil tracolla e le aziende licenziano come nel resto del mondo. Ma nel vocabolario berlusconiano - tra la “A” di abbronzato e la “Z” di zia suora - spazio per la “C” di crisi ce n’è poco. Per la “D” di depressione non ce n’è affatto. Risultato: anche il ministro delle Finanze, Giulio Tremonti che mesi fa si azzardava a parlare di un nuovo ‘29, ora non fa che ripetere il mantra del capobottega sulla solidità delle banche e del nostro (ex) Belpaese. Sia come sia, poco importa. A breve non serviranno più le lingue dei politici di centro, sinistra e destra.
E nemmeno quelle di giornali e tivù. A breve a parlare saranno i fatti.


Sussidio ai precari e New Deal della decrescita. Oppure il caos
di Deborah Billi - Crisis.blogosfere.it - 3 Marzo 2009

Io non sono la lavandaia di Via dell'Oche (ovvero Pietro Cambi), e mi fido poco a fare i conti. Leggo però con interesse la proposta Franceschini per offrire un sussidio di disoccupazione ai 3 milioni di precari italici che prevedibilmente perderanno il posto nel 2009.

Naturalmente trattasi di proposta in pieno stile berlusconiano, "Vi togliamo l'ICI così ci votate", allo scopo di mettere in difficoltà il governo e di suscitare simpatie al partito in un Paese che dal pessimismo scivola verso la disperazione. E' vero altresì, che la proposta somiglia tanto al famoso "reddito di cittadinanza", opzione di sinistra che più di sinistra non si può. Insomma, che Franceschini abbia detto una cosa di sinistra ci lascia basiti e contenti.

Ulteriore osservazione: malgrado il teribbile communismo insito nell'idea del "sussidio a tutti", occorre ricordare che tale usanza vige nella liberista Inghilterra ormai da molti anni. I sudditi di Sua Maestà percepiscono infatti, tutti, un assegno (più l'affitto!) quando restano disoccupati, e finché non arriva loro una nuova proposta di lavoro che sono però obbligati ad accettare.

In Italia di una cosa simile non si è mai parlato. Ci si provò qualche anno fa, con i "lavori socialmente utili": era un'idea da new deal, forse non totalmente sbagliata in un Sud perennemente con le pezze al culo. Ma tant'è: ci si versò sopra tanto di quel fango che durarono poco. Avercene, adesso, di lavori socialmente utili...

Insomma, Franceschini ora ci prova. Il pensionato Monorchio fa due conti e inorridisce: ci vogliono 24 miliardi, per dare a tutti i precari un assegno di poco più di 800 euro al mese. Orrore e abominio, Maastricht, il debito pubblico, ragazzi non se ne parla proprio.

Eppure, bisognerebbe proprio parlarne. Centinaia di migliaia di persone in cassa integrazione e altre centinaia di migliaia in mezzo alla strada disegnano uno scenario di emergenza senza precedenti. E no, gli "aiuti alle banche, alle famiglie, alle imprese" che sbandiera il governo non bastano neanche per cominciare. Tremonti, che qualcuno mi accusa di amare, difende la scelta del new deal sulle infrastrutture. Roba da chiodi: come se in questo tragico momento storico fosse una buona idea investire sulle TAV, le autostrade, i trafori. Mi spiace, ma mentre il quadro generale è chiaro a Tremonti, la soluzione di Franceschini è decisamente più pragmatica. Franceschini, insomma, fa proposte da catastrofista pur non essendolo, mentre Tremonti è catastrofista a parole ma insensatamente ottimista quando si va al dunque. Che casino. E in tutto ciò si inserisce Letta a gamba tesa con l'ideona di prolungare l'età pensionabile: caro Letta, la tua fissa dovrai ancora rimandarla. Le aziende licenziano i quarantenni perché troppo vecchi, che facciamo, li costringiamo a tenersi i settantenni? Accomodati pure, se ci riesci...

Che lo Stato debba pesantemente metter mano al portafoglio è inevitabile. Che regalare quattrini sia una cavolata, è scontato. Che si debba pensare ad un new deal è sacrosanto. Eppure, forse c'è un modo per riuscire a mettere insieme le tre cose. Offrire un sussidio di disoccupazione ai precari, e contemporaneamente avviare un programma importante per le infrastrutture... ma infrastrutture che ci aiutino concretamente a vivere meglio nei prossimi difficili anni. Non la TAV, ma i trenini pendolari in provincia. Serviranno, a chi non usa più la macchina. Non nuove autostrade, ma manutenzione degli acquedotti (pubblici!): l'acqua costerà sempre di più. Non monumentali centrali nucleari, ma energia rinnovabile e diffusa. Non inutili inceneritori, ma bonifica generale di tutti i siti inquinati del Paese e trasformazione in aree per la produzione agricola di biocarburanti (non ci si può più produrre cibo). Non pomposi grattacieli e centri congressi per improbabili Expo o Olimpiadi, ma manutenzione di scuole ed ospedali.

Ci vuole un new deal che accompagni dolcemente la decrescita: il Paese, tra qualche tempo, dovrà vivere con meno. I cittadini se la passeranno male assai. E sarà fondamentale che le strutture e i servizi pubblici siano efficienti: ogni servizio in più, sono soldi in meno di cui una famiglia avrà bisogno. E al lavoro, pala e piccone, i precari e i disoccupati col sussidio: a casa prendi 400 euro, se vieni a lavorare per il Paese invece avrai uno stipendio.

Suona sovietico? Chissenefrega. Suona ingenuo? Questo è probabile. Ma altrettanto ingenuo è pensare che i miliardoni di Monorchio vadano ai soliti prenditori traforisti, ricadendo poi per non si sa quale miracolo nelle tasche dei precari. E ingenuo è anche sognare centrali nucleari e ponti sugli stretti: non si faranno mai. Mai! Non c'è tempo, non ci sono più risorse, stiamo scivolando nel caos generale. Un caos che, tra qualche anno, si dipanerà tra mozziconi di inutili cattedrali rimaste incompiute.


UK: Buonuscita generose per i nemici del Paese
di Mario Braconi - Altrenotizie - 3 Marzo 2009

Per tanto, troppo tempo, le banche inglesi sono state gestite da avventurieri che, complici la mancanza di controlli pubblici degni di questo nome e un’assurda fede nella sostenibilità di un sistema affidabile quanto una bicicletta in equilibrio su una corda a 50 metri da terra, sono quasi riusciti a mandare un intero Paese a gambe all’aria. Risultato? Il Governo britannico, nell’ambito del piano di salvataggio delle banche del valore di 37 miliardi di sterline, ha acquisito il controllo di Northern Rock, Bradford&Bingley e di Royal Bank of Scotland. Detiene inoltre il 58% di Hbos e il 30% di Lloyds Tsb, ovvero il 43,4% del Lloyds Banking Group, gruppo nato il 13 gennaio scorso dall’acquisizione di HBOS da parte della concorrente Lloyds TSB.

L’operazione, annunciata già a settembre dello scorso anno, si è svolta sotto la regia del Governo britannico, che ha dribblato qualsiasi obiezione antitrust invocando l’interesse nazionale: il collasso di un gigante come HBOS (20% dei conti correnti inglesi) avrebbe infatti avuto conseguenze devastanti sul Paese. La HSBO è stata una banca gestita in un modo talmente demenziale che il suo modello organizzativo potrebbe essere studiato nelle università come la “summa” di tutte le pratiche viziose nel mercato del credito: rilevante esposizione sull’immobiliare, prestiti rischiosi a costruttori edili, a fondi di private equity traballanti e, ciliegina sulla torta, assunzione di rischi importanti nel mercato azionario. Quest’ultimo elemento, rischio di perdite capitali a parte, ha finito per danneggiare gravemente la capacità della banca di valutare accuratamente il rischio di credito dei suoi clienti, “drogata” come era dalle irrazionali quanto irresponsabili attese di lauti e “certi” guadagni sul mercato azionario.

L’altro ieri HSBO ha pubblicato i suoi risultati per il 2008, da cui emerge il terrificante numero di 10,8 miliardi di sterline di perdite; perdite, è bene ricordarlo, registrate prima che la recessione cominciasse a colpire la capacità di ripagare i debiti di clienti privati ed imprese debitrici. Il 2009, è chiaro, sarà anche peggiore, mentre la debolezza della soluzione Lloyds TSB sta emergendo in tutta la sua drammaticità: il nuovo azionista, che già al momento dell’acquisizione aveva una stazza molto minore della banca acquistata (8% del mercato contro oltre il 20% di HSBO), semplicemente non ha le spalle robuste abbastanza per coprire il bagno di sangue atteso per quest’anno. Per avere un’idea della gravità del problema è sufficiente sapere che il gruppo nel suo complesso detiene un quarto dei conti bancari e poco meno di un terzo dei mutui in Gran Bretagna. Per questa ragione Lloyds TSB sta discutendo con il Governo britannico un piano di garanzia pubblica su ben 250 miliardi di sterline dell’attivo (si fa per dire) della banca.

Il governo sta inoltre studiando un simile schema di garanzia sulle attività di Royal Bank of Scotland, che dovrebbe coprire i 325 miliardi di sterline di attività “tossiche” sui suoi libri: secondo la BBC, l’assicurazione pubblica dovrebbe costare alla banca circa 6,5 miliardi di sterline di commissioni e prevedere una rilevante franchigia; infatti i primi 19,5 miliardi di sterline di perdite resteranno comunque sul conto economico della banca. Anche Royal Bank of Scotland ha pubblicato qualche giorno fa i suoi risultati economici: 24,1 miliardi di sterline di perdite, di cui 16,2 causati da rettifiche sul valore di attività “non performanti” effettuate anche sulle controllate estere ABN AMRO e Charter One; le perdite “vere”, attribuibili alla sola banca inglese, sono circa 7,9 miliardi. I numeri di Royal Bank of Scotland sono un record negativo in grado di surclassare Vodafone, che nel 2006 e nel 2002 presentò conti economici da brivido (rispettivamente -14,9 e -13,5 miliardi di sterline); in questo podio della vergogna, il quarto posto spetta a HBOS, con i suoi –10,8 miliardi del 2008.

Insomma, il comportamento irresponsabile dei direttori delle grandi banche inglesi non solo hanno finito per distruggere valore, ma è riuscito a produrre una situazione paradossale che sovverte qualsiasi ortodossia liberista: banche che presentano bilanci con rossi grandi quanto una manovra di governo, il governo costretto a scendere in campo mettendo sul piatto soldi contanti (33 miliardi di sterline pompate nella sola Royal Bank of Scotland in due tranche) e/o per garantire attività bancarie per centinaia di milioni di sterline (le sole fideiussioni prestate per Royal Bank of Scotland e HBOS valgono 600 miliardi di sterline).

Ci si aspetterebbe che i direttori delle banche nazionalizzate, ovviamente tutti silurati, mostrassero un atteggiamento dimesso e contrito. Gli esempi che seguono mostrano invece che la loro arroganza non è stata intaccata nemmeno dal manifesto disastro globale prodotto dalla loro disinvolta assunzione di rischi colossali. Ad esempio, Sir Fred Goodwin, ex CEO di Royal Bank of Scotland, quando è stato cortesemente accompagnato all’uscita, aveva in tasca un accordo che gli ha riconosciuto una somma di 16 milioni di sterline, fruibile nella forma di un vitalizio di 650.000 sterline all’anno. Stephen Hester, il nuovo capo della banca ha dichiarato che il trattamento del suo predecessore è stato regolato da un contratto di anche il Governo era parte.

Una bella tegola in testa per l’esecutivo di Gordon Brown, che, come nota correttamente il ministro ombra delle finanze conservatore, “o sapeva e non ha reagito, oppure non sapeva e non è stato in grado di porre le domande giuste; comunque si guardi alla faccenda, questa pensione oscena è inaccettabile e il governo deve renderne conto”. Di fronte all’ennesima dimostrazione di insipienza, Gordon Brown ha tuonato: “Il comportamento di Royal Bank of Scotland mi fa arrabbiare e fa arrabbiare il paese: faremo pulizia nelle banche, in modo che non niente di simile accada in futuro”. Di fronte all’insistenza di Goodwin, che apertamente rifiuta di mollare l’osso, assistiamo anche all’imbarazzante boutade di Brown, che minaccia il banchiere di fargli revocare il titolo di baronetto…

Del resto, Goodwin non è il solo: sembra infatti che anche Peter Cummings, uno dei boss della HBOS, noto per concludere affari con una semplice stretta di mano e responsabile degli investimenti immobiliari che hanno affondato la banca, ha lasciato il suo impiego con una buonuscita di 600.000 sterline più un accordo pensionistico del valore attuale di 5,9 milioni di sterline. Tutto questo per dire che il governo inglese non riesce a tenere sotto controllo il demonio che si nasconde dietro le banche d’affari nemmeno una volta divenutone il padrone.



Irlanda, il mito europeo fa crac
di Fabio Cavalera - Il Corriere della Sera - 4 Marzo 2009

«Consumata dal consumismo». La signora Mary McAleese, presidente dell'Irlanda, ha spiegato con queste parole il crollo della Tigre Celtica. Avendo alla spalle due professioni come quelle di avvocato e di giornalista, Mary McAleese, in carica ormai da una dozzina d'anni, ha saputo sintetizzare con efficacia ciò che è accaduto in un Paese considerato fino a qualche mese fa un «esempio virtuoso» per tutta quanta l'Europa. Dublino si è ritrovata, di punto in bianco, a dovere ripartire da zero: aveva scalato le classifiche delle migliori performance economiche a livello continentale (il suo Pil fino al 2007 cresceva annualmente del 7 per cento) ma, alla fine, si accorge che è stata solo una finta. Una gigantesca bolla che una volta scoppiata lascia in eredità un cumulo di macerie.

È vero, gli irlandesi negli ultimi dieci anni hanno consumato come pochi altri al mondo. Ma, in maniera speculare, si sono pure indebitati come pochi altri al mondo. «Consumati dal consumismo», analisi impietosa che calza alla perfezione. Le stime ufficiali dicono che, mediamente, ogni contribuente è oggi scoperto per 100 mila euro. La montagna complessiva, per i quattro milioni di cittadini della Repubblica, è dunque di 400 miliardi di euro. E, siccome sono soldi che non si vedranno mai più, lo Stato deve correre ai ripari perché l'effetto moltiplicatore è drammatico. Le sei banche più importanti hanno concesso mutui e prestiti come coriandoli, alimentando il sogno di un boom immobiliare che si è materializzato nella costruzione di 128 mila nuovi edifici nell'arco di un biennio (2005-2007). Un cantiere gigantesco, simbolo di un'Irlanda che si presumeva prospera e felice. Invece, gli istituti di credito sono con l'acqua alla gola. La Anglo-Irish Bank è stata nazionalizzata a metà gennaio nel giro di un pomeriggio e con un comunicato del ministero delle Finanze: «Dopo un consulto con il consiglio di amministrazione, l'esecutivo ha deciso di effettuare i passi necessari alla nazionalizzazione». Per le altre cinque banche più importanti lo Stato ha messo sul piatto, fra l'autunno e l'inverno, una decina di miliardi di euro.

Una terapia d'urto per evitare il crac. Ma il pozzo è senza fine. E non passa giorno senza che il bollettino della disfatta non si arricchisca di nuovi dettagli. Persino le scorte di gas e petrolio sono di molto sotto ai livelli di guardia. Se dovesse trovarsi alla prese con una crisi energetica, l'Irlanda avrebbe autosufficienza per una cinquantina di giorni (contro i novanta suggeriti dalle istituzioni internazionali) poi si fermerebbe. Il Times di Londra ha scritto, citando uno studio del ministero dell'Energia, che il Paese «non sopravviverebbe». Discorsi teorici perché nessuno abbandonerebbe mai Dublino al suo destino (e l'Europa dà l'esempio, nonostante il referendum col quale gli irlandesi nel giugno del 2008 hanno bocciato la ratifica del Trattato di Lisbona) ma la Tigre celtica, per tornare alla metafora più in voga, ha perso gli artigli e forse qualcosa di più.

L'economia sembrava viaggiare che era una meraviglia. Dal 1995 in poi il tasso di disoccupazione era sceso da uno spaventoso 20 per cento a tassi (4,5 per cento nel 2006) di gran lunga migliori a quelli delle potenze industriali. L'innovazione e lo sviluppo non erano due parole magiche da inseguire ma, semmai, bandiere da sventolare. L'Irlanda era un motore che stava funzionando a pieno regime. «Prendete esempio», raccomandava il Fondo monetario. All'improvviso il giocattolo si è rotto, diventando il paradigma nella Ue, del terremoto globale. Alle spalle del boom nell'economia reale vi era una sconfinata palude di sofferenze finanziarie, una ricchezza più fittizia che materiale. I segnali sono comparsi all'inizio del 2008 quando i soldi non c'erano più. Se fino ad allora, con le migliori acrobazie, le banche erano riuscite a nascondere i buchi in bilancio, a quel punto la piaga si è aperta. La circolazione del credito si è interrotta, i debitori hanno dichiarato la loro insolvenza, le aziende sono asfissiate. E L'Irlanda da «esempio virtuoso» si è ritrovata ad essere la prima «malata» in Europa.

Ottobre 2008, dopo due trimestri negativi, Dublino dichiarava la recessione. La recessione per gli irlandesi equivale alla carestia, l'effetto psicologico è stato pesantissimo. Il 29 settembre la Borsa precipitava di quasi il 13 per cento. Una valanga. Le crisi hanno un percorso: l'ultimo gradino è la ricaduta sul lavoro e la società. Va in tilt il credito, si bloccano le imprese, partono i licenziamenti. La ex Tigre Celtica è stata travolta ed è nel mezzo della bufera. Il governo deve somministrare medicine amarissime: il premier Brian Cowen a metà febbraio ha presentato un piano da lacrime e sangue, due miliardi di euro da risparmiare entro il 2009, 15 entro il 2010. Dunque: per i dipendenti pubblici (compresi poliziotti, vigili del fuoco, insegnanti e spazzini) taglio medio delle retribuzioni del 7 per cento, tariffe al ribasso per i medici, riduzione dei sussidi per i figli più piccoli. Il sindacato è insorto e in piazza, cronaca della scorsa settimana, si sono visti a Dublino più di 100 mila manifestanti. Arrabbiati. «A noi portano via i soldi e alla nostra presidente?». Già, la signora Mary McAleese che, si sussurra (ma le cifre sono state pubblicate senza smentite), manterrebbe uno stipendio da 29.700 dollari al mese. Record o quasi fra i capi di Stato. La ex Tigre Celtica ha il morale davvero giù. A consolarla non bastano più la birra Guinness e il nuovo disco degli U2, mito nazionale e internazionale, appena uscito. I tempi sono cambiati. Al pub non si canta.



La controglobalizzazione affonda l’UE a 27
di
Pino Cabras - Megachip - 3 Marzo 2009

Non sappiamo se l’Europa del “Trattato di Lisbona” sia finita in questi giorni al vertice europeo straordinario di Bruxelles, se era già finita prima, o se dovremo fissare un’altra data in un futuro ravvicinato. Poco importa, sono convenzioni, che si intrecciano con l’imprevedibilità delle costruzioni giuridiche europee e soprattutto con l’imprevedibilità della loro possibile decostruzione. Sappiamo però che tutto l’impianto su cui si era fondato l’allargamento europeo sta precipitando a una velocità spaventosa nel gorgo della più grande depressione economica mai vista.

Dico mai vista, pensando perfino ai ritmi dell’altra Grande Depressione. Nel 1931 la produzione industriale europea calava del 5%. Oggi il calo è tre volte più intenso. Con la differenza che a quel tempo la bolla bancaria e parabancaria non si misurava in multipli del prodotto interno lordo dei singoli paesi, come oggi vediamo per i paesi della Vecchia Europa (non dà conto parlare di quelli della Nuova Europa, sull’orlo della bancarotta).
La controglobalizzazione galoppa sulle ali degli attuali e dei prossimi fallimenti di banche, da soli in grado di innescare il default di interi stati.

Colpisce l’impotenza dei protagonisti politici dei vari paesi europei. Non c’è neanche il tempo di godersi lo svanimento repentino di certe sfrontatezze dei governanti di Polonia, Repubblica Ceca o Ucraina, che avevano giocato a fare i campioni dell’americanismo e oggi sono con il cappello in mano, a chiedere soccorso dove pure piove a dirotto. Perfino la fine catastrofica di quell’arroganza mi sgomenta, perché è il segno di come ora possano essere annichiliti in un istante tanti punti di riferimento, negativi e positivi.

Le classi dirigenti adesso in campo non sono state selezionate dalla crisi, ma dal suo esatto contrario. Vengono da un sistema che non riusciva più nemmeno a contemplare qualcosa di diverso da una molle espansione indefinita. Com’è che recitava il mantra del Consiglio europeo di Lisbona? Diventare entro il 2010 «l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.»

Riascoltate tutte queste parole una per una, e guardate come ormai invece i governi puntino solo a salvare il salvabile, senza sapere come farlo, con quali priorità, con quali effetti a catena. Nel marasma, si ritorna entro perimetri più domestici, tanto nelle scelte dei governi, quanto negli orientamenti popolari. Gli aiuti nazionali alle banche scontano l’enorme prezzo di lasciare a se stesse le economie estere in cui quelle banche avevano investito, per concentrare la speranza di far ripartire il credito alle imprese, quelle che rimarranno, dentro il proprio paese. La controglobalizzazione, appunto.
A questo punto sarebbe abbastanza azzardato fare qualsiasi previsione su quel che accadrà in questo anno terribile. Nella testa dei governanti risuonano parole d’ordine senza più significato, ancora legate alla fase dell’egemonia neoliberista angloamericana. La sinistra europea è parimenti spiazzata. Qui e lì si cerca di ristudiare in fretta e furia una qualche forma di intervento statale.

Gli USA di Obama cercano di raggiungere un’enorme massa critica d’intervento pubblico in grado di deviare il corso delle cose. Contano sulla residua affidabilità della loro capacità d’indebitarsi senza fallire, coperti dallo status garante della superpotenza. Il gioco reggerà finché i buoni del tesoro USA saranno acquistati. Una scommessa che vinceranno o perderanno quest’anno. E se vincono sarà a scapito di altri soggetti che emetteranno debito.

Altrettanta massa critica non si vede ancora nell’intervento europeo. L’Europa non permetterà il default dell’Est, perché sarebbe davvero una catastrofe. Ma ignora ancora come impedirlo. Gli automatismi e le rigidità eurocratiche sono comunque in rapido declino. Se nascerà un intervento coordinato dal peso autenticamente continentale, certo non passerà per la Commissione ma per il Consiglio europeo. Se fra qualche anno ci sarà ancora l’Euro a far da scudo, certo avverrà per una disponibilità al sacrificio dei paesi meno a rischio default, solo che oggi non la danno a vedere. Sono tanti i “se” che queste classi dirigenti vissute in tempi molli non sanno dipanare nei tempi duri.