domenica 17 maggio 2009

La Palestina tra tensioni interne ad Al Fatah, miraggi di un governo di unità nazionale e colonizzazione israeliana in progress

Ieri sono ripresi al Cairo i colloqui tra Hamas e al Fatah per cercare di appianare le divergenze sulla formazione di un governo unitario palestinese e sulle spinose questioni della gestione della sicurezza nei Territori palestinesi.

Ma c'è tensione anche tra i ranghi di al Fatah di fronte all'ipotesi che Abu Mazen affidi nuovamente l'incarico di guidare il governo palestinese della West Bank occupata a un Salam al Fayyad che non rappresenta quasi nessuno nella società palestinese.
I malumori e le resistenze all'interno di al Fatah sarebbero all'origine del fatto che Abu Mazen abbia ancora rimandato la nomina del nuovo premier, che è attesa da giorni.

Intanto il capo dell'Ufficio politico di Hamas, Khaled Meshal, ha dichiarato che l'eventuale decisione di Abu Mazen di incaricare qualcuno della formazione di un nuovo governo palestinese, senza un consenso nazionale, sarebbe illegale e corrisponderebbe alla volontà di soddisfare una richiesta americana.


La strada verso un governo di unità nazionale è sempre in salita, mentre prosegue indisturbata la colonizzazione israeliana in terra palestinese.


La criminalizzazione delle critiche ad Israele è la fine della libertà

di Paul Craig Roberts - Online Journal - 8 Maggio 2009
Tradotto da JJULES per www.comedonchisciotte.org

Il 16 ottobre 2004 il presidente George W. Bush ratificò il disegno di legge della lobby israeliana, la legge di controllo globale dell’antisemitismo. Questo provvedimento imponeva al Dipartimento di Stato americano di monitorare l’antisemitismo in tutto il mondo.

Occorre definire il concetto di “monitorare l’antisemitismo”. E qual è la definizione? Fondamentalmente, come è stato specificato dalla lobby israeliana e da Abe Foxman, questa si riduce ad una qualunque critica mossa ad Israele e agli ebrei.

Rahm Israel Emanuel non sta pulendo i pavimenti alla Casa Bianca. Non appena otterrà l’approvazione della legge sulla prevenzione dei crimini legati all’odio razziale, sarà reato per ogni americano dire la verità su come Israele ha trattato i palestinesi e su come ha sottratto i loro territori.

Sarà reato per i cristiani riconoscere la responsabilità degli ebrei hanno messo in croce Gesù, così come descritto nel Nuovo Testamento.

Sarà reato denunciare l’eccezionale influenza della lobby israeliana sulla Casa Bianca e sul Congresso, come le risoluzioni (scritte dall’AIPAC) che elogiano Israele per i suoi crimini di guerra contro i palestinesi di Gaza che sono state approvate con il 100 per cento dei voti al Senato americano e con il 99 per cento dei voti alla Camera, mentre il resto del mondo ha condannato Israele per le sue barbarie. Sarà reato nutrire dubbi sull’Olocausto.

Diventerà reato far notare la smisurata presenza degli ebrei nei media, nella finanza e nella politica estera.

In altre parole, tutto questo significherà la fine della libertà di pensiero, della libera inchiesta e del Primo Emendamento della Costituzione. Qualunque fatto o qualunque verità che getterà fango su Israele sarà semplicemente proibita.

Considerata la spocchia del governo dgeli Stati Uniti, che porta Washington ad applicare le leggi americane in ogni paese ed organizzazione, che cosa accadrà alla Croce Rossa Internazionale, alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite e alle varie organizzazioni umanitarie che hanno chiesto che vengano effettuate delle indagini sull’aggressione militare di Israele contro la popolazione civile di Gaza? Verranno arrestati per aver commesso un crimine legato all’odio razziale per aver criticato “in modo eccessivo” Israele?

Questo è un problema serio.

Un recente rapporto delle Nazioni Unite, che deve ancora essere pubblicato per intero, incolpa Israele per i morti e dei feriti avvenuti all’interno delle sedi dell’ONU a Gaza. Il governo israeliano ha risposto sostenendo che il rapporto delle Nazione Unite è “tendenzioso e palesemente prevenuto”, il che lo colloca nella categoria del Dipartimento di Stato delle critiche eccessive e del forte sentimento anti-israeliano. Israele la sta facendo sempre franca ad utilizzare in modo così sfacciato il governo americano per mettere a tacere le critiche nonostante il fatto che la stampa e i soldati israeliani stessi abbiano mostrato le atrocità israeliane a Gaza e che l’omicidio premeditato di donne e bambini era stato sollecitato dai rabbini. Questi comportamenti sono chiaramente dei crimini di guerra.

E’ stata la stampa israeliana a pubblicare le immagini delle magliette indossate dai soldati israeliani che dimostravano che l’omicidio volontario di donne e bambini era ora la cultura dell’esercito di Israele. Le magliette sono la terribile espressione della barbarie. Ad esempio, una di queste mostra una donna palestinese incinta con il simbolo di un mirino disegnato sullo stomaco e la scritta “Uno sparo, due morti.” Queste magliette dimostrano che la politica israeliana verso i palestinesi è quella dello sterminio.

Da anni le critiche più feroci dei maltrattamenti israeliani verso i palestinesi arrivano dalla stampa israeliana e dai gruppi pacifisti israeliani. Ad esempio, il quotidiano Haaretz e e Jeff Halper dell’ICAHD hanno dimostrato di avere una coscienza morale che, a quanto pare, non esiste nelle democrazie occidentali dove i crimini di Israele vengono tenuti nascosti e persino elogiati.

Il disegno di legge americano sui crimini legati all’odio razziale sarà applicato anche per Haaretz e Jeff Halper? I commentatori americani che di per sé non dicono nulla ma che riportano semplicemente quello che Haaretz e Halper hanno scritto saranno arrestati per “diffusione dell’odio verso Israele, un comportamento antisemita?”

Molti americani hanno subito il lavaggio del cervello della propaganda secondo cui i palestinesi sono terroristi che minacciano l’innocente Israele. Questi americani vedranno la censura come parte della guerra necessaria al terrorismo. Accetteranno la demonizzazione dei loro concittadini che denunciano episodi incresciosi su Israele e saranno d’accordo sul fatto che quelle persone dovranno essere punite per aver aiutato i terroristi ed essere state loro complici.

E’ in corso uno sforzo enorme per criminalizzare le critiche ad Israele. Diversi docenti universitari americani sono caduti vittima di tentativi ben orchestrati di eliminare qualunque critica ad Israele. A Norman Finkelstein è stata negata la cattedra presso un’università cattolica a causa del potere della lobby israeliana. Ora questa lobby è in caccia del professor William Robinson, docente presso l’Università di California (a Santa Barbara). Il reato di Robinson? Il suo corso di relazioni internazionali comprendeva alcune letture che erano critiche nei confronti dell’invasione israeliana a Gaza.

La lobby israeliana, a quanto pare, è riuscita a convincere il Dipartimento di Giustizia [sic] di Obama che l’accusa di spionaggio mossa nei confronti di due funzionari ebrei dell’AIPAC, Steven Rosen e Keith Weissman, è un comportamento antisemita. La lobby israeliana è riuscita a far rinviare il processo per quattro anni e ora il Procuratore Generale Eric Holder ha fatto cadere ogni accusa. Però Larry Franklin, il funzionario del Dipartimento della Difesa accusato di aver trasmesso materiale segreto a Rosen e Weissman, sta scontando 12 anni e 7 mesi di carcere.

E’ un’incredibile assurdità. I due agenti israeliani non sono colpevoli per aver ricevuto dei segreti ma il funzionario americano è stato ritenuto colpevole per averglieli consegnati! Se non c’è alcuna spia coinvolta in questa vicenda, perché Franklin è stato accusato di aver trasmesso dei segreti ad una spia? La criminalizzazione delle critiche ad Israele distrugge qualsiasi speranza per l’America di avere una politica estera indipendente in Medioriente che sia al servizio degli interessi degli americani invece che di quelli degli israeliani. Elimina qualsiasi prospettiva per gli americani di sfuggire ad un’acculturazione infarcita di propaganda israeliana.

Per tenere prigioniere le menti americane, la lobby sta lavorando per definire come antisemita qualsiasi verità o qualsiasi fatto increscioso che sia relativo ad Israele. E’ possibile criticare qualsiasi altro paese del mondo ma è un comportamento antisemita criticare Israele e l’antisemitismo sarà presto un reato d’opinione universale nel mondo occidentale.

La maggior parte dei paesi europei ha già criminalizzato il mettere in dubbio l’Olocausto. E’ reato anche ribadire che l’Olocausto sia avvenuto ma concludere che siano stati uccisi meno di 6 milioni di ebrei. Perché l’Olocausto è un argomento su cui è assolutamente proibita una qualsiasi indagine? Come potrebbe una vicenda che poggia su dei fatti concreti essere minacciata da un gruppo di pazzoidi e di antisemiti? Di certo questa vicenda non ha bisogno di essere protetta dal controllo mentale.

Mettere in galera le persone perché nutrono dei dubbi è l’antitesi della modernità.


Note di traduzione

[1] Abraham (Abe) Foxman è un ebreo polacco emigrato nel 1950 negli Stati Uniti e presidente della Lega Antidiffamazione. La Lega Antidiffamazione è una lobby fondata in America nel 1913 da B’nai B’rith il cui scopo statutario è “fermare, per mezzo di appelli alla ragione ed alla coscienza e, se necessario, rivolgendosi alla legge, la diffamazione degli ebrei.” [NdT]



La Nakbah degli ebrei non sionisti
di Francesca Borri - peacereporter - 14 Maggio 2009

Intervista a Michel Warschawski, intellettuale israeliano, di fronte al 61° anniversario della nascita d'Israele

Figlio del rabbino capo di Strasburgo, Michel Warschawski aveva due parole possibili per definirsi, juif e hebreux. Ha scelto la seconda, colui che passa, che attraversa, ha scelto il confine, "un concetto non spaziale, ma sociologico, che implica un indagare costante sulla propria identità, sul Noi, in rapporto all'identità dell'Altro" - ha scelto l'inquietudine il dubbio, il pensiero inappagato e tutto Lorenzo Milani, quando l'obbedienza diceva, non è una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.

Perché era il 1982 quando per la prima volta, chiamati in Libano, i riservisti decisero di non partire, sostenendo che il loro compito era difendere Israele, non avventurarsi in guerre di aggressione: e si firmarono così Yesh Gvul, "che ha un duplice significato, c'è un confine, ovvero quello libanese, che non attraverseremo, ma anche c'è un limite, ovvero non tutto è permesso. Perché a volte il confine è un limite da attraversare, quando separa mediante identità a tenuta stagna, ma altre volte è un limite da tutelare, quando protegge la propria autonomia sovranità, autodeterminazione. E allora è necessario a volte attraversare a volte presidiare, abitare il passaggio, il solo luogo dove è possibile espandere la propria libertà - il predefinito, l'assimilato, il confine ereditato in riflesso acritico".

E da qui, allora, anche l'Alternative Information Centre, per l'idea più semplice e eversiva: tradurre tra arabo e ebraico, perché "dopo Sabra e Chatila, in piazza erano 400mila, ma non più di quaranta avevano mai parlato con un palestinese che non fosse il cameriere". E perché invece come Nanni Moretti, le parole sono importanti, chi parla male pensa male, e vive male - in una guerra in cui come in ogni altra, definire è creare, vincere convincere, e il ministero più ambito non è il ministero della difesa, ma dell'istruzione.

"Ma questa non è una aggressione, è una guerra contro il terrorismo. Solo legittima difesa".
Tutte le guerre di Israele sono state e ancora sono guerre di aggressione - a essere precisi, Israele è in sé un'aggressione. Non sono ovviamente contro l'esistenza di Israele, ma la prima delle parole che ingannano, qui, è il 1948, la cosiddetta ‘guerra di indipendenza' - mentre è stata essenzialmente una guerra di conquista e espulsione. Siamo precipitati in pochi anni da gruppi terroristici, a stati canaglia, a popoli interi qualificati indistinti come minacce esistenziali, e l'evoluzione non è quantitativa ma qualitativa, non si combatte più contro una politica, un governo, un obiettivo specifico, ma contro pericoli dalle definizioni sempre più vaghe. D'altra parte, se davvero qui fosse questione di Hamas, anche l'ultimo degli analisti consiglierebbe l'intelligence, non certo l'esercito. Invece così diventa una guerra, termine non meno fuorviante di terrorismo: come se la quinta potenza militare al mondo stia fronteggiando una forza equivalente, i loro razzi di latta contro il nostro nucleare: ma conviene, no?, perché ‘in guerra tutto è permesso'. La degenerazione semantica puntella la degenerazione etica. L'intera società palestinese è diventata il cancro di Israele - è la criminalizzazione del nemico, è Carl Schmitt, l'injustus hostis contro cui tutto è lecito, fino all'annientamento: i civili non sono più vittime accidentali, danni collaterali, semplicemente perché non sono più civili. E l'icona di tutto questo è Gaza, una ‘entità nemica'. Una cosa astratta. Neppure più una popolazione.

"Ma non abbiamo scelta. Non abbiamo nessuno con cui parlare".
Non è vero, abbiamo sempre avuto ‘qualcuno con cui parlare'. Ma con la sola eccezione di Egitto e Giordania, abbiamo sempre scelto di sabotare ogni tentativo di negoziato. Con un ragionamento molto semplice: se il nemico è forte, trattare è rischioso, ma d'altra parte se il nemico è debole, perché trattare? Non si comprende questa logica se non si comprende che il sionismo non è un progetto che ha raggiunto il suo obiettivo, esaurito il proprio corso storico - come ha ricordato Sharon, la guerra di indipendenza non è ancora finita. Non si discute di confini tra due entità definite, ma dinamiche, in movimento. E allora quando il nemico è fragile, e disposto a concessioni, è il momento di lavorare non all'accordo, ma a una ulteriore espansione. La giustificazione secondo cui ‘non esiste nessuno con cui parlare' non è la causa, ma il fine della politica israeliana: impedire che di là dal Muro si consolidi un soggetto forte, credibile, capace e pronto al dialogo. Con Oslo, Israele ha riconosciuto l'Autorità Palestinese, ma continuando insieme a minare la sua continuità territoriale, a devastare sistematicamente le sue infrastrutture più basilari, a privarla di ogni risorsa e reale autonomia, ostacolando il conseguimento di qualsiasi risultato concreto: Oslo non è stato che il sub-appalto della sicurezza e repressione, l'intento di radicalizzare i palestinesi verso Hamas - e in definitiva, impedire l'emergere di una controparte per il negoziato.

"Ma i palestinesi non perdono mai l'opportunità di perdere un'opportunità".
Siamo noi la saracinesca di ogni opportunità. Il cosiddetto processo di pace non è stato che la creazione di una relazione neocoloniale con l'Autorità Palestinese, e cioè la pace nella proposta della sinistra - secondo cui Israele ha raggiunto la massima estensione possibile, e ora possiamo procedere alla separazione, individuando gli indigeni con cui collaborare. Dirla autonomia, o indipendenza, alla fine è indifferente. Si tratta comunque di cancellare i palestinesi. Eppure all'epoca il dibattito è stato intenso, l'esito di Oslo non era predeterminato: ma tutto è finito con l'assassinio di Rabin, quando la sinistra ha privilegiato l'unità nazionale, e dunque l'accordo con gli estremisti di destra, all'accordo con i palestinesi - i confini interni, invece che esterni. Il cosiddetto ‘disimpegno' da Gaza, o ‘riposizionamento' a seconda della propaganda scelta, è invece la pace vista da destra, il ritorno all'unilateralismo: per Rabin era il momento di stabilire il confine, per Sharon ancora no, il confine poteva essere solo la Giordania. Ma il problema rimane lo stesso: convertire i palestinesi in ‘presenti-assenti'. Perché la deportazione non è più un'opzione realistica: e allora l'unica alternativa è escludere nei fatti i palestinesi dal paese, e sperare nel quiet transfer: incentivare l'emigrazione minando le condizioni di vita. Israele oggi è un gigantesco emmenthal, una mappa piena di buchi - e quei buchi, quella rimozione collettiva sono i palestinesi. Ma più in generale, e è evidente con Annapolis, ormai è la stessa retorica delle ‘conferenze di pace' a ingannare. Si guarda agli invitati. Bisogna invece guardare agli assenti. Conferenze di pace che escludono Hamas, ovvero la maggioranza dei palestinesi secondo democratiche elezioni, sono conferenze di guerra - non sono opportunità. Ma fondamentalmente io non penso che l'oppressore abbia titolo a giudicare l'oppresso, la tattica e efficacia della sua resistenza. Posso criticare solo se sono capace di indicare altre strade. Fossi palestinese, probabilmente avrei molto da non condividere: ma come israeliano, ho scelto di non giudicare. Dovrei forse dire ai palestinesi che colpire civili rende la battaglia meno popolare presso il loro nemico? Per me la dicotomia non è tra violenza e non violenza, ma resistenza e terrorismo: e la differenza non è semantica, ma giuridica, perché la resistenza armata è legittima - è il terrorismo, il colpire indiscriminato i civili, a essere illegittimo: anche quando le bombe piovono dagli aerei di Israele.

"Ma questa è un'occupazione liberale e illuminata. Israele è la sola democrazia del Medio Oriente".
Non è possibile essere insieme etnici e democratici, il sionismo è incompatibile con la democrazia - e non solo quando aggredisce, ma anche quando difende Israele, ovvero la sua natura ebraica intesa demograficamente come composizione prevalentemente ebraica: perché la democrazia è convivenza tra diversi, senza discriminazioni. La nozione israeliana di democrazia è esclusivamente procedurale: elezioni e principio di maggioranza. Ma la democrazia non si può svuotare di diritti, di cittadinanza. La democrazia qui è una specie di piramide, con alla base, larga, piena, gli ebrei israeliani, a cui è consentita anche la dissidenza. Ma poi si passa agli arabi israeliani, in particolare i loro diritti di proprietà e residenza, e l'eguaglianza viene immediatamente meno. Poi ancora i palestinesi dei territori, occupati, non amministrati, e derubati dunque completamente della democrazia. E al vertice, infine, i palestinesi della diaspora - derubati di molto più che la democrazia. Ma non solo. Perché per ogni diritto si ha sempre la possibilità permanente - e giuridicamente lecita, questo è l'aspetto cruciale - di eccezioni: e come insegna Carl Schmitt, sovrano è chi decide dello stato di eccezione. E non è responsabilità solo del governo, qui, o dell'esercito, o dei coloni. Il governo decreta, i tribunali confermano, la società accetta. In televisione sono frequenti i talk show del tipo ‘deportazione, sì o no?' - è una nuova, perversa normalità. In sessant'anni siamo passati da prigionieri a carcerieri, si spiega ai soldati come entrare in un refugee camp secondo la tecnica dei tedeschi nel ghetto di Varsavia... Già, ora siamo davvero una nazione come le altre nazioni.

"Ma uno stato ebraico è incompatibile con il ritorno dei palestinesi".
Il diritto al ritorno è un diritto inviolabile e indisponibile. Non è possibile mercanteggiare, su questo argomento: e certo poi non con un terzo in sostituzione del legittimo titolare. Prima che discutere di possibili opzioni soluzioni, percentuali, proiezioni, è necessario discutere di valori. Non ha senso parlare di un riconoscimento simbolico - una ammissione della propria parte di responsabilità nel dramma del 1948, come propone la sinistra, e dunque anche del diritto al ritorno, e in cambio però della rinuncia all'esercizio effettivo di questo diritto. Israele fu ammesso alle Nazioni Unite a condizione di rispettare la Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale: i rifugiati sono una questione centrale, non marginale. Perché il diritto al ritorno, o meglio, il ritorno dei palestinesi, è fondamentale per gli israeliani stessi. Altrimenti rimarrà sempre una massa di disperati, in bilico precaria nei paesi vicini, in guerra con noi indipendentemente da ogni formale accordo di pace: e soprattutto, altrimenti l'ipocondria sarà qui la nostra sola forma di salute. Non è solo questione di rimarginare le ferite dei palestinesi, ma anche guarire gli israeliani dalla paura che li sfigura in persecutori. Il ritorno dei palestinesi è la condizione per un autentico ritorno degli ebrei in Medio Oriente.

"Ma buoni steccati, buoni vicini".
Conosciamo, drammatici, gli effetti del Muro sulla vita dei palestinesi, ma è tempo di domandarci quali siano gli effetti sulla vita, e la psiche, degli israeliani. Non è una barriera materiale, è qualcosa di più, perché la separazione non è una tecnica, qui, ma un valore - e la separazione non solo dai palestinesi, ma dal resto del mondo: è il pilastro dell'ideologia sionista, l'ebraicità, e dunque l'omogeneità dello stato. L'obiettivo non è l'eliminazione fisica dell'Altro, naturalmente, ma per il sionismo, intrinsecamente, l'Altro è un problema, non una ricchezza. Non è un Muro, è una filosofia politica. Si discute solo del suo tracciato, non della sua legittimità giuridica o etica, il dubbio è semplicemente dove collocarlo, se più o meno lungo la Linea Verde, includendo o escludendo quanti e quali insediamenti. Ma un Muro non può essere un confine, perché un confine implica reciprocità, che si decida insieme chi entra e chi esce, e a quali condizioni. Se a decidere è una sola delle parti, non si chiama confine, si chiama prigione: e infatti si parla di hafrada, una separazione appunto unilaterale, coercitiva, non consensuale, hipardouth - e hafrada è quello che l'olandese traduce apartheid. Con la sinistra che è pienamente complice di questa filosofia. Non si è mai confrontata con i palestinesi, ha sempre spiegato loro cosa fosse meglio, cosa realistico, cosa no - tutti gli israeliani hanno sempre avuto qualcosa da insegnare agli arabi: se solo avessero accettato la generosa offerta del 1947... L'unica differenza è il paternalismo: il colonialista di sinistra crede di fare tutto per il bene dei palestinesi - una sorta di razzismo compassionevole. Perché poi, appena il colonizzato non recita più disciplinato il ruolo che gli è stato assegnato, e non mendica favori, ma rivendica diritti, il colonialista si sente tradito nella sua fiducia: e allora, con la coscienza tranquilla, legittima moralmente tutto. Per gli israeliani la pace non è questione di giustizia, ma di sicurezza - ovviamente la loro sicurezza. E allora il confine non è più tra israeliani e palestinesi, per me, ma tra persone che cercano la pace e persone che non cercano la pace - o meglio, persone che hanno una diversa concezione di pace. Anche questa è una parola che inganna. Perché il problema è il tipo di pace perseguito. Per me la pace è necessariamente una pace giusta, l'accento è sull'aggettivo, e non sul sostantivo. Non solo l'assenza di guerra, ma la fine dell'occupazione.

"Ma Israele è la salvezza degli ebrei. Lei è un traditore. Un anti-semita".
Ma come posso tradire una causa che non ho mai sentito mia? L'identità israeliana è una identità povera, impermeabile non solo all'Altro, ma anche all'ebraismo. Il sionismo è una duplice nakbah: l'israeliano è solo l'ebreo alto biondo, gli occhi celesti, scolpito e reinventato tra scuola e esercito in nome di un mitico passato biblico vecchio di duemila anni - l'ebreo ariano. Sappiamo la tesi di molti: l'Olocausto è accaduto anche perché gli ebrei hanno consentito accadesse - la mia compagna, nata qui, chiamava ‘saponetta' tutti quelli che non le sembravano abbastanza forti. D'altra parte, è stata Golda Meir a dire senza mezzi termini che Israele ha bisogno, per esistere, di un ‘moderato antisemitismo'. Perché poi i confini sono anche i confini interni, quelli che tagliano trasversalmente uno stato: e spiegano molto dei confini esterni, dal momento che solo l'emergenza nazionale tiene insieme sefarditi e ashkenaziti, destra e sinistra, laici e religiosi. Solo la Palestina tiene insieme Israele. Ed è per questo che la pace spaventa. Perché a quel punto inizierà la battaglia per la nostra identità... Cosa rimane di un israeliano, oltre il sionismo, oltre l'immagine in negativo di non-palestinese e non-arabo? Quando mi trasferii qui non scelsi Israele, ma Gerusalemme, questa pretesa capitale eterna e indivisibile che è in realtà la città meno israeliana di Israele. Una città irrimediabilmente ebraica, microcosmo della diaspora, un incalzare di periferie in cui si resisteva alla ruspa assimilatrice della modernità sionista, saldi nei propri accenti, le proprie tradizioni - perché le periferie, lontane dal centro, sono la possibilità di abitare la distanza: non solo guardare l'Altro, ma essere l'Altro. Il dubbio, sempre, il ripensamento, ancorati al tempo invece che allo spazio, la propria storia e cultura come la propria unica vera patria. Fino al 1967, Gerusalemme era fisicamente fuori da Israele. Ci si arrivava lungo una strada incuneata in territorio giordano. Era un altro mondo. E i cartelli infatti dicevano: attenzione, confine.

Scusi, ma allora perché non vivere altrove?
Non amo questa domanda. Il luogo in cui si vive non dice tutto di una persona. Quello che importa è cosa si fa o non fa, nel luogo in cui si vive - non erano criminali i tedeschi rimasti in Germania, ma quelli rimasti in Germania senza reagire al nazismo. Vivo in questo paese semplicemente perché è bellissimo. Partire non è un valore, solo una libera scelta, una scelta legittima, ma che non condivido - perché sarebbe anti-palestinese, non anti-israeliana. Bisogna rimanere qui. La parola più affilata è la parola concreta - la resistenza, da questa parte del Muro, è la normalità di chi non vive tra nemici, ma vicini. E poi - partire per dove? La questione palestinese non è che il laboratorio di una guerra globale neoliberista, preventiva e permanente, di una nuova narrazione dominante, quella dello scontro di civiltà. E è qui che il confine si fa frontiera, nel senso americano dei cowboy, l'inizio del selvaggio West, lo spazio della conquista e della dismisura. Non esistono più conflitti locali, solo fronti locali di un'unica guerra per la ricolonizzazione del mondo, attraverso istituzioni e valori presunti universali in nome di una nuova religione, quella per cui al di fuori del mercato non esiste salvezza - un apartheid planetario di centri contro periferie. Nessuno è illeso, nessuno è immune, si chiama Schengen il vostro Muro.



La silenziosa guerra delle demolizioni a Gerusalemme est
di Lina Sankari - Humanitè - 5 Maggio 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di VANESA

Colonizzazione. Distruzione di case, nuovi assedi……Si restringe il recinto nell’est della città, abitato da palestinesi.

Grandi pezzi della struttura metallica pendono sulle loro teste. I resti delle tegole distrutti minacciano di cadere in qualsiasi momento. Ai loro piedi, i mattoni della facciata delle case.

Questo scheletro di casa, raggomitolato in un buco sulle colline del Monte degli Ulivi, a Gerusalemme, appartiene alla famiglia palestinese Al Sayad. Allo stesso modo di altre 87 abitazioni del quartiere di Selwan, questa casa ha ricevuto un ordine di demolizione nel 2005. Per giustificare queste operazioni, la Giunta Municipale si basa sul progetto di uno spazio verde che si aggiungerà al parco archeologico. Tremila anni fa, questo luogo era la città di David, il re che avrebbe fondato una dinastia reale in Israele e che avrebbe trasformato Gerusalemme nella sua capitale. Adesso, tutti i diritti su questa terra sono stati congelati. Così, se la famiglia aumenta, non è possibile pianificare un’ampliamento. Per quanto riguarda gli edifici, sono limitati a due altezze. E nuove strade circondano i quartieri palestinesi con la finalità di impedirne l’espansione.

Le bandiere israeliane, piantate in maniera dispersa, marcano dappertutto lo stabilirsi in modo progressivo dei coloni israeliani a Gerusalemme dell’Est. I residenti palestinesi, che combattono una battaglia quotidiana contro lo sfratto, accusano la Giunta della volontà di invertire il bilancio demografico. “Ovviamente esiste una strategia diretta a svuotare l’est della città dai palestinesi e di occupare progressivamente tutta la terra. Ma le leggi internazionali stabiliscono che non si possono modificare gli statuti della città. Se le nostre costruzioni sono illegali, come afferma Israele, lo sono anche quelle dei coloni”, dice Adnan Husseini, Governatore palestinese di Gerusalemme, prima di affermare : “Resteremo qui qualunque siano i sacrifici”.

Oltre alle 88 case di Selwan, 300 abitazioni sono minacciate in una zona di 9 km quadri che racchiude 5 quartieri. Per Abel Shaluodi, che dirige un comitato degli abitanti di Selwan, è chiaro che questi interventi non sono un “semplice piano urbanistico, ma una operazione di pulizia etnica”, e domanda, “Come potrò crescere i miei figli in questo ambiente?”.

Salima Hannoun ha mandato via suo figlio da questo ambiente pieno di continuo timore. La casa dove vivono, nel quale era nato nel 1954, è anch’essa minacciata. Elettricista nel Consolato francese va avanti a processi da 30 anni e spende enormi somme di danaro per difendesi, per poter conservare casa sua. “Questi soldi potevano servire per costruire un’altra casa. Ma qui abbiamo costruito tutta la nostra vita e non l’abbandoneremo”; respira prima di continuare: “ Non posso mostrare il rogito che mi richiedono gli israeliani. Dal Mandato Britannico siamo qui e la proprietà di fatto è nostra.” Da alcuni mesi, osservatori internazionali fanno dei turni durante la notte per proteggere più che possono le loro case.

Dopo la distruzione di ogni casa, gli abitanti cercano di ricostruirla velocemente per continuare ad occupare il terreno. “E’ una forma di lotta; combattiamo per ogni metro quadrato”, spiega Abel Shaloudi. A Selwan, un abitante non ha potuto ricostruire casa sua immediatamente dopo la demolizione. “Quindi ha sostituito la casa con un camper e gli israeliani hanno inviato una notifica dove gli si indicava che avrebbero demolito anche il camper”. Betselem, il centro israeliano d’informazione sui diritti umani nei Territori Occupati, stima che dal 2004 più di 3.400 case sono state ridotte in macerie.

Hind Khoury, delegata della Palestina in Francia, ricorda le conseguenze umane delle diverse ristrettezze che colpiscono i palestinesi a Gerusalemme. “Questa città è cambiata. Esiste una disintegrazione nei rapporti ed è diventato molto difficile vivere qui. Allo stesso tempo, i valori che uniscono le persone si rompono per i divieti di circolazione. Gli abitanti di Betlemme non possono riunirsi con le loro famiglie a Gerusalemme. Attualmente tutti vivono isolati: qualcosa di totalmente estraneo per la società palestinese”.

Nel 2004, la Giunta ha approvato un nuovo piano regolatore che sostituisce quello del 1959. Incaricato di stabilire le proiezioni demografiche, sociali e economiche, questo documento è il riflesso urbano di una volontà politica. Prende la funzione di consolidare la sovranità di Israele sulla Città Santa. A questo riguardo, l’introduzione non è altro che un’illustrazione, dato che stabilisce Gerusalemme come capitale di Israele. Per riaffermare questo ruolo, i politici della città devono, quindi, compiere meticolosamente la distribuzione etnica della popolazione e soprattutto i desideri del governo: 70% israeliani, 30% palestinesi. Nel 1967, la città contava un 74% di abitanti israeliani contro un 26% di palestinesi. Nel 2002, il bilancio è oscillato a favore della crescita naturale dei palestinesi, con un 67% di israeliani e il 33% di palestinesi. Israele lavora con la prospettiva di un saldo migratorio positivo di residenti ebrei verso Gerusalemme. Nonostante questo, la città soffre della mancanza di attrazione a causa della situazione sulla sicurezza,della ortodossia in auge e di un debole mercato lavorativo. Non si può fare affidamento sui laici per popolare la città, anche se la Giunta può ricorrere alle famiglie ebraiche nazionaliste, a favore della colonizzazione, sostenute dall’estrema destra. A questi progetti bisognerebbe aggiungere quello della costruzione di un tram nell’est della città da parte del consorzio francese City Pass, che raggruppa le società Alstom e Connex. Questo tram metterà in comunicazione le colonie di Pisgat Ze’ev, Maale Adumim con l’ovest di Gerusalemme. Cioè, un annessione di fatto dalla parte dell’est di Israele e, conseguentemente, più terre confiscate.

“ Le demolizioni di case e il tram sono un modo, dopo il 1948 e il 1967, di continuare, ancora una volta, a cancellare dalla mappa i palestinesi.” Spiega Fadwa Khader, membro della direzione del Partito del Popolo Palestinese. “A Gaza esiste una guerra dichiarata, ma quella che si porta avanti a Gerusalemme dell’Est è anche un nuovo tipo di guerra”. Più silenziosa che quella fatta con le bombe e quindi più insidiosa. Dalla conservazione dello statuto della città e dell’est della stessa come la capitale di un futuro Stato palestinese dipende, quindi un'altra battaglia: quella per salvaguardare l’identità palestinese. Hind Khouri analizza: “Gerusalemme è un microcosmo. Quello che succede in tutti i territori è condensato qui. La questione palestinese è la storia di una espulsione, ma questa capacità di ribellione e di resistenza ci dà, a tutti noi, la dimensione umana”. Da parte sua, Daniel Seidemann, direttore della Ong Ir Amim, lo scorso aprile avvertiva che: “ Se continua la colonizzazione presto sarà troppo tardi per una soluzione del conflitto basata su due Stati. Sarà l’ostacolo definitivo”. Attualmente, 190.000 israeliani vivono in circa 12 quartieri a Gerusalemme Est, contro 270.000 palestinesi.


Gaza, ricordate?
di Gideon Levy - Haaretz - 19 Aprile 2009
Traduzione di Manuela Vittorelli, membro di tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica.

Alyan Abu-Aun giace nella minuscola tenda, accanto alle sue stampelle. Fuma sigarette e ha lo sguardo fisso nel vuoto. Tiene in braccio il suo bambino. Nella tenda, che ha le dimensioni di una piccola stanza, si accalcano dieci persone. È la loro casa da tre mesi. Non rimane nulla della loro precedente abitazione, distrutta dalle bombe dell'Esercito di difesa israeliano durante l'Operazione Piombo Fuso. Sono profughi per la seconda volta; la madre di Abu-Aun ricorda ancora la sua casa a Sumsum, una cittadina che un tempo si trovava vicino ad Ashkelon.

Abu-Aun, 53 anni, è stato ferito nel tentativo di fuggire quando la sua casa di Beit Lahia, nella Striscia di Gaza, è stata bombardata. Da allora cammina con le stampelle. Sua moglie ha partorito proprio nel mezzo della guerra, e adesso il neonato vive con loro nel freddo della tenda. La tenda... è volata via durante la tempesta che ha divorato la Striscia di Gaza mercoledì scorso, così la famiglia ha dovuto rimontarla. Ricevono acqua solo occasionalmente, in un container, e una piccola baracca di latta fa da bagno per le 100 famiglie di questo nuovo campo profughi, “Campo Gaza”, nel quartiere Al-Atatra di Beit Lahia.

Quest'ultimo finesettimana Abu-Aun era particolarmente amareggiato; la Croce Rossa ha rifiutato alla sua famiglia una tenda più grande. E non ne può più di mangiare fagioli. Per tre mesi, la famiglia Abu-Aun e migliaia di altre persone vivono in cinque accampamenti di tende costruiti dopo la guerra. Non hanno neanche cominciato a sgombrare le macerie delle loro abitazioni, figuriamoci costruirne altre. Migliaia di persone vivono all'ombra delle rovine delle loro case, affollando piccole tende insieme alle loro famiglie: decine di migliaia di persone rimaste senza un tetto, e alle quali il mondo non si interessa più. Dopo la conferenza dei paesi donatori, svoltasi in pompa magna a Sharm el-Sheikh un mese e mezzo fa con la partecipazione di 75 paesi che hanno deciso di stanziare un miliardo di dollari per ricostruire Gaza, non è successo niente.

Gaza è assediata. Non ci sono materiali da costruzione. Israele e il mondo stanno dettando condizioni, i palestinesi sono incapaci di formare il governo d'unità che sarebbe necessario, i soldi e il cemento non si vedono e la famiglia Abu-Aun continua a vivere in una tenda. Anche i 900 milioni di dollari promessi dagli Stati Uniti sono rimasti sotto chiave. Non si sa se verranno mai tirati fuori. La parola dell'America.

Sono passati esattamente tre mesi da quella guerra tanto discussa, e Gaza è stata ancora una volta dimenticata. Israele non è mai stato interessato al benessere delle sue vittime. E adesso anche il mondo ha dimenticato. Due settimane senza neanche un razzo Qassam hanno spazzato via Gaza dai principali temi di discussione. Se gli abitanti di Gaza non si sbrigano e riprendono a sparare nessuno si interesserà più alle loro condizioni. Non è certo una novità, ma è un messaggio particolarmente rattristante e doloroso in grado di scatenare il prossimo ciclo di violenza. E a quel punto di certo non riceveranno aiuti, perché staranno sparando.

Qualcuno deve assumersi la responsabilità per il destino della famiglia Abu-Aun e di altre vittime come loro. Se fossero state ferite in un terremoto il mondo probabilmente le avrebbe aiutate a riprendersi molto tempo fa. Perfino Israele avrebbe mandato subito convogli di aiuti della ZAKA, della Magen David Adom, perfino dell'Esercito di difesa. Ma la famiglia Abu-Aun non è stata ferita da un disastro naturale, ma da mani e carne e sangue israeliani, e non per la prima volta. Dunque: nessun indennizzo, nessun aiuto, nessuna riabilitazione. Israele e il mondo sono troppo preoccupati per ricostruire Gaza. Sono rimasti senza parole. Gaza, ricordate?

Dalle rovine della famiglia Abu-Aun nasce una nuova disperazione. Sarà più amara di quella che l'ha preceduta. Una famiglia dignitosa di otto persone è stata distrutta, fisicamente e psicologicamente, e il mondo si tiene a distanza. Non dobbiamo aspettarci che Israele risarcisca le sue vittime o ricostruisca le case che ha distrutto, anche se sarebbe evidentemente nel suo interesse, per non parlare dell'obbligo morale, argomento che non viene nemmeno toccato.

Ancora una volta il mondo deve rimediare ai disastri compiuti da Israele. Ma Israele sta ponendo un numero sempre maggiore di condizioni politiche per fornire urgente soccorso umanitario. Ricorre a vuote giustificazioni per lasciare Gaza distrutta e per non offrire l'aiuto che Gaza merita e del quale ha disperato bisogno. Gaza è stata lasciata ancora una volta alle proprie risorse, la famiglia Abu-Aun è stata abbandonata nella sua tenda, e quando le ostilità riprenderanno sentiremo parlare ancora una volta della crudeltà e della brutalità... dei palestinesi.


L'embargo di Gaza colpisce anche gli invalidi
di Luisa Morgantini - Liberazione - 15 Maggio 2009

Hanno lavorato per anni in aziende israeliane. Hanno pagato le tasse e il contributo assicurativo rispettando la legislazione locale in materia di lavoro, imposizione fiscale e assicurazioni. Ma poi in Israele, nelle fabbriche, nei cantieri o nei campi, hanno anche avuto degli incidenti sul lavoro riportando ferite invalidanti. Fino a dopo gli accordi di Oslo in Israele ogni mattina partivano da Gaza più di 80mila lavoratori, arrivavano al passaggio di Eretz alle quattro del mattino per riuscire ad essere in tempo al lavoro in Israele, rientravano dopo le 18, stanchi morti per ricominciare il mattino.

Progressivamente in questi anni Israele ha chiuso la frontiera per i lavoratori di Gaza al loro posto vi sono in parte nuovi immigrati poveri ebrei ma sopratutto lavoratori asiatici o romeni. Ora, a causa dell`embargo israeliano nella Striscia di Gaza, più di 5000 di quei lavoratori Palestinesi invalidi non percepiscono più le indennità assicurative di cui hanno diritto: i trasferimenti dei fondi per le invalidità riportate come quelli sulla pensione maturata sono stati bloccati a gennaio 2009 perché le banche di Israele si rifiutano di trasferire i soldi sui conti di banche basate nella Striscia.

Significa anche questo quell`assedio di Gaza, che da oltre due anni continua a soffocare la popolazione civile costringendola ad una punizione collettiva in cui bambini, donne, anziani, uomini sono privati di cibo, carburante, medicine, - solo a giorni centellinati attraverso i valichi sigillati- e in cui centinaia e centinaia di malati muoiono in assenza di cure come della possibilità di farsi curare all`estero per un permesso non concesso dalle Autorità Israeliane. Dopo la recente aggressione Piombo Fuso, che ha causato la morte di oltre 1400 persone, la gran parte civili e bambini, ed il ferimento di oltre 5000 Palestinesi della Striscia con bombe al fosforo bianco e armi non convenzionali, questa decisione appare conce l`ennesima beffa che aggrava la già disperata situazione dei diritti umani e della legalità a Gaza.

Ma al peggio, dicono, non vi è mai limite. E allora, il peggio arriva con l`ulteriore notizia diffusa dal Centro per i diritti umani Al Mezan (http://www.mezan.org/en/) che riporta come una Compagnia privata israeliana, che si occupa di assistenza legale, stia cercando di ottenere la procura dai residenti di Gaza che hanno diritto alle indennità di assicurazione da parte del sistema nazionale Israeliano ma che non possono riceverle a causa dell`embargo: gli avvocati israeliani si occuperebbero personalmente del trasferimento dei soldi ma domandano una percentuale ancora non definita sulle indennità di assicurazione maturate. Una pratica di vero e proprio sciacallaggio, una truffa.

L`ennesima violazione della legalità denuncia il Centro Al Mezan che -in cooperazione con Adalah, Centro Legale per ì diritti della minoranza Araba in Israele ha inviato lettere al Direttore della Bank of Israel, al Direttore del National Insurance Institute of Israel e al Ministro delle Finanze Israeliano, chiedendo di versare il denaro dovuto ai lavoratori palestinesi e annunciando battaglia legale con una petizione - in via di preparazione- da sottoporre alla Corte Suprema Israeliana al fine di chiedere l`immediato e incondizionato trasferimento delle indennità maturate ai Palestinesi aventi diritto nella Striscia di Gaza. Queste persone hanno il diritto di ricevere le somme che spettano loro senza nessun taglio: quei lavoratori, infatti, erano obbligati a pagare assicurazione e tasse dall`inizio del loro lavoro fino alla data dell`infortunio, come ogni lavoratore israeliano.

Dopo gli incidenti, hanno presentato richieste per indennizzi all`Istituto di Assicurazione Nazionale Israeliano in accordo con la legge nazionale israeliana. Ogni richiesta è stata valutata da un comitato medico che ne ha determinato il tipo e la percentuale di invalidità. In alcuni casi, l`invalidità era del 100%. Il comitato medico ha confermato caso per caso che gli infortuni si sono verificati sul luogo di lavoro e ne ha ordinato il rimborso. Alcuni di questi lavoratori Palestinesi ricevevano i fondi dalle assicurazioni sin dal 1978. Poi la Banca di Israele ha deciso la sospensione di tutte le sue transazioni con le banche della Striscia di Gaza, inclusa la Bank of Palestine.

L`embargo e la chiusura di Gaza continuano e la Comunità internazionale mostra ancora una volta impotenza e complicità con la politica illegale dei governo Israeliano. Non riesce neppure a fare rispettare le minime regole umanitarie, e le Nazioni Unite continuano a denunciare la mancanza di libertà di movimento anche dei beni umanitari: dice John Ging, direttore dell` Unrwa, che non si può nemmeno dire che Gaza sia una prigione a cielo aperto perché nelle prigioni almeno il cibo c`è. E intanto gli invalidi non ricevono la loro pensione e nella West Bank continua l`occupazione militare e la costruzione di insediamenti.




La lunga notte di Al Fatah
di Stefania Pavone - Altrenotizie - 14 Maggio 2009

Che Al Fatah, partito di Abu Mazen, sia alle soglie di una crisi profonda, è testimoniato dai continui rinvii su cui si gioca la partita di un attesissimo congresso. Ma il futuro di una formazione politica che, con la geniale invenzione dell’Olp - creatura politica partorita dalla mente di Arafat - ha fondato le basi del nazionalismo arabo della Palestina, sembra sospeso nell’aria. Troppe le contraddizioni interne, debole l’impianto programmatico e politico e anche piuttosto confuso a dire il vero. Ma il momento della verità, lento ma inesorabile si avvicina. La crisi attuale di Al Fatah sta strangolando il partito al punto che autorevoli commentatori esteri ritengono che esso sia al punto di snodo di una crisi epocale, che minaccia direttamente la sua stessa continuità storica.

Un esempio? Da anni, la sesta conferenza generale della formazione politica palestinese è il rovescio di un evento: annunci su annunci, a vent’anni dall’ultima conferenza, promettono date e luoghi che, puntualmente, saltano. Al punto che il fantasma del congresso di Al Fatah è divenuto un gioco di prestigio nei commenti e nei gossip che si annuvolano attorno all’argomento.

Ufficialmente, Al Fatah spiega: i rinvii sono il frutto di una lunga tessitura dei lavori di preparazione. Ma vent’anni sono tanti, troppi; e allora dov’è il vero? Eccolo: le divisioni interne al partito sono così radicali che la lotta politica interna potrebbe affossare Al Fatah come progetto politico. Ancora: la fazione che detiene il potere ha tutto l’interesse a evitare il congresso e delle elezioni interne che potrebbero mutare di segno la geografia politica del partito.

Così la conferenza di Al Fatah si pone come punto di snodo di un complesso gioco di potere che investe il complesso della causa palestinese: la crescita dell’opposizione interna al partito alla vecchia guardia e l’approfondimento delle divisioni interne significano che la posta in gioco è talmente alta da giustificare una comica girandola di rinvii. Chi sta vincendo dentro Al Fatah? Difficile dirlo. Il paradigma del conflitto tra una vecchia e una nuova guardia semplifica le molteplici fratture che percorrono il partito che fu di Arafat.

Infatti, ci sono quelli tornati dall’esilio negli anni’90 che hanno ripreso, in nome della causa di liberazione nazionale, le pratiche di corruzione che contrassegnano spesso l’operato degli uomini dell’Autorità Palestinese. Poi, quelli che hanno il potere legale del partito. Ma è un programma politico comune a mancare. Nella geografia del potere di Al Fatah, le fratture corrono tra quelli che vogliono la continuità delle trattative del processo diplomatico e sedere ai tavoli che contano e coloro che invece prediligono la resistenza civile come metodo di lotta anticoloniale.

Anche la funzione dell’Autorità nazionale palestinese è messa in discussione: alcuni la vogliono mantenere, altri ritengono che sia utile esautorarla. La profonda crisi di Fatah è il riflesso della trasformazione della mappa del potere in Palestina. La sfida con Hamas ha prodotto un sistema di doppia autorità in quelle terre e la critica all’Ap come strumento della diplomazia di pace. La giungla dei poteri ha condotto la Palestina sull’orlo di una guerra civile e cambiato di segno la natura del potere: dal nazionalismo laico di Al Fatah si è passati al nazionalismo religioso di Hamas.

In nome di Allah, Hamas rifiuta il processo di pace e Al Fatah si disperde, di contro, in una pletora di sigle e leaders che non poco ha contribuito alla sconfitta elettorale del 2006. La Palestina è ancora divisa nonostante “Piombo Fuso” e non si vede all’orizzonte quel governo di unità nazionale che, a più voci, è stato annunciato. Anzi, la guerra d’Israele ha rafforzato il significato simbolico di Hamas come forza di resistenza autenticamente palestinese. Parallelamente è cresciuto il disprezzo verso Al Fatah, partito cinico e collaborazionista.

Esacerbato dal fallimento del processo di pace, su cui molti suoi leaders hanno costruito prestigiose carriere politiche, Al Fatah non sa mettere in campo una strategia rinnovata che conduca a dotare i palestinesi di pieni diritti politici. Un cambio della guardia nel Comitato centrale e nella Guardia Rivoluzionaria non scioglierebbe l’enigma del suo confuso programma politico. Intanto a Gaza la guerra continua in sordina e nel silenzio del media e il processo di pare ripartire, ma il futuro di Fatah è avvolto da nubi oscure. Come uscirà dalle secche della propria crisi la prossima direzione politica del partito, è tutto da capire. Avranno i nuovi uomini di Fatah l’autorevolezza di quelli degli anni del leggendario Arafat?