martedì 5 maggio 2009

Cose italiote

Qui di seguito un update di alcune tipiche situazioni italiote.

Stato di Mediaset

di Eugenio Orso - www.ariannaeditrice.it - 4 Maggio 2009

Fra le tante piacevolezze che ci ha regalato la mondializzazione, oltre alla comunicazione globale e la proliferazione dell’immondizia finanziaria c’è la riduzione di molte cose, fra le quali gli organismi aziendali, ad uno stato che qualcuno ha definito “stato di network”.

Organizzazione reticolare, outsourcing, smaterializzazione dell’economia, deterritorializzazione e deresponsabilizzazione nei confronti dell’alveo di origine, con conseguente depauperamento e riflessi sociali negativi dominano questo primo scorcio del terzo millennio.

Persino l’organizzazione terroristica per antonomasia negli spazi globali, al-qā‘ida, con le sue numerose propaggini ha assunto uno “stato di network”, in forma reticolare e servendosi delle nuove tecnologie della comunicazione offerte dall’età del silicio, per combattere su terreni più favorevoli il conflitto asimmetrico con la lonely superpower americana.

Se a livello planetario un “salto di qualità” delle strategie del marketing di massa ordite dalle grandi aziende multinazionali ha contribuito a generare il mercato globale, ad indebolire gli stati nazionali e adattare le culture locali al prodotto, in alcuni casi distruggendole, nella periferica Italia del berlusconismo e del fallimento delle due sinistre abbiamo potuto assistere all’affermarsi di una forma originale di degenerazione della cultura, della politica e, di riflesso, della così detta società nazionale, che potremmo definire come “stato di fiction” o meglio – data la provenienza e gli interessi del leader-ologramma dietro la cui immagine si nasconde questo particolare sistema di potere – stato di Mediaset.

Quella che è stata definita “l’anomalia italiana” rientra pur sempre nello spazio globalizzato del presente, dalle cui regole e modelli non si può prescindere, e il marketing dell’industria della comunicazione in parte significativa nelle mani di un imprenditore-leader politico – a partire dai media tradizionali rappresentati da televisioni e giornali – ha cercato semplicemente di adattare la società italiana al suo prodotto, non senza qualche successo decisivo, come tutti abbiamo modo di constatare.

Imprenditore della comunicazione e prima ancora costruttore, televisivo e palazzinaro, Berlusconi è stato celebrato e lo è tutt’ora, non certo come un fine teorico di quella particolare branca della moderna economia rappresentata dal marketing, ma come un praticone, uno con il fiuto per gli affari, volto al successo nell’approccio ai mercati – non ultimo quello al quale è stata ridotta la politica – un’autentica calamita per attrarre consensi elettorali.

Il marketing politico spinto alle estreme conseguenze, in corrispondenza al progressivo degrado dello zōon politikon italiano – trasformato in consumatore vorace e tifoso del Milan, spettatore delle peggiori kermesse proposte dalla televisione spazzatura e vittima di modelli di comportamento socialmente distruttivi, in molti casi non più capace di esprimere una propria visione del mondo con gli strumenti critici e culturali a disposizione – ne hanno determinato l’alto gradimento nei sondaggi, mentre l’interazione fra impoverimento progressivo della maggioranza della popolazione e la paura del futuro che si diffonde nella società sembra corroborare, anziché pregiudicare, il successo di Berlusconi.

Dietro a lui si agitano ancora gli spiriti inquieti di una certa “cupola” e ricompare la sostanza del Piano di rinascita democratica della disciolta Propaganda 2, ma neppure questi legittimi sospetti paiono incidere significativamente sull’esito dei sondaggi.

Scrive Oscar Marchisio nella prefazione a Il programma di Licio Gelli. Una profezia avverata? di Antonella Beccaria: «Vince chi plasma lo share, chi traduce le forme arcaiche di “tifoseria” in audience politica, chi usa la “telecrazia”, in forma gramsciana, come “egemonia” sociale, passando dalle icone della “pubblicità” per il consumo a quelle della politica senza soluzione di continuità. Questa in sintesi l’innovazione del fratello 1816 [Berlusconi, n.d.s.] che ha svolto bene il tema introdotto dal Piano di rinascita democratica. Uno spostamento d’asse che svuota le istituzioni della rappresentanza, o meglio le tiene in vita ma plasmate dall’audience invece che dal sistema politico-partitico.»

Persino le numerose gaffe stigmatizzate dalla stampa internazionale e dai media mainstream di mezzo mondo hanno avuto, principalmente e con il senno di poi, la funzione di distogliere l’attenzione della “opinione pubblica” dalle cose importanti e, con la semi-complicità di un’opposizione sistemica debole e inutilmente starnazzante, fuorviata nel lanciare attacchi al cavaliere per la sua palese inadeguatezza sulla scena internazionale, di consentire non di rado lo spostamento del dibattito da questioni cruciali per il futuro assetto del paese – quali il precariato, il sedicente federalismo fiscale d’impronta leghista, l’immigrazione e i diritti dei lavoratori – a queste risibili ed estemporanee faccende.

Scivolare totalmente in uno “stato di fiction”, o con maggiore espressività e malcelata ironia in uno stato di Mediaset, significa non riuscire neppure ad accorgersi, ad esempio, che i criteri di composizione delle liste elettorali per le prossime elezione europee tendono ad approssimare al meglio le logiche sottilmente perverse della politica-spettacolo, subordinano le candidature proposte al successo mediatico e televisivo degli aspiranti candidati e soprattutto, in alcuni noti casi, delle aspiranti candidate.

Una robusta quota di giovanette, belle e fotogeniche, bilanciata da una quota di belli per far soddisfare anche le attese dell’elettorato femminile, come se si trattasse di attori o comprimari scritturati per una fiction, sembrano gli ingredienti più adatti per una rappresentanza politica nazionale in un’assemblea sopranazionale dai pochi poteri effettivi, lontana dall’interesse e dai problemi degli elettori non solo italiani, come quella che si divide fra Bruxelles e Strasburgo.

Questi comportamenti non riguardano esclusivamente il cartello elettorale dell’attuale premier, ma anche gli altri, l’opposizione parlamentare che gioca sempre di più “di rimessa” e sembra adattarsi abbastanza agevolmente allo stato di Mediaset.

Infatti, oltre ai soliti trombati alle politiche e ai dinosauri sopravvissuti alla messa in liquidazione dei partiti di massa e della prima repubblica come Cirino Pomicino, Ciriaco De Mita e Clemente Mastella – ai quali sembra che sia necessario trovare un posto ben retribuito, in quanto specie protetta e possessori di pacchetti di voti, referenti di clientele locali – fra gli aspiranti sono comparsi nomi del calibro di Vittorio Sgarbi, noto donnaiolo, protagonista della televisione spazzatura e dei dibattiti-rissa e quello del giovane, fotogenico rampollo di casa Savoia, i cui “meriti” sono tutti da verificare.

L’esclusione dalle liste di Cirino Pomicino e l’inclusione di Clemente Mastella, in casa PdL e affiliati, non ci riporta idealmente all’alternativa fra Gesù e Barabba, ma a quella fra Barabba 1 e un altro Barabba, Barabba 2, volendo fare un po’ d’ironia.

Se le durissime dichiarazioni della consorte in seconde nozze di Berlusconi in odor di divorzio, Miriam Bartolini in arte Veronica Lario – solitamente molto riservata, come fa notare certa stampa – hanno contribuito a mettere in luce la sostanza delle liste elettorali che il PdL aveva in caldo per le europee e a provocare una decisa marcia indietro, con la “dolorosa” esclusione di molte bellezze da vignetta e attricette, fra le quali l’importante Angela Sozio, per fare un solo nome e non scivolare completamente nel gossip, che ha costruito le sue fortune partecipando al Grande Fratello, del grande “harem” rimangono in pista Barbara Matera, Lara Comi e Licia Ronzulli, con il cavaliere che le sponsorizza fino alla fine: «Farò campagna elettorale con le cosiddette veline che parleranno insieme a me. Io le presenterò con i loro titoli di studi, racconterò quello che hanno fatto e poi gli darò la parola.»

Evidente l’intenzione di “svecchiare” la rappresentanza parlamentare italiana, a partire da quella di Strasburgo, sostituendo progressivamente i vecchi “quadri” con giovani e giovanette – belli, fotogenici ed eleganti, non certo malvestiti e maleodoranti – ma soprattutto meno pericolosi per la stabilità e continuità del suo potere, cresciuti alla sua corte e quindi più adatti a “fare immagine” e sostenere l’audience, ad attrarre consensi senza disturbare il manovratore.

Sul versante dell’opposizione parlamentare più consistente, è da segnalare che il Pd provvisoriamente in consegna a Franceschini, nell'attesa di “passare la nottata” rappresentata dal prossimo congresso, oltre a proporre la candidatura di vecchi ordigni quali Sergio Cofferati per garantirgli una futura collocazione, punta ancora “sui giovani”, meglio se con le faccine pulite, acqua e sapone, senza preoccuparsi della loro inconsistenza politica, come è il caso di una certa Debora Serracchiani – in lista alle europee per il collegio di Nordest assieme a Luigi Berlinguer – che in un suo recente intervento assembleare ha redarguito “con semplicità” i vertici del partito, non dicendo nulla di particolarmente illuminante, sprecandosi in luoghi comuni e considerazioni da pianerottolo condominiale, usando espressioni politichesi vuote quali “linea politica di sintesi”, che sarebbe venuta a mancare nel partito.

Si tratta chiaramente di forme di “berlusconismo secondario”, le quali riportano ancora una volta allo “stato di fiction” in cui è scivolata inesorabilmente anche la debole e confusa opposizione interna al sistema.

Il cambiamento, rispetto ai passati confronti elettorali e di piazza ideologizzati fra i vecchi e stramorti partiti di massa, quando ci poteva scappare anche il morto, è quanto meno epocale e volendo spingersi oltre addirittura antropologico.

La progressiva scomparsa delle ideologie novecentesche non ha dunque lasciato il campo ad una partecipazione consapevole, critica e libera, che dovrebbe concretarsi nel tanto celebrato “voto di opinione” e nella diffusione della democrazia diretta, ma, al contrario, ha preparato il terreno – partendo dal dato sociale e culturale – a nuove forme di manipolazione, ben più invasive e debilitanti nel corpo della società.

I candidati non provengono dalla tanto decantata “società civile” e non la rappresentano: l’origine della loro popolarità e delle loro fortune è sempre più spesso mediatica e virtuale, segnando una distanza incolmabile fra questa democrazia delle apparenze, caratterizzata dall’uso distorto del meccanismo della delega e delle assemblee rappresentative, e la realtà in cui tutti noi viviamo.

Ad essere un po’ spicci e superficiali si può azzardare che non è più la politica a controllare la televisione, ma è la televisione, secondo le sue regole dettate dall’audience, dallo share, dal gradimento di un pubblico indistinto che non può sfuggire al condizionamento, a “selezionare” i candidati per le assemblee elettive, i quali, a loro volta, devono preliminarmente immergersi in un’atmosfera di fiction, partecipare a squallidi reality in fattorie, case o isole, fare i tronisti o le veline, presenziare a dibattiti televisivi pilotati e politicamente corretti o ad autentiche risse sullo schermo, entrando inevitabilmente nello stato di Mediaset, apoteosi della politica-spettacolo o ancor meglio dello spettacolo-politica, data la preminenza e la rinnovata potenza dello schermo su contenuti politico-sociali sempre più spesso frammentari o pressoché assenti.

Una simile “selezione inversa”, operata al di fuori dello spazio politico tradizionale, può avere effetti ben peggiori, a lungo termine, dell’occupazione di tale spazio da parte di “nani e ballerine”, come è accaduto nell’epoca craxiana della Milano da bere, della dazione ambientale e dell’ottimismo della volontà, la quale, semmai, ha contribuito a preparare il terreno alle successive metamorfosi del potere.

Essere prigionieri di questo stato significa dire, ripetendo le parole dello stesso Berlusconi dopo la bagarre mediatica suscitata dalla proposta di candidatura per le europee di almeno una ventina fra belle e giovani arrampicatrici sociali, veline, miss regionali, annunciatrici e starlet televisive in cerca di scorciatoie per facili carriere: «Noi vogliamo rinnovare la nostra classe politica con persone che siano colte, preparate e che garantiscano la loro presenza a tutte le votazioni».

Non possiamo escludere una certa dose di sincerità, in questa dichiarazione che di primo acchito ci pare grottesca.

In effetti, come ha scritto Alexandre Zinoviev, «Il manipolatore dei media è il primo ad esserne manipolato, perché il macchinario veicola la propria visione del mondo», e se si osserva attentamente il comportamento dell’ologramma Berlusconi sullo schermo, si nota come lo stesso in ogni circostanza si adatta, da esperto animale da palcoscenico quale è, al mezzo mediatico, riconoscendone implicitamente la potenza e quindi riconoscendo in lui l’origine delle sue “fortune” politiche.

Si potrebbe azzardare, alla luce della precedente considerazione, che persino un demiurgo di provincia dall’ego sconfinato – come nel caso del nostro, il quale non troppo segretamente ambisce al controllo totale dell’informazione e a semplificare una società complessa secondo i personali desideri – alla fine propone modelli e veicola una visione del mondo non propriamente suoi.

L’inizio della rottura del monopolio dell’emittente pubblica risale all’esordio degli anni ottanta dello scorso secolo, in occasione dei diritti televisivi per la diretta di una manifestazione calcistica, ma dopo il periodo pionieristico e di “transizione” del Drive-in, trasmesso da Italia 1 fra il 1983 e il 1988 – prima della caduta del muro di Berlino e l’avvento prepotente e distruttore del neoliberismo, è bene rammentarlo – e il successo dei telegiornali Mediaset un nuovo modo di fare televisione, intrattenimento e informazione si è definitivamente imposto, di pari passo con un nuovo modo di fare politica.

Il successo del nuovo modo di fare televisione, oltre i vecchi e ormai usurati schemi di un’emittente pubblica non più sola, ha certo favorito e reso possibili le successive mutazioni su un terreno politico e sociale: venditori e testimonials in luogo di militanti, gadgets e club liberali che poco hanno a che vedere con le comunità e il territorio, partito-azienda e potere senza governo, esaltazione retorica di una libertà che non c’è, disinteresse di fondo per la realtà sociale.

Non sempre le novità a lungo andare si rivelano positive e volendo fare una battuta, i simpatici Ezio Greggio e Gianfranco D’Angelo, con la prorompente Tinì Cansino, dovranno prima o poi pubblicamente assumersi, volenti o nolenti, una certa responsabilità storica …

Anche se «Televisione, radio e giornali diventano sempre più obsoleti» e la rete li sta sostituendo, trasformandoli ogni giorno che passa sempre di più in vecchi media – come giustamente scrivono coloro che hanno creato con gran successo il blog di Beppe Grillo e dato un impulso decisivo alla inane “rivolta virtuale” innescata e confinata nell’etere, quelli della Casaleggio Associati, in Focus: La Blogosfera e i Media del febbraio del 2006 – la potenza mediatica del cavaliere, fondata sui media tradizionali e non sulla rete, non sembra ancora compromessa, in un paese che da sempre è un passo indietro rispetto all’Europa che conta.

Nella società italiana i vecchi media hanno, ancor oggi, un peso più rilevante di quanto possono avere in Francia o in Germania e fenomeni come l’analfabetismo “di ritorno”, la scarsa propensione alla cultura e all’apprendimento di ampie fasce di popolazione – funzionali ovviamente al consolidamento e all’espansione di questo particolare sistema di potere mediatico-politico – fanno sì che per interi strati popolari l’unica fonte di informazioni sia la televisione generalista, pubblica o privata, integrata, se va bene, dai titoli e dalla prima pagina dei quotidiani.

Lo stato di Mediaset non implica certo l’abbandono delle vecchie istituzioni, che restano in piedi e si invocano con accenti retorici alla bisogna, ma, semmai, il loro snaturamento progressivo attraverso le riforme – quella costituzionale in prospettiva futura, la separazione delle carriere in magistratura, e via dicendo – operandone lo svuotamento dei contenuti.

Inutile cercare paralleli strumentalmente, come fa certa sinistra stando comodamente all’interno di questo sistema, con il Fascismo-regime del ventennio, o accostare l’ologramma di Berlusconi alla figura di Benito Mussolini, confondendo il cavaliere con un neoduce, in quanto si tratta di un sistema di potere nuovo, di un'italica mutazione della democrazia rappresentativa di matrice liberale dal volto apparentemente benevolo – quello di Berlusconi che sorride, che saluta immaginarie folle plaudenti o che abbraccia, contrito, i terremotati d’Abruzzo – dietro il quale si nasconde comunque un apparato repressivo pronto per essere attivato.

Se dalle prossime elezioni, che rimangono un rito imprescindibile al fine di consacrare il potere e dare l’investitura al leader anche in questo “stato di fiction”, emergerà un forte astensionismo politico, con percentuali superiori al quaranta per cento, vorrà dire che qualcosa non ha funzionato e che i necessari livelli di audience, per poter procedere sulla strada della rinascita democratica e della definitiva trasformazione della società italiana, rischieranno di non poter essere mantenuti in futuro.

Ecco che allora al sorriso subentrerà un’espressione accigliata, la preoccupazione si diffonderà in coloro che stanno al vertice o comunque beneficiano di questo sistema – non esclusa la ridicola sponda dell’opposizione parlamentare, rappresentata dall’indefinibile Pd e da qualche nanetto del sottobosco politico – e lo spettro della repressione potrà materializzarsi più chiaramente.

Il compromesso raggiunto dopo Mani pulite con i grandi interessi sopranazionali, quelli di cui sono portatori i Signori della mondializzazione, rischierebbe di saltare e le estese “burocrazie politiche” indigene potrebbero perdere le loro posizioni di privilegio.

Con o senza Berlusconi e il suo apparato di televisioni, giornali, club e illusioni per tutti l’ordine dovrà essere mantenuto.

Non ci si limiterà, come accade ora, a perseguire l’immigrazione clandestina, escogitando soluzioni quali i centri di identificazione ed espulsione o cercando di indurre i medici a denunciare gli irregolari, non basterà istituire registri per schedare i senza casa, in larga parte innocui oltre che invisibili, e l’attacco al dissenso, ad un’opposizione politica e sociale che rinasce sarà diretto.

Ma ciò alla fine potrà rivelarsi un boomerang, segnando una distanza incolmabile fra le vecchie istituzioni nelle mani del potere mediatico-politico – fino a rendere inefficace questo stato di Mediaset che imprigiona il paese rimodellandolo – e una popolazione bruscamente risvegliatasi da un lungo sonno, popolato di spot elettorali, ciarpame pubblicitario e sogni distopici.


Cronache dal Regno d'Italia: la politica torna a corte

di Aramcheck - http://aramcheck.splinder.com - 5 Maggio 2009

Definitivamente l'Italia è monarchica, dopo poco più di 60 non sempre gloriosi anni, salutiamo con un pizzico di malinconia la Repubblica. L'Italia torna monarchica, culturalmente monarchica più di quanto non lo fosse stata dopo il Risorgimento. Né costituzionale né statutaria, il modello è autenticamente medioevale. Il corpo fisico del sovrano occupa ormai lo spazio pubblico, la politica esce dal polveroso e inefficiente parlamento e torna finalmente a corte.

Nella monarchia non c'è opposizione al sovrano, TUTTI sono sudditi. Lo scontro politico, l'aperta conflittualità dialettica si svolge al di sotto della figura regia, tra frange aristocratiche rivali che possono conrapporsi al re soltanto per interposta persona. Contrariamente che in democrazia la vita privata del re appartiene allo spazio pubblico, viene data in pasto al popolino. La figura del sovrano, ricompare nell'attenzione cortigiana che si dedica alla vita privata e al corpo fisico di sua Maestà, ai suoi vizi e ai suoi vezzi, distogliendo in parte l'attenzione del popolino dall'effettiva liceità e trasparenza del suo agire.

L'immagine del Re è un'estensione della sua camera da letto, le sue gonadi suscitano scandalo e apprezzamento, la sua nomea di uomo vigoroso, se non di vero e proprio satiro, inorgoglisce velatamente la nazione. Gli incontri di Stato con gli altri sovrani, sono feste di palazzo la cui riuscita non si misura in decisioni politiche, ma nella capacità del sire di rubare la scena pur comportandosi da un buon ospite. Il sovrano deve mostrarsi in buoni rapporti coi suoi pari, soprattutto quelli più potenti, per dimostrare di non essere da meno di nessuno, portando lustro al regno.

La rivoluzione forse non sarà un pranzo di gala, ma il G8 sì.

La politica al contrario si svolge all'ambito privato, decisa nelle segrete stanze, poiché vige l'Arcana Imperi e la decisione del sovrano non è sindacabile, né deve essere spiegata al volgo, non esiste l'Opinione Pubblica sulle vicende politiche. Ci sono ministri utili ma scomodi che, pur da sudditi e da consiglieri, osano manifestare critiche alla regia volontà, mostrano una propria linea politica e si ritagliano un proprio spazio sempre al fianco del Re, ma non alla sua ombra. Gianfranco Fini si è calato splendidamente nella parte, roba da Oscar: fa l'aristocratico fedele alla corona ma un poco indipendente, con la sicurezza dell'attore navigato.

Il PD non essendo un partito, ha accettato il ruolo della frangia aristocratica invisa al Re, organica al sistema monarchico e integrata nell'oligarchia, ma incapace per protocollo e convenienza di opporsi in maniera diretta alla volontà regia. In Italia non c'è opposizione politica, abbiamo i boiardi. Avversi alla frangia aristocratica rivale evitano lo scontro aperto col Re, esclusi dalla corte vi cercano alleati all'interno. Chi meglio della Regina, cioè colei verso cui il Re deve mostrare, almeno ufficialmente, devoto rispetto? Perfetto nel ruolo di boiardo Adinolfi, che interpretazione magnifica! Oggi ha dichiarato, sciogliendo ufficialmente le riserve e accettando il ruolo: "Il divorzio di Berlusconi è una questione politica. Mi auguro un'offensiva del Pd che chieda al paese già in occasione di queste europee di togliere fiducia a Berlusconi. E' un'occasione per il Pd".

In monarchia non c'è il parlamento, non ci sono elezioni, non ci sono programmi politici: la politica la decide il Re, è sua prerogativa in nome di tutti. Il Re può essere indebolito nella sua immagine, non sconfitto politicamente. Gli si può rendere la vita difficile nell'unico spazio esposto pubblicamente, quello cioè della vita privata affinché si persuada ad un compromesso o faccia una concessione, non gli si può sottrarre lo scettro: il potere gli spetta per diritto di sangue e per volontà divina Straordinario Adinolfi, dicevamo, ma tutta la classe dirigente del PD merita un applauso per come ha introiettato il ruolo entrando perfettamente nella psicologia piccolo-aristocratica.

Riconosco il metodo Stanislavskij quando lo vedo.

Dopo aver taciuto e accettato per anni la commistione tra le sostanze del sovrano e gli affari del Regno, la palese corruzione di certi funzionari regi e le amicizie indebite con i briganti del Protettorato di Sicilia di certi bracci destri del sovrano, per ottenere qualcosa adesso i boiardi si nascondono sotto le gonne della Regina. Alcuni ultimamente raccontano che a Roma la sera, passeggiando nei pressi della Piramide Cestia, dalle mura del cimitero acattolico si possono udire urla disperate provenire dalla tomba di Gramsci.

Non mancano gli altri ruoli, fino alle comparse il cast è praticamente completo. Di Pietro è un perfetto tribuno della plebe, incazzoso e casareccio, accolto a corte per urlare qualche lamentela prima di essere redarguito, deriso e cacciato a pedate. Coi modi da reuccio anche lui, seppur con le pezze al culo, burbero e amato dalla plebaglia. Pittori raffigurano l'essenza conoscibile del sovrano, cioè la sua effige esteriore, per donare l'immortalità alle sue glorie e ai suoi vizietti. Di Araldi e adulatori ne sono piene le redazioni, valletti (e soprattutto vallette) scorrazzano ovunque per la penisola. Buffoni e Giullari a bizzeffe, c'è perfino un menestrello napoletano che canta le canzoni scritte dal Re. Concubine non ne parliamo, c'è addirittura la fila.

Certo con le casse personali di cui dispone , sua Maestà poteva permettersi a corte un poeta migliore di Bondi (il ministro scrive davvero pessime poesie ermetiche e le pubblica pure), ma il Re non deve avere buon gusto: il gusto del Re è il gusto del Regno.

Infine quando il gioco si fa veramente grottesco, Sgarbi comincia a giocare. Malgrado i suoi trascorsi libertini è stato recentemente accolto dall'UDC, la casata dei nobili Guelfi e papisti usciti dalle grazie del monarca, e fa la morale al Re in difesa del sacramento del matrimonio e della regola famigliare. Quale ruolo assegnare al celebre critico? Quello del Vescovo ipocrita sembra il più adatto.

L'Italia è culturalmente monarchica, le elezioni saranno un formale plebiscito e tutta l'attenzione sarà puntata sugli appetiti reagli, sulla solidarietà o meno da offrire alla Regina e sul difficile momento che attraversa la Corona. Per le vie dei borghi è tutto un eccitato sussurrar pettegolezzi e mentre la fastosa commedia continua , ognuno pian piano trova posto a palazzo e indossa la propria maschera di scena.

Compreso il popolo bue.


Un caso destinato a rinfocolare l'antiberlusconismo

di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 5 Maggio 2009

Definirla una questione privata, ormai, è impossibile. Il problema è per quanto tempo rimarrà un caso politico; e se in prospettiva possa assumere altri risvolti. Sebbene deprimente, la lite coniugale fra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la seconda moglie, Veronica Lario, rappresenta la nuova frontiera dello scontro fra governo e opposizione. E vede, forse per la prima volta, un premier preoccupato dai contraccolpi della vicenda. Il sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni Letta, cita Niccolò Machiavelli per sostenere che in politica bisognerebbe evitare «disprezzo e odio». Ma i veleni lievitano.

Il dopoterremoto in Abruzzo, sul quale Berlusconi ha scommesso parte della propria credibilità, viene oscurato dalle cronache del suo matrimonio pubblicamente in pezzi. Le parole imbarazzanti della moglie sulla frequentazione di ragazze minorenni sono diventate materia di interrogazioni parlamentari. Nel Pd si parla di «perversioni morali» che sarebbero riflesse dalla cultura berlusconiana.

Cade nel vuoto l’appello di esponenti come Umberto Ranieri, a non colpire «nella sfera privata »: anche perché il Cavaliere insiste sul «complotto mediatico » orchestrato dalla sinistra. E dopo l’autodifesa iniziale sembra oscillare fra strategia del silenzio e controffensiva dura. Gli avversari hanno capito che la storia potrebbe durare a lungo; e che offre una forte tentazione di rivincita sugli ultimi successi berlusconiani. La sensazione è che il centrosinistra si renda conto di avere trovato un punto debole del premier.

E adesso addita e mescola pubblico e privato di Berlusconi, usando la sponda offerta dalla moglie. Si tratta di un filone scivoloso: anche se lui continua a ripetere che la sua popolarità non è intaccata dalle disavventure familiari. Ma rimane l’incognita, adombrata da Idv e Pd, dei contraccolpi extrapolitici delle allusioni della consorte alle frequentazioni con minorenni: un argomento imbarazzante, che può oscurare l’attività di governo.

Alla tesi del «complotto della sinistra», accreditata dal premier, il segretario del Pd, Dario Franceschini, replica definendola assurda. Come minimo, appare riduttiva. Ma anche sentir dire ai legali della signora Berlusconi che la pratica di divorzio «non è materia che va gestita sui giornali» fa un po’ sorridere: soprattutto dopo che ogni mossa è sembrata mirata a dare la massima eco ad una lite di famiglia, scaricandola inopinatamente sul Paese.