martedì 3 marzo 2009

Il pantano afghano

Ieri il premier canadese Stephen Harper aveva dichiarato alla CNN "Vincere la guerra in Afghanistan e' impossibile. La mia valutazione, con tutta franchezza e' che non sconfiggeremo mai l'insurrezione. Dobbiamo avere un governo afghano che sia in grado di controllare questa rivolta e migliorare la propria capacita' di governare''.
Il Canada partecipa alla missione della Nato con circa 2.700 militari basati a Kandahar.

Nel frattempo la guerra continua con il quotidiano stillicidio di morti tra i civili, ma anche tra le truppe NATO destinate ormai da tempo ad una cocente sconfitta militare.
E ad agosto si elegge il nuovo Presidente, con una campagna elettorale contrassegnata da una crescente ostilita' nei confronti degli occupanti occidentali.


Afghanistan, tra guerra e politica
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 3 Marzo 2009

Crescente l'insofferenza verso l'occupazione occidentale

In Afghanistan i civili continuano a morire come le mosche sotto il fuoco delle truppe Usa e Nato. L'ultimo 'incidente' venuto alla luce risale a lunedì scorso, 23 febbraio, quando otto civili sono morti e diciassette sono rimasti feriti in un bombardamento aereo sull'abitato di Sangin, nella provincia meridionale di Helmand, ordinato in risposta a un'imboscata talebana contro una pattuglia britannica.

"Più soldati, più guerra". In un clima di crescente ostilità verso le truppe occidentali, la decisione di Washington di inviare altri 30 mila soldati nei prossimi mesi (17 mila già in primavera) sta suscitando la dura opposizione tra i parlamentari afgani di origine pashtun, la popolazione maggiormente colpita dalle operazioni militari. Una cinquantina di deputati stanno lavorando per bloccare l'invio di rinforzi. "Ci mandino piuttosto 30 mila insegnanti, o 30 mila dottori o 30 mila ingegneri, ma non inviino qui altri soldati perché questo porterà solo più violenza", ha dichiarato alla stampa la deputata Shukria Barakzai, fondatrice della rivista Aina-e-Zan, Lo Specchio delle Donne."La maggioranza della popolazione è contraria all'arrivo di più truppe perché sanno che queste non porteranno più sicurezza, ma solo più guerra", gli fa eco un altro parlamentare pashtun, Hanif Shah Hosseini.

Critici. La crescente insofferenza degli afgani verso l'occupazione occidentale è destinata a diventare argomento principe della campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali di agosto. Il presidente uscente Hamid Karzai, nel disperato e ipocrita tentativo di recuperare consensi interni - dopo aver perso l'appoggio di Washington - continuerà a protestare contro le stragi Usa e Nato di civili.Lo sfidante Mohamad Hanif Atmar, attuale ministro degli Interni, sostiene il graduale ritiro delle truppe straniere e la 'afganizzazione' del conflitto. "Non abbiamo bisogno di più soldati stranieri, abbiamo solo bisogno di armi e addestratori per i nostri combattenti, che riuscirebbero a sconfiggere il nemico nel giro di cinque anni invece dei quindici previsti dalla Nato, e a un decimo del costo che oggi l'Occidente sostiene per finanziare le sue truppe".

Allineati. Gli altri candidati, visti i loro curriculum, difficilmente criticheranno le decisioni del Pentagono e della Nato.Il primo della lista (ancora non ufficialmente candidato) è il noto 'falco' Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore statunitense in Afghanistan, in Iraq e all'Onu.Sono cittadini Usa anche i candidati ufficiali Ashraf Ghani - ex ministro delle Finanze ed ex consigliere di Karzai, formatosi nelle migliori università statunitensi, alla Banca Mondiale e alle Nazioni Unite - e Ali Ahmad Jalali - ex ufficiale della resistenza antisovietica ed ex ministro dell'Interno di Karzai, insegnante di strategia militare all'Università di Difesa Nazionale del Pentagono, a Washington. Fedeli alla linea Usa anche gli altri tre candidati: Anwar ul-Haq Ahady, altro ex ministro delle Finanze formatosi negli Stati Uniti, Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri considerato il più filo-americano tra i leader tagichi dell'Alleanza del Nord, e Gul Agha Sherzai, ex signore della guerra e attuale governatore della provincia di Nangarhar, combattente al servizio degli Usa sia contro i sovietici che contro i talebani (fu lui a conquistare Kandahar nel 2001): oggi è accusato di legami con il narcotraffico ma è indicato da Obama come un modello di politico afgano locale.



La Cina rompe il suo silenzio sull'Afghanistan
di M. K. Bhadrakumar - Mirumir - 2 Marzo 2009

Nel contesto violento e letale in cui visse e sopravvisse per poi guidare la marcia di Pechino verso un socialismo dai tratti cinesi, Deng Xiaoping aveva motivo di essere cauto. Sull'atteggiamento internazionale della Cina, Deng ebbe a dire: “Osservare con calma; fortificare la nostra posizione; occuparsi con calma degli affari; tenere celate le nostre capacità e attendere il momento opportuno; saper mantenere un basso profilo; e mai rivendicare il comando”.Dunque la Cina non ha mai detto quello che pensa del problema afghano. L'organo del Partito Comunista Cinese, il People's Daily, ha ora infranto quella regola empirica con un editoriale ricco di sfumature.

Naturalmente il momento è critico: il clima della regione che circonda l'Afghanistan minaccia di diventare infernale in men che non si dica. Ma questo non basta a spiegare la scelta dei tempi per un editoriale cinese intitolato “Avranno successo le correzioni alla strategia anti-terrorismo degli Stati Uniti?”Il contesto è importantissimo. Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton ha appena concluso un'epocale visita in Cina. Pechino sta chiaramente tirando un sospiro di sollievo per il “senso di certezza” nelle relazioni sino-americane sotto il Presidente Barack Obama. Inoltre Pechino è rimasta affascinata dal fatto che Clinton abbia citato l'antico aforisma cinese tongzhou gongji –“su una stessa barca ci si aiuti a vicenda” – come spirito dei nostri tempi difficili. Questo va ben oltre l'amore severo di George W. Bush, che voleva rendere la Cina uno “stakeholder” nel sistema internazionale.Tra gli argomenti trattati da Clinton con i leader cinesi ci sarà stato sicuramente l'Afghanistan, tanto più che la sua visita ha coinciso con l'annuncio della decisione di Obama di aumentare il contingente statunitense in Afghanistan.

Pescare nel torbido

Ci sono però altri due sottintesi. Gli Stati Uniti stanno tangibilmente cambiando marcia nella loro politica in Asia Meridionale, come risulta evidente dalla decisione di Obama di nominare Richard Holbrooke rappresentante speciale per l'Afghanistan e il Pakistan. Holbrooke non è nuovo a Pechino.

Evidentemente, all'indomani della recente visita di Holbrooke nella regione, Pechino ha concluso che la relazione degli Stati Uniti con l'India sta entrando in una fase qualitativamente nuova che ha mostrato alcuni segni di attrito. Per Pechino è vantaggioso pescare nel torbido e accumulare ulteriori pressioni sul suo vicino meridionale.In secondo luogo, il Ministero degli Esteri russo ha annunciato la scorsa settimana che erano stati estesi gli inviti per l'attesa conferenza sull'Afghanistan della Shanghai Cooperation Organization (SCO, Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione), che si terrà a Mosca il 27 marzo. Per Pechino si avvicina il momento di prendere posizione sul problema afghano. I sermoni reticenti non possono più bastare.La Cina ha un senso di solidarietà con la Russia – o con paesi osservatori della SCO come l'India e l'Iran? Pechino però non può neanche permettersi di dissipare l'attuale slancio di cooperazione con l'amministrazione Obama. E gli Stati Uniti (e i loro alleati) stanno boicottando la conferenza della SCO.

Dunque prossimamente potremmo assistere ad alcuni formidabili equilibrismi di Pechino. L'editoriale del People's Daily ha praticamente sollecitato un ampliamento del mandato di Holbrooke a includere il “problema indo-pakistano”. Certo, non nomina il Kashmir, ma non lascia dubbi sul fatto che proprio al Kashmir stia alludendo: e cioè che gli Stati Uniti dovrebbero mediare per una soluzione a ciò che il Pakistan definisce “una questione centrale” nelle sue tese relazioni con l'India.L'editoriale cinese dice che il solo aumento del contingente americano in Afghanistan non può contribuire al raggiungimento degli “obiettivi strategici” di Obama, a meno che gli Stati Uniti non stabilizzino l'Asia Meridionale, soprattutto la relazione tra Pakistan e India.

Così prosegue l'editoriale:

È chiaro che senza la cooperazione del Pakistan gli Stati Uniti non possono vincere la guerra contro il terrorismo. Dunque per salvaguardare i loro interessi nella lotta al terrorismo nell'Asia Meridionale gli Stati Uniti devono assicurare al Pakistan un clima interno e internazionale stabile e alleviare le tensioni tra il Pakistan e l'India. Ciò rende facile capire perché Obama abbia nominato Richard Holbrooke inviato speciale per l'Afghanistan e il Pakistan, e perché l'India sia stata inclusa nel primo viaggio all'estero di Holbrooke. Di fatto, il “problema afghano”, il “problema pakistano” e il “problema indo-pakistano” sono tutti collegati. (Corsivo mio).

Queste non sono parole buttate là. E queste osservazioni poco amichevoli difficilmente passeranno inosservate a Nuova Delhi. I diplomatici indiani hanno fatto di tutto per far sì che l'incarico di Holbrooke non coprisse l'India, benché nei think tank americani e nell'establishment statunitense ci sia una consistente corrente di pensiero che insiste sul fatto che finché il problema del Kashmir resterà irrisolto le tensioni tra l'India e il Pakistan continueranno. Pechino adesso ha fatto il suo ingresso nella discussione. Si esprime apertamente a favore della posizione pakistana.

Il fatto interessante è che Pechino tralascia del tutto la causa fondamentale dell'“anti-americanismo” diffuso in Pakistan, che ha molto a che vedere con l'interferenza degli Stati Uniti negli affari interni di quel paese, soprattutto il sostegno americano alle dittature militari, o con la psiche ferita dei musulmani o con la brutale guerra in Afghanistan. Anzi, l'editoriale cinese tace sulla questione centrale dell'occupazione straniera dell'Afghanistan.

Pechino non può nutrire ingenuità sul fatto che la contrarietà dell'India all'intervento di terzi in Kashmir sia meno acuta dell'allergia di Pechino a tutto ciò che concerne l'opinione mondiale sul Tibet o lo Xinjiang. Una possibile spiegazione può essere che Pechino vede con nervosismo la prospettiva che l'India decida nuovamente di giocare la “carta del Tibet” nell'imminenza del 50° anniversario della rivolta del Tibet, che ricorre il prossimo mese.

In vista di quell'anniversario Pechino sta usando la mano pesante con i nazionalisti tibetani. Si può supporre che intenda avvisare l'India che anche la Cina potrebbe usare una “carta del Kashmir”. Tutto considerato, dunque, gli strateghi indiani dovranno analizzare tutto lo spettro delle motivazioni cinesi che stanno dietro alla richiesta di una mediazione statunitense nella disputa tra India e Pakistan proprio in questo frangente, subito dopo i colloqui tra Hillary Clinton e la dirigenza di Pechino.

Oltre all'India, Pechino vede anche la Russia come un'altra potenza regionale che influisce negativamente sulla strategia statunitense di stabilizzazione dell'Afghanistan. (Tra l'altro, l'editoriale ignora del tutto l'Iran, come se non fosse un fattore di peso sullo scacchiere afghano). L'editoriale scrive: “.... gli Stati Uniti devono cercare di placare la Russia. La regione dell'Asia Centrale, dove è situato l'Afghanistan, era tradizionalmente una sfera di influenza russa... Se le relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia mostrano segni di ripresa dopo l'ascesa alla presidenza di Obama, le reazioni russe alla decisione statunitense di incrementare il contingente in Afghanistan sono alquanto oscure”.

Dunque, cosa farà Obama? Pechino esprime la seguente valutazione: “È evidente la determinazione della Russia a non permettere agli Stati Uniti di avere il controllo esclusivo sulla questione afghana. Il modo in cui gli Stati Uniti gestiscono la loro relazione 'collaborativa e competitiva' con la Russia sul problema afghano metterà alla prova la capacità degli Stati Uniti di conseguire i propri obiettivi strategici in Afghanistan”.

Ma la Cina è anche parte interessata nei due contenziosi che affliggono attualmente le relazioni tra Stati Uniti e Russia: l'espansione della NATO in Asia Centrale e il posizionamento del sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti. La Cina non può soffrire l'espansione della NATO nella propria sfera di influenza centro-asiatica e si oppone al sistema di difesa antimissile statunitense che demolirà la capacità di attacco nucleare della Cina, che è relativamente ridotta.Ma, come direbbe Deng, perché rivendicare il comando dell'opposizione a queste mosse statunitensi quando Mosca sta già facendo uno splendido lavoro?

L'editoriale del People's Daily distingue tra gli interessi russi in Afghanistan. Implicitamente, invita Washington a non interpretare la prossima conferenza della SCO come una sorta di coalizione di Cina e Russia. Inoltre, affermando che la chiusura della base aerea di Manas da parte delle autorità kirghize fa parte di “un gioco strategico tra Stati Uniti e Russia”, il People's Daily ha di fatto ridimensionato la prossima conferenza della SCO. Dopo tutto, la ragion d'essere della conferenza è che la situazione afghana rappresenta una minaccia per la sicurezza dell'Asia Centrale. Ma l'editoriale cinese non nomina questo aspetto nemmeno una volta.

Sintetizzando, quello che emerge è che indipendentemente dalla determinazione di Mosca a sfidare il “monopolio [statunitense] sulla risoluzione del conflitto” in Afghanistan, la Cina non si farà trascinare in questi calcoli. Come direbbe Deng, la Cina osserverà con calma e manterrà un basso profilo. Dopo tutto, la Russia si sta facendo strada a forza in Afghanistan e se avrà successo ne beneficeranno non solo la SCO ma la Cina stessa. D'altro canto, se gli Stati Uniti decideranno di ignorare la Russia ne uscirà danneggiato solo il prestigio di Mosca, non quello di Pechino.

Pechino è indispettita dai nuovi fermenti nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia? Mosca avrebbe motivo di riflettere sul perché il People's Daily abbia scelto di battere sul tasto del risentimento russo per l'influenza statunitense in Asia Centrale in un momento così delicato, proprio quando l'amministrazione Obama ha deciso di non far pesare la chiusura della base di Manas sulle relazioni con la Russia. Il fatto di essere dipinta come “guastafeste” nella strategia di Obama per l'Afghanistan potrebbe mettere Mosca in imbarazzo.

Mano tesa agli islamisti

L'aspetto straordinario dell'editoriale cinese è il riferimento obliquo alla questione centrale dei taliban. Pare che Pechino non abbia di per sé alcun problema se i taliban trovano posto nella struttura di potere afghana nel quadro di una soluzione politica. Fatto interessante, l'editoriale consiglia agli Stati Uniti di essere “pragmatici a proposito delle vere condizioni dell'Afghanistan”. Esprime anche supporto per l'argomento secondo il quale l'Afghanistan è privo di “quasi tutti i prerequisiti della modernità”. Suggerisce inoltre che l'Afghanistan non può essere uno stato unitario.

Questi commenti vanno considerati alla luce della linea di pensiero diffusasi tra le élite statunitensi e britanniche secondo la quale un approccio “dal basso verso l'alto” che comporti la diffusione del potere statale a favore delle dirigenze locali potrebbe essere la risposta ai problemi dell'Afghanistan e il sistema migliore per coinvolgere i taliban nella struttura di potere delle regioni pashtun.

Con una mossa inedita, la scorsa settimana il Partito Comunista Cinese ha invitato in Cina una delegazione dell'influente partito pakistano Jamaat-e-Islami (JI). Durante la visita, che si è protratta per una settimana, le due parti hanno firmato un memorandum d'intesa che enuncia quattro principi delle relazioni Cina-Pakistan: indipendenza, parità, reciproco rispetto e non-ingerenza nei rispettivi affari interni.

Intanto il JI ha assicurato pieno sostegno all'unità nazionale e geografica della Cina e ha appoggiato la posizione della Cina sulle questioni di Taiwan, del Tibet e dello Xinjiang. Pechino ha poi ricambiato con la sua “posizione di principio” sulla questione del Kashmir e ha “ribadito la continuità di questa posizione e della vitale cooperazione della Cina”.

Il socialismo – anche con caratteristiche cinesi – non si mescola facilmente con l'islamismo. La cooperazione del PCC con il maggiore partito islamico del Pakistan non si spiega se non come un patto faustiano sullo sfondo dell'influenza nella regione delle forze dell'Islam militante.

Il People's Daily ammette che l'esito della strategia statunitense del “surge” in Afghanistan rimane incerto. Prende nota del fatto che gli Stati Uniti si stanno anche muovendo verso “un compromesso con i taliban moderati”, perché altrimenti il Presidente Hamid Karzai non si sarebbe avventurato su quella strada. L'editoriale loda questo atteggiamento come manifestazione di “smart power”, il concetto di potere intelligente “frequentemente menzionato” da Clinton. Vale a dire che mentre l'aumento del contingente statunitense è una “misura dura”, “politiche come aiutare il governo afghano a consolidare il suo regime per stabilizzare gradualmente il paese saranno la 'misura morbida'”.

Nello stesso tempo, Pechino è consapevole che i veri piani statunitensi potrebbero essere strategici nella misura in cui l'Afghanistan è situato “al crocevia dell'Eurasia”. Se sconfiggere al-Qaeda costituisce un obiettivo, la strategia di Washington rafforzerà anche “la cooperazione e l'alleanza della NATO per garantire che la prima azione militare della NATO al di fuori dell'Europa non fallisca”. E a sua volta questo permetterà agli Stati Uniti di “innalzare il loro prestigio tra gli alleati e consolidare la loro presenza nel cuore dell'Eurasia con questi mezzi”.

Sembra che Cina non abbia alcun problema con questi piani. La Cina “terrà celate le proprie capacità” – per citare Deng – anche se gli Stati Uniti e la Russia si scontreranno e si annulleranno a vicenda e alla fine crolleranno esausti. Come conclude il People's Daily, l'Afghanistan è noto come la “tomba degli imperi”. Dunque la Cina deve limitarsi a fortificare la sua posizione e ad attendere il momento opportuno: strategia che Deng avrebbe sicuramente apprezzato.

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=7122&lg=it



Afghanistan: come puo' cambiare la politica americana
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 27 Febbraio 2009

L’invio di 3 mila uomini della 10^ Divisione da montagna nelle province afgane di Logar e Wardak, decisione presa alla fine dello scorso anno dalla Casa Bianca come risposta all’escalation delle attività talebane, è stato l’ultimo atto dell’amministrazione Bush. Il primo dell’amministrazione Obama, datato 17 febbraio 2009, è stato l’annuncio del rischieramento di 17 mila soldati.

Lo scopo del Pentagono è limitare il movimento della guerriglia che dal Pakistan settentrionale entra in Afghanistan attraverso le province di Badakhshan, Konar, Nangarhar e Paktia. Il primo effetto è la crescente preoccupazione espressa dalla catena di comando che rimane riluttante di fronte ad un frettoloso ritiro dall’Iraq e mostra una certa preoccupazione circa il sovraccarico a cui sono sottoposti l’esercito e i corpi dei marines in Asia centro-meridionale.

La strategia americana è chiara: applicare in Afghanistan lo stesso algoritmo già sperimentato sul fronte iracheno, soprattutto ora che, dopo otto anni di guerra, sono anche i media ad esprimere dubbi sui risultati ottenuti in un paese dove il progressivo deterioramento della sicurezza rende impossibile qualsiasi soluzione. Il contingente di 17 mila uomini annunciato da Obama non risolve certo il problema afgano; per garantire la stabilizzazione del paese gli esperti prevedono infatti la presenza sul terreno di almeno 100 mila unità, un impegno che potrebbe durare a lungo e che non può prescindere dall’abbandono di altri fronti.

In alternativa, l’amministrazione americana potrebbe decidere di mantenere l’attuale status quo: una scelta che in termini militari permetterebbe forse di limitare l’aumento delle violenze ma che sotto il punto di vista politico non garantirebbe la governabilità del paese se non scendendo a patti con i leader talebani più moderati, quelli che ancora accettano il dialogo. Come ultima opzione Obama potrebbe ordinare il ritiro progressivo delle truppe: una soluzione che gli permetterebbe di minimizzare le perdite, chiudere definitivamente una campagna impossibile (soprattutto in un paese dove la presenza militare degli occidentali è considerata una sorta di occupazione coloniale) spendere meno e guadagnare consensi, lasciando comunque l’Afghanistan alla mercè delle milizie.

A quasi otto anni dall’inizio del conflitto, i talebani hanno ristabilito la loro presenza in gran parte del paese e controllano praticamente le indomabili aree tribali del Pakistan settentrionale, le zone dove la controversa politica dei “drone” ha fatto, e continua a fare, più danni che altro. Un esempio: il 23 gennaio, pochi giorni dopo l’insediamento di Obama, due missili hanno colpito un villaggio del Waziristan e, delle 22 persone uccise, 8 erano militanti di al-Qaeda, mentre le altre 14 vittime includevano un capo tribale filo-governativo e la sua famiglia. Il Pentagono è convinto che questi attacchi sono l’unico mezzo efficace per eliminare i leader di al-Qaeda e i capi talebani che si nascondono tra le montagne; l’esercito pachistano sostiene invece che la morte dei civili, i così detti danni collaterali, non fa altro che inasprire i sentimenti anti-americani delle popolazioni locali e rinforza il sostegno alla guerriglia. E non potrebbe essere altrimenti visti i 2.118 civili morti lo scorso anno, un numero mai raggiunto dall’inizio della guerra.

Per capire le perplessità americane è necessario analizzare lo sforzo statunitense e le difficoltà alle quali gli Usa potrebbero andare incontro, non ultimo il rischio che con l’andare del tempo nel paese asiatico si possano ripetere le condizioni che il 15 febbraio 1989 portarono l’Armata Rossa ad annunciare la ritirata. Vent’anni fa i sovietici compresero, anche se troppo tardi, che aumentare le truppe generava solo nuove perdite e che combattere un nemico che si muove con facilità e rapidità attraverso i confini era praticamente impossibile. Oggi gli Stati Uniti stanno incontrando le stesse difficoltà: i talebani controllano ampie zone del paese e le continue sconfitte non sembrano fiaccare minimente la loro capacità operativa.

Washington deve poi far fronte ad un altro problema: le milizie stanno cercando di esportare il conflitto in Pakistan, un paese in forte difficoltà, stretto tra la morsa dell’integralismo islamico e gli interessi stranieri, che rischia di scivolare verso la china della guerra civile e dove un semplice intervento militare potrebbe dar vita ad un nuovo drammatico fallimento. Con il compito di stabilizzare l’Afghanistan e tutelare le funzioni del governo insediatasi a Kabul il 22 dicembre 2001, dall'agosto 2003 l’International Security Assistance Force (ISAF), la forza di intervento internazionale autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, è passata sotto il controllo operativo della NATO.

Più di 50 mila militari, 26 team di ricostruzione provinciale (PRT) e un’Area di Responsabilità (AOR) di circa 650 mila chilometri quadrati suddivisi in cinque Comandi di Regione: il Regional Command Capital di Kabul che comprende il Quartier Generale ISAF, il Quartier Generale di Regione e la componente NATO dell’aeroporto internazionale di Kabul (5.740 unità); il Regional Command South di Kandahar (22.000); il Regional Command West di Herat (2.940); il Regional Command North di Mazar-e-Sharif (4.740); il Regional Command East di Bagram (21.000). I dati relativi al 13 febbraio scorso parlano di 41 paesi coinvolti, 26 dei quali membri della NATO, e di una forza totale pari a 56.420 militari, 24.900 dei quali forniti dagli Stati Uniti, 8.300 dalla Gran Bretagna, 3.460 dalla Germania, 2.830 dal Canada, 2.780 dalla Francia e 2.350 dall’Italia.

Il contributo americano è al primo posto anche in termini di perdite: 660 su 1086 in poco più di sette anni di guerra e un trend che passa dalle 12 vittime su 12 del 2001, anno di inizio dell’Operazione Enduring Freedom, alle 159 su 298 del 2008.All’interno dell’Alleanza Atlantica la decisione americana di aumentare la presenza militare in Afghanistan e di spingere l’azione fino ai territori pakistani influenzati dalla presenza talebana non trova un supporto concreto. Per ora sarebbero solo due i membri disposti ad appoggiare la strategia Usa: Gran Bretagna e Polonia, che però non offrirebbero più di duemila uomini; questo almeno il prodotto del meeting della NATO tenutosi a Cracovia il 19 febbraio scorso, un risultato che non avrebbe soddisfatto il segretario americano per la Difesa, Robert Gates, piuttosto riluttante ad accettare un contributo sostanzialmente indirizzato ad attività di tipo civile o sottoforma di addestramento militare all’esercito e alle forze di polizia afgane.

Sta di fatto che per Barak Obama l’Afghanistan rimane una questiona “prioritaria”, una questione che può coinvolgere altre realtà regionali e che, nel quadro di una nuova strategia politico-militare, non può prescindere dal consenso e dal concreto sostegno degli alleati. Senza stabilità e sicurezza le promesse di una politica di aiuti umanitari, di ricostruzione rapida e di ampliamento dell’istruzione non bastano a riconquistare il cuore dei cittadini afgani.