giovedì 19 marzo 2009

Iraq: la verità a galla

Qui di seguito un aggiornamento sulla situazione irachena.


Quello che non sappiamo dell’Iraq
di Philip Bennett - The Washington Post - 18 Marzo 2009
Traduzione di Ornella Sangiovanni per http://www.osservatorioiraq.it/

Che nome danno gli iracheni alla guerra che adesso sta entrando nel settimo anno? Se non sapete rispondere a questa domanda, non è perché non ve ne siete interessati abbastanza. In questo Paese, la guerra in Iraq è stata una storia americana. E’ nata all’interno di Washington.

I suoi costi in termini di sofferenza per noi sono stati visibili per lo più ai lati delle tombe da un capo all’altro degli Stati Uniti, o nei reparti del Walter Reed [il più importante ospedale militare degli Stati Uniti NdT]. Una biblioteca di storie della guerra che continua ad aumentare racconta in ordine cronologico battaglie aspre, una dopo l’altra, tra fazioni della Washington ufficiale, che bisticciano riguardo a idee e strategia su come ci siamo entrati e come uscirne. Mentre la guerra è andata avanti, le storie degli iracheni sono state oscurate dalla vicenda drammatica della nostra stessa esperienza nella sua intensità.

Lo squilibrio mi ha colpito mentre di recente leggevo e riguardavo alcuni dei migliori libri prodotti dal giornalismo americano sull’Iraq dall’inizio dell’invasione, il 19 marzo 2003. Sono ricchi di dispacci schietti, privi di emozioni visibili, prodotti a fianco delle truppe Usa, e scavano a fondo in modo investigativo nelle opinioni dei leader statunitensi – complessivamente, una testimonianza notevole di un conflitto che continua. Tuttavia essi riflettono anche il modo in cui la frustrazione e l’isolamento, incluso l’isolamento dei giornalisti, hanno ridotto gli iracheni a un cast ristretto di ruoli secondari: partner ingrati, postulanti inaffidabili, nemici invisibili, e vittime indecifrabili.

Con le forze Usa pronte a ritirarsi dall’Iraq nell’arco dei prossimi 18 mesi, ha importanza il fatto che sappiamo così poco del modo in cui gli iracheni hanno capito e vissuto durante tutta la guerra? Il legame invisibile fra le esperienze sovrapposte degli americani e degli iracheni – e il biasimo, il disamoramento, e l’odio che hanno reso soffocante l’aria tra di loro – compromette la nostra capacità di vedere quello che accadrà dopo. Inoltre, significa che, mentre i funzionari Usa applicano le lezioni della guerra in Iraq alla strategia in Afghanistan, essi rischiano di perdere una parte centrale della storia.

Il nuovo libro di Tom Ricks, "The Gamble," mostra quanto sia difficile allineare le opinioni che iracheni e americani hanno del conflitto, nonché quelle che hanno gli uni degli altri. In un seguito del suo best-seller "Fiasco", Ricks, ex corrispondente capo del Washington Post dal Pentagono, fornisce un resoconto visto dall’interno del modo in cui il generale David H. Petraeus ha risuscitato la guerra in Iraq da quella che sembrava una causa persa nel 2006, e l’ha resa la situazione più stabile da un punto di vista militare che è oggi. Al centro del successo di Petraeus contro gli insorti, scrive Ricks, c’è la determinazione del generale, con l’aiuto di altri 30.000 soldati Usa, a conquistare la popolazione irachena, per dimostrare che "il premio sono le persone".

Come tesi è forte. Tuttavia iracheni quasi non ce ne sono al centro del mondo di Petraeus (oppure in "The Gamble", il cui "cast di personaggi" ne elenca solo due: il Primo Ministro Nuri al-Maliki e l’esponente religioso sciita Muqtada al-Sadr). Nell’"eclettico" gruppo di esperti del generale ci sono una pacifista britannica e un asso in controinsurrezione australiano – ma nessun iracheno. (Il suo traduttore e contatto personale con il governo iracheno è Sadi Othman, un palestinese nato in Brasile e cresciuto in Giordania). I leader tribali che si sono convertiti da nemici in alleati – e prestano i loro 100.000 combattenti alla causa della lotta contro al-Qaeda – vengono presentati come archetipi inconoscibili.

I comandanti e i soldati Usa parlano di uno “scaldarsi” dei cuori e delle menti degli iracheni e attribuiscono il merito del cambiamento all’approccio statunitense, ma dobbiamo prendere per buono quello che dicono quanto alla profondità di questa trasformazione. Non sappiamo di prima mano che opinione gli iracheni abbiano in definitiva della surge, e se la stabilità che essa ha portato contribuirà a costruire una nuova nazione o solo una corsia preferenziale per l’uscita degli americani. Non c’è nulla di insolito nel fatto che i giornalisti americani si concentrino sugli americani in guerra, in particolare sui leader civili e militari che valutano le verità e le conseguenze per milioni di vite. Bisogna leggere un bel po’ delle 1.700 pagine di "Reporting Vietnam", l’antologia della Library of America, prima che civili o insorti vietnamiti escano fuori dal coro e diventino soggetti individuali.

In Iraq, divari di lingua e cultura hanno influito su coloro che facevano la cronaca della guerra quanto su quelli che la stavano combattendo. Nello stesso tempo, ci sono stati forti incentivi a portare alla luce i fatti relativi a come la guerra veniva vissuta a Washington. Non meno importante è stata la motivazione da parte di alcuni giornalisti e direttori di giornali a tornare indietro e fare il lavoro di chiamare il governo a render conto, in modi che erano mancati, e avrebbero potuto contare, prima che la guerra iniziasse. La profondità e il carattere drammatico dei libri di parecchi giornalisti su Washington in guerra hanno dato a queste opere un impatto maggiore, che va al di là dei buoni articoli sui giornali e sulle riviste che li avevano preceduti.

La trilogia di Bob Woodward sulla Casa Bianca di Bush, seguita lo scorso anno da un quarto libro, "The War Within", ha tirato fuori dall’Amministrazione reticente una scena dopo l'altra di una corsa verso il disastro da parte del governo. Copie di "Fiasco" e di "Cobra II", di Michael Gordon e Bernard Trainor, sembravano essere una presenza regolare negli alloggi degli ufficiali in tutto l’Iraq. In "Imperial Life in the Emerald City", il suo devastante ritratto della Green Zone pubblicato nel 2006, Rajiv Chandrasekaran del Washington Post ha scritto il resoconto definitivo della prima fase dell’occupazione, corrotta dall’ideologia, dall’incompetenza, e dall’arroganza. Fin dai primi giorni dell’invasione, tuttavia, i corrispondenti hanno fatto fatica a mettere insieme una narrazione comune agli iracheni e agli americani. "Le lotte più importanti erano quelle che andavano avanti sia nelle menti degli iracheni che in quelle degli americani", ha scritto George Packer del New Yorker in "The Assassins' Gate", pubblicato nel 2005. "Il significato della guerra sarebbe la somma di tutti i modi che tutti loro avevano vicendevolmente capito e degli eventi che li avevano spinti insieme".

Il libro di Packer, i cui materiali sono stati raccolti per la maggior parte nel 2003 e nel 2004, mostra quale aspetto avrebbe potuto avere la storia. Le sue descrizioni degli iracheni rivelano il loro bagaglio, compresa la loro "demolizione psicologica" sotto la tirannia di Saddam Hussein e il loro disorientamento dopo l’invasione. Lui si è avvicinato ad alcuni iracheni che professavano un "modo di pensare che sta nel mezzo" – uno spazio moderato fra le certezze religiose e laiche – che sembrava promettere una identità nazionale alternativa. Ma non era una speranza, o una argomentazione, che avrebbe retto. Adesso è chiaro che dobbiamo un enorme gap nella nostra comprensione dell’Iraq alla violenza che si è scatenata agli inizi del 2004, quando sequestri e decapitazioni, centinaia di attentati suicidi, e combattimenti di strada hanno costretto i giornalisti occidentali a porre fine al contatto quotidiano con gli iracheni in modi casuali e fortunati che aveva prodotto le storie più efficaci.

Nella mia veste di caposervizio esteri del Washington Post all'epoca, ho iniziato a fare meno domande sul modo in cui seguivamo la vicenda e domande costanti sull’incolumità dei nostri giornalisti. I media si sono ritirati all’interno di convogli armati, e nascosti dietro mura anti-esplosione, o hanno abbandonato del tutto il Paese. (Il Washington Post e altri sono rimasti). Come ha scritto Dexter Filkins del New York Times, che in quegli anni è emerso come il migliore giornalista di guerra della sua generazione: "Per noi, l’Iraq è scomparso allora, e non è più ritornato". Nel suo libro del 2008, "The Forever War", Filkins scrive che "in Iraq sono sempre esistite due conversazioni: quella che gli iracheni avevano con gli americani, e quella che avevano tra di loro".

In quasi tutti i libri, le eccezioni sono le conversazioni -- complesse, tese, intime – fra i corrispondenti e i loro traduttori, autisti, e guardie iracheni. Questi rapporti non sono semplici: sono stratificati di sospetti, lealtà contraddittorie, e della tensione che viene dal mettere la tua vita nelle mani di qualcuno che non capisci completamente. Tuttavia, portano anche il debito reciproco dell’esperienza condivisa. E, per la maggior parte, funzionano. Secondo Filkins, la maggior parte degli iracheni viveva "nel mondo che noi non abbiamo mai visto". Quello che lui ha visto più da vicino di altri giornalisti è stata la parte dura della missione.

Era presente a Falluja durante l’assalto del 2004 [il testo originale dice, erroneamente, 2005 NdT] da parte di 6.000 soldati e Marines, e la sua scrittura brutale di questa e di altre battaglie irrompe attraverso le barriere della lingua che ci proteggono dalla verità del combattimento – che nulla è più insensato, o più significativo. Filkins non riferisce solo di combattimenti. Tuttavia il suo libro è un esempio di quanta parte dell’Iraq ci arrivi attraverso i soldati americani. Il punto di vista che essi offrono è emotivamente debilitante e provocatorio, entusiasmante, banale, buffo, eroico, e tragico allo stesso tempo. Nel suo libro del 2007, "The Long Road Home", Martha Raddatz di ABC News ricostruisce quasi minuto per minuto la battaglia per Sadr City del 2004 che segnò il battesimo delle forze Usa nella melma della controinsurrezione. In "Big Boy Rules", pubblicato lo scorso anno, Steve Fainaru del Washington Post svela gli abusi commessi dai e contro i combattenti americani dimenticati, i contractor della sicurezza privata che hanno fatto il lavoro di un esercito insufficiente dal punto di vista numerico, vivendo al di là anche dell’orizzonte legale e morale della guerra.

Ma in queste storie di sacrificio di grande effetto, più ci avviciniamo agli americani, più lontani siamo dagli iracheni. I soldati Usa sotto il fuoco a Sadr City fanno fatica a distinguere gli "iracheni buoni" da quelli "cattivi" prima di sparare a raffica contro tutti per salvare le loro vite. Se la seduzione era stato un tema della tragedia del Vietnam, in Iraq essa sembra essere stata sostituita dalla ripugnanza, con un'avversione acre che si infiltra negli incontri fra americani e iracheni. Per gli iracheni, gli abusi sui prigionieri ad Abu Ghraib sembrano essere stati parte di una umiliazione nazionale; Petraeus vide lo scandalo come una significativa battuta d'arresto strategica che era necessario rovesciare.

Più di una volta, gli americani hanno pensato che stavano pagando col sangue per dare agli iracheni "una possibilità di fare la cosa giusta", come ha detto un colonnello a Filkins. Più di una volta, gli iracheni deludono. Come riferisce Ricks, secondo il punto di vista di molti soldati, "la più grande minaccia alle aspirazioni americane" in Iraq sono "gli iracheni stessi". Oggi, gli iracheni sono gli autori anonimi della loro stessa storia. Mentre gli Stati Uniti si ritirano, il corso della "irachizzazione" dipenderà in parte dal modo in cui gli iracheni renderanno visibili e risolveranno le versioni che loro stessi hanno dato degli ultimi sei anni. I giornalisti americani dovrebbero nuovamente riprendere la missione di raccontarne le storie, dato che la sempre maggiore sicurezza lo rende possibile. Può darsi che l’interesse del pubblico per queste storie sia scomparso, ma lo stesso non si può dire della loro importanza.

Le lezioni della guerra in Iraq, compresa quella di far sì che "il premio siano le persone", adesso si stanno spostando, sotto il comando di Petraeus, in Afghanistan, un altro Paese di estranei. Anthony Shadid, il corrispondente da Baghdad del Washington Post, mi dice che gli iracheni hanno definito la guerra con nomi diversi negli ultimi sei anni: ghazu ovvero "invasione"; a volte "gli eventi"; di tanto in tanto "guerra confessionale"; e il più delle volte, e in modo più ossessionante, suqut – semplicemente "il tracollo". Il libro di Shadid pubblicato nel 2005, "Night Draws Near", resta il tentativo più ricco che io abbia letto di seguire i percorsi degli iracheni, sciiti e sunniti, contadini e medici, insorti e agnostici, attraverso il terreno ambiguo dei loro conflitti interni e della guerra all’esterno. (E’ anche l’unico libro nella mia pila che abbia in copertina la foto di un iracheno).

Shadid è tornato in Iraq dopo esserne stato lontano diversi anni; spero che vada a trovare di nuovo queste persone. La citazione più significativa della guerra in Iraq -- "Ditemi come andrà a finire" – venne posta da David Petraeus a Rick Atkinson del Washington Post sulla via per Baghdad durante l’invasione. Anni dopo, ha acquisito una connotazione che Petraeus forse non intendeva darle: ditemi come finirà per noi, per gli americani. Rileggendo il libro di Shadid, mi sono imbattuto nella conclusione irachena, scritta quasi lo stesso giorno, nel diario di una ragazza di 14 anni di nome Amal Salman: "Quale sarà il futuro dell’Iraq? Potrà essere buono? Nessuno lo sa". La domanda di Petraeus e quella di Amal sono legate, proprio come gli eventi degli ultimi sei anni legheranno reciprocamente per sempre i loro Paesi.



Friburgo, i soldati d'inverno
di Luca Galassi - Peacereporter - 15 Marzo 2009

Il soldato d'inverno e' colui che si erge a difesa della nazione nel tempo piu' cupo e nelle ore piu' desolate, secondo la definizione dello scrittore britannico Thomas Paine, che aveva preso a cuore la causa indipendentista dei futuri Stati Uniti d'America. Fu coniata nel 1776, quando gli americani avevano appena eletto George Washington comandante in capo della guerra per l'indipendenza dagli inglesi, considerati invasori di una terra che sarebbe stata fondata sugli ideali di liberta' e democrazia. Duecento anni dopo, quando gli invasori divennero gli americani, 'Winter Soldier fu il nome dato dai veterani del Vietnam a un incontro che si tenne a Detroit nel 1971, un mese dopo il massacro di Mi Lai. In quella occasione, 100 reduci raccontarono le atrocita' e i crimini di guerra che videro o commissero nel Paese del sud-est asiatico.

I veterani contro la guerra. Oggi i veterani sono quelli della guerra in Iraq, e sotto il nome di Winter Soldier si riuniscono dallo scorso anno per far sapere al mondo che gli esiti della 'guerra per la democrazia' sono stati disastrosi: per il Paese nel quale hanno combattuto, per quello per il quale hanno combattuto, e per loro stessi. A Friburgo, In Germania, questo fine-settimana, sette di loro hanno testimoniato le loro esperienze in uno dei tanti incontri organizzati dall'Ivaw (Iraq Veterans Against the War), organizzazione fondata nel 2004 che annovera tra le sue finalita' la richiesta di ritiro immediato di tutte le forze di occupazione nel Paese mediorentale, il risarcimento per la devastazione umana e materiale provocata dal conflitto e la piena assistenza economica e sanitaria per chi ritorna dalla guerra.

Il trauma. Chi ritorna spesso si ammala, o torna gia' malato di una malattia ormai nota. E' il Ptsd (Post traumatic stress disorder), un acronimo sotto il quale si celano le piu varie psicosi: depressione, ansia, nevrosi, tendenza al suicidio. Ne soffre il 15 percento dei soldati di ritorno dall'Iraq. Ne hanno sofferto, o tuttora ne soffrono, anche Chris Capps, David Cortelyou, Lee Kamara, Andre Shepherd, Martin Webster, Chris Arendt, Zack Baddorf, Eddie Falcon: tutti hanno prestato servizio in Iraq, e da mesi girano il mondo per portare il loro contributo alla causa antimilitarista. Se il loro Paese, siano gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, li considera disertori, incontrandoli si rivelano individui la cui statura morale e il cui coraggio civile rappresentano qualita' ormai introvabili negli uomini che li hanno mandati a combattere, e che quei Paesi li governano. Impegnandoli in guerre che ne hanno gravemente minato la credibilita' e l'autorita' morale.

L'artigliere secondino. "Abu Ghraib e Guantanamo sono i simboli della disfatta del nostro Paese. Posso dirlo perche' io a Guantanamo ci ho lavorato". A parlare e' Chris Arendt, arruolatosi a 17 anni nella Guardia Nazionale e chiamato nel 2003 a lavorare a Guantanamo come secondino. "Un artigliere della Guardia nazionale di 19 anni che va a fare il secondino a Guantanamo, pensate un po'. Nell'addestramento preparatorio ci insegnavano come ammanettare la gente. Una cosa ridicola. Assurda. Mettere le manette a un altro essere umano e' una cosa goffa, disumana. Io dovevo nutrire i detenuti, assisterli se avevano bisogno di qualcosa e... dare loro la carta igienica. A volte, durante gli interrogatori, li tenevano un giorno intero in una stanzetta, fermi, senza consentire loro nemmeno di andare al bagno. Musica a massimo volume, temperatura tra i 10 e i 20 gradi. Altre volte i trattamenti erano peggiori, come l'utilizzo di spray al peperoncino, ma di tortura a Guantanamo e altrove si e' parlato in abbondanza. A mio parere, vorrei sapere se stare cinque anni in un carcere, lontano dalla propria famiglia e dai propri amici, senza avere la piu' pallida idea del perche' si e' li', non e' considerato tortura. Per me si''". Christopher ha trovato il modo per superare il ricordo dei mesi passati a Guantanamo dedicandosi all'arte. Ricicla uniformi militari trasformandole in carta. Piccoli quaderni artigianali sui quali pubblica disegni o poesie scritte a mano, oppure ne fa segnalibri decorati e li vende agli incontri. Da settimane e' in giro per l'Europa dormendo da chi lo ospita perche', dice, "non ho davvero un soldo per pagarmi un albergo".

In aereo sul Medio Oriente. Anche Lee Kamara ha trovato nell'espressione artistica una forma di terapia. Impegnato nelle forze speciali britanniche a Bassora nel 2004, oggi lavora a un progetto chiamato Voci di Guerra, un Dvd sulla sua esperienza al fronte nel quale sono contenute anche canzoni da lui scritte. "Ho trovato insensato tutto quello che facevo a Bassora, l'ho trovato disumano, mostruoso. Non potevo piu' sopportare la vista dei civili massacrati e l'ingiustizia di una guerra inutile e assurda. Sono tornato a casa, in Cornovaglia. Ho lasciato l'esercito e ho ricominciato a vivere da civile". Eddie Falcon era il pilota dei C-130 che partivano dalla base di Manas, in Kirghizistan. Trasportava equipaggiamento, truppe, senatori, forze speciali, medici, veicoli militari. Successivamente e' stato impiegato in Kuwait e nel servizio aereo di spola tra Baghdad e la prigione di Bassora. "Gli aerei erano completamente privi di posti a sedere, in quanto le poltroncine erano state rimosse. I prigionieri erano accovacciati, legati e con un cappuccio in testa. Le bocche erano chiuse con nastro adesivo. Una o due ore in queste condizioni, a cui erano sottoposti numerosi civili innocenti. Molti di loro, la maggior parte, venivano rilasciati senza alcuna accusa. Un bel viaggetto in aereo sui cieli del Medio Oriente senza alcun motivo". Eddie, di origini messicane, porta con se le medagliette del servizio militare. "Le ho tempestate di falsi diamanti, e ora le uso come ricordo. L'ho fatto per esorcizzare il periodo in cui queste medagliette rappresentavano la mia identita' di soldato. Ora non sono altro che un gioiello di bigiotteria, per me".

"Abbiamo ucciso un civile innocente". Chi non ha superato il trauma della guerra e' David Cortelyou. Di ritorno da Ramadi, Iraq, dove ha prestato servizio come autista, radio-operatore e mitragliere, e' stato colpito da una profonda depressione e ha tentato il suicidio piu'volte. Curato con farmaci, adesso vive in Germania con la moglie. Durante l'incontro non ha retto allo stress e ha rinunciato a raccontare la sua esperienza. Poco prima aveva ricordato con noi uno dei momenti piu' terribili della missione in Iraq. "Eravamo impegnati in un'operazione di controllo, ma eravamo rilassati. Il mio superiore stava parlando di musica, avevamo fatto una festa la sera prima. Si avvicina un veicolo. Eravamo troppo vicini per seguire le normali regole d'ingaggio, usando i fari, agitando le mani sparando in aria. Abbiamo sparato contro l'auto. Due-trecento colpi. Abbiamo ucciso il guidatore. Nel posto dietro c'era un bambino. Vivo. Gli abbiamo ucciso il padre. Abbiamo preso il bambino, l'abbiamo portato davanti alla porta di una casa e l'abbiamo lasciato li'. Non abbiamo mai riportato l'accaduto. Dopo, ci abbiamo persino riso su, dicendo che tanto anche il bambino sarebbe diventato un terrrorista". David torna in America, dove riceve trattamento a base di farmaci in attesa di essere inviato di nuovo in Iraq. Ma rifiuta, e diventa Awol (Absent without leave, assente dal proprio reparto senza autorizzazione), che e' il preludio alla diserzione. Dopo 30 giorni un Awol diventa infatti tecnicamente disertore. "Sarei tornato in missione, ma solo per morire. Volevo morire. Tornare in guerra e morire". David non partecipera' alla fine della conferenza. Accompagnato dall'ex commilitone Chris Arendt, tornera' all'albergo, portando con se' i fantasmi della propria traumatica esperienza.



Iraq, Il caso misterioso di Mohamed al-Dainy
di Robert Fisk - The Independent - 16 Marzo 2009
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorio.iraq.it

Le autorità sostengono che ha pianificato un attentato suicida in Parlamento. I suoi alleati insistono che il deputato iracheno è un attivista per i diritti umani rispettato. Nessuno tuttavia sa che cosa gli sia accaduto. Dov’è Mohamed al-Dainy? In carcere a Baghdad? In fuga? Oppure questo parlamentare iracheno sunnita e difensore dei diritti umani sta rischiando di essere torturato o persino ucciso nel suo stesso Paese? Di sicuro questo è quello che teme il fratello Ahmed. "Abbiamo paura per la sua vita e le vite dei nostri familiari a Baghdad", dice dalla sicurezza di Damasco. "Tutta la famiglia ha paura di essere minacciata direttamente dal governo iracheno”.

Il governo del Primo Ministro Nuri al-Maliki nega di avere arrestato o imprigionato l’uomo sparito – anche se agenti governativi avevano tentato di arrestarlo all’aeroporto di Baghdad il 25 febbraio, dopo che al suo volo diretto ad Amman era stato ordinato di tornare in Iraq quando era quasi a metà strada per la Giordania, con a bordo una delegazione parlamentare irachena. Le autorità lo hanno accusato di aver pianificato un attentato suicida nel Parlamento iracheno il 12 aprile 2007, nel quale rimasero uccise otto persone, compreso un collega del suo stesso partito politico: una affermazione che al Karama, un gruppo per la difesa dei Diritti umani con sede a Ginevra, che a sua volta teme per l’incolumità di Dainy, definisce "politicamente motivata", dato che l’uomo scomparso aveva rivelato l’esistenza di carceri segrete e della tortura in Iraq.

Molti iracheni raccontano di carceri illegali, maltrattamenti, e persino stupri da parte delle forze di sicurezza controllate nominalmente dal governo Maliki – alcune storie sono vere, altre molto esagerate; Dainy però è una persona rispettata per il suo lavoro di indagine sui diritti umani, che lo scorso anno era volato a Ginevra, ospite di al Karama, che si occupa del mondo arabo, per discutere la sua attività con i funzionari delle Nazioni Unite, con la Croce Rossa Internazionale, e diverse organizzazioni non governative. In Svizzera, aveva presentato un documentario di 16 minuti in cui c’era anche del materiale che lui stesso aveva girato all’interno di carceri "segrete".

La sua sparizione, il mese scorso, è stata spaventosa come le accuse mosse nei suoi confronti dal governo. Dopo che il suo volo era rientrato all’aeroporto di Baghdad, agenti governativi erano saliti sull’aereo e avevano formalmente arrestato Dainy di fronte ai colleghi in parlamentari e ad altri passeggeri. Secondo le prime informazioni, era stato portato via dall’aeroporto in un convoglio di veicoli appartenenti alle forze di sicurezza. Informazioni arrivate in seguito avevano fatto pensare che avesse lasciato l’aeroporto assieme ai colleghi parlamentari e avesse chiesto di essere fatto scendere dall’auto nella quale si trovava sulla strada dell’aeroporto per evitare di venire arrestato a uno dei checkpoint governativi. Le guardie del corpo di Dainy sarebbero state arrestate per la parte avuta nella sua "fuga".

Persone vicine alla sua famiglia insinuano che è stato catturato e detenuto nella prigione di Kadhimiya, quindi trasferito in seguito nel carcere di Jadriya, anche se le autorità dicono di non saperne nulla. Secondo i familiari, le forze di sicurezza avrebbero fatto irruzione nelle loro abitazioni a Baghdad, e il padre 85enne dell’uomo scomparso sarebbe stato arrestato. Dainy aveva negato le accuse rivoltegli dal governo, secondo le quali sarebbe stato coinvolto nell’attentato suicida del 2007, dicendo che un suo nipote e il capo delle sue stesse guardie del corpo erano stati torturati prima di "confessare" in un video che dietro le uccisioni c’era lui.

Al Karama ritiene che tutta la vicenda sia iniziata dopo le dichiarazioni fatte da Dainy a Ginevra, il 30 ottobre dello scorso anno, nelle quali faceva appello all’aiuto internazionale per porre fine alle sofferenze degli iracheni tenuti nelle carceri in tutto il Paese. "Attraverso il mio lavoro, ho accesso a molti documenti ufficiali", aveva detto. "Ho molte persone e funzionari all’interno del governo che mi passano segretamente documenti ... Ho molti, molti documenti di ministeri che confermano uccisioni extragiudiziali nei centri di detenzione, il problema degli stupri sistematici nelle carceri femminili, e la … situazione dei diritti umani in Iraq". Dainy inoltre aveva condannato "gli enormi massacri" da parte degli americani a Falluja, aggiungendo che l’invasione di George Bush nel 2003 era stata illegale, e che l’Iraq è tuttora sotto occupazione.

In accuse più dettagliate, Dainy aveva affermato che 26.000 persone erano detenute dalle forze Usa in Iraq – ma che altre 40.000 si trovano in 37 carceri ufficiali sotto il controllo del governo. "In una prigione segreta nella quale sono stato, centinaia di prigionieri erano ammassati in ognuna delle sei stanze. C’erano persone di ogni tipo: uomini, donne, e bambini. In una prigione, c’erano 23 minorenni". Aveva condannato la Missione di assistenza all’Iraq delle Nazioni Unite (UNAMI) come inefficace, e aveva protestato perché ai funzionari che volevano indagare sulle violazioni dei diritti umani non veniva concesso il permesso di visitare le carceri. Dainy, come molti altri sunniti, è molto critico sul coinvolgimento iraniano in Iraq, e aveva ammonito i funzionari a Ginevra riguardo all’influenza dell’Iran sul governo Maliki – dicendo tuttavia che, nella sua veste di parlamentare, era riuscito a visitare di persona 13 carceri, tre delle quali controllate in modo congiunto dalle forze Usa e da quelle irachene. "Sono un deputato e questo mi mette in pericolo”, aveva detto al suo pubblico a Ginevra. "Ma tornerò a Baghdad, e questo non ci fermerà". Parole premonitrici. Come ha detto all’Independent il fratello Ahmed al-Dainy: "Non possiamo fare niente con il governo perché si stanno rifiutando di parlare o di trattare con noi. Qualsiasi contatto stabiliamo, per telefono o di persona, viene immediatamente interrotto."La cosa più importante che si può fare adesso viene dalle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, e da qualunque tipo di pressione internazionale che possa essere esercitata sul governo iracheno".