Pochi giorni fa il presidente venezuelano Hugo Chavez ha firmato una legge che nazionalizza un'altra porzione del settore petrolifero, per la felicità delle multinazionali del petrolio.
E mentre le relazioni del Venezuela con gli USA sono in miglioramento, dopo l'avvento di Obama alla Casa Bianca, quelle con l'Europa rimangono invece stabilmente di segno negativo.
Chavez mangia altro petrolio
di Roberto Zanini - Il Manifesto - 9 Maggio 2009
«Domani cominciamo. Signori della Luna tappatevi le orecchie, perché i lamenti della borghesia arriveranno fin lassù. Ora firmo, per favore la telecamera qui, questa è costruzione del socialismo. Che sia fatto!» E' in televisione, come spesso gli accade, che il presidente del Venezuela Hugo Chavez firma platealmente la legge che nazionalizza un'altra bella porzione di industria petrolifera del paese. Ma questa volta non è il Venezuela saudita che approfitta del caro-greggio. E' un Venezuela più terrestre, che il calo dei prezzi ha trascinato nella crisi globale, che ha fatto dei debiti e ha trovato un peculiare modo di pagarli.
Due anni fa, col petrolio alle stelle, il governo di Chavez aveva costretto una ventina di multinazionali a rinegoziare i contratti e entrare in società a maggioranza pubblica. L'anno dopo aveva fatto lo stesso con le concessionarie della fascia dell'Orinoco, petro-paradiso da miliardi di dollari. Tutte avevano accettato il cambiamento, solo Exxon-Mobil e Conoco-Philips avevano fatto ricorso a tribunali internazionali. Oggi, col prezzo del greggio precipitato a 57 dollari al barile dopo esere scivolato anche a 40 (meno 70% rispetto al suo picco massimo), Chavez passa la seconda mano di nazionalizzazioni e rafforza il controllo dello stato sul petrolio.
La nuova legge permette allo stato di assumere il controllo di compagnie di servizi all'estrazione (le condutture di acqua e vapore che servono a cavare petrolio dal sottosuolo o comprimere i gas, le società di porti e imbarcazioni che trasportano uomini e barili) e assegna alla Pdvsa il diritto di gestirle, e il dovere di riassumere i loro 8.000 lavoratori. Questa volta non tocca quindi alle multinazionali che sfruttano i giacimenti ma ai fornitori di servizi, compagnie più piccole ma ugualmente centrali nel processo produttivo del petrolio venezuelano. Quasi tutte vantano crediti nei confronti della compagna petrolifera pubblica Pdvsa. A volte grandissimi crediti. Lo scorso anno, Pdvsa doveva alle compagnie di servizi 8 miliardi di dollari.
Dopo l'approvazione parlamentare della nuova legge, militari venezuelani hanno preso il controllo di centinaia di imbarcazioni e di moli a Ciudad Ojeda, sulla costa est del Lago di Maracaibo. La più grossa installazione «riconquistata» è il molo della società Williams Companies Inc, che gestisce un sistema di trasporti e una stazione di pompaggio del gas che aumenta la portata di uno dei pozzi più redditizi del paese. Williams Companies vantava un credito con Pdvsa di 241 milioni di dollari, denaro che la petroliera pubblica non pagava da tempo. Nei mesi scorsi il trasporto di petrolio sul Lago di Maracaibo si è spesso fermato a causa degli scioperi promossi da lavoratori rimasti senza salario per mesi. Le società davano la colpa a Pdvsa che non pagava, Pdvsa dava la colpa al crollo del greggio e accusava i fornitori di servizi di non collaborare.
L'aquisizione pubblica scommette sulla capacità di Pdvsa di gestire i servizi all'estrazione, e di poter fare utili (quantomeno non perdere) anche col petrolio a 40 dollari al barile, che è la quota su cui è stato ridisegnato il bilancio del Venezuela dopo un'iniziale previsione di 60. Alla fine di marzo infatti, di fronte al dimezzamento dei proventi del petrolio rispetto alle previsioni di bilancio, il governo del Venezuela aveva spedito l'esercito a prendere il controllo di porti e aeroporti e aveva proposto un consistente taglio delle spese pubbliche, taglio che non toccava - anzi aumentava - il salario minimo.
Nel mirino della nuova raffica di nazionalizzazioni ci sono giganti americani come Halliburton e Schlumberger, pesi più leggeri come Baker Hughes e Bj Services, società britanniche come la Wood Group, presidiata ieri dai soldati. Per il ministro dell'energia Rafael Ramirez il governo renderà presto pubblica la lista delle compagnie che saranno assoggettate al controllo dello stato, che saranno compensate «calcolando il valore sui libri contabili» (se qualcuno ha ritoccato i conti per pagare meno tasse ora è nei guai) e detraendo i debiti con i lavoratori. Il colpo più duro la nuova legge chavista lo assegna proprio sulle compensazioni: le acquisizioni dello stato potranno essere pagate in bond.
Non tarderanno ad arrivare le proteste degli investitori, i quali non tollerano che i petrodollari finanzino i popolari programmi sociali del governo invece di essere incassati o reinvestiti nell'industria. E questo nonostante una crescita media del Pil del 13,5% da dieci anni, il dimezzamento del tasso di povertà, la triplicazione delle spese sociali pro-capite, il raddoppio delle iscrizioni alle scuole superiori... Ma la stretta nazionalizzatrice arriva in un momento in cui Hugo Chavez è meno detestato e persino il segretario di stato americano Hillary Clinton ha di recente ammesso che la strategia della vecchia Casa Bianca, isolare i «nemici» latinoamericani, «non ha funzionato» ed è servita solo a spianare la strada a paesi come la Cina.
A puntare il fucile su Chavez resta l'Europa, con il parlamento europeo che l'altro giorno ha votato un documento che «esprime enorme preoccupazione per il deterioramento della democrazia in Venezuela» causato «dall'autoritarismo crescente del presidente Hugo Chavez». A votarlo solo 27 europarlamentari, su 785. Ma è un dettaglio.
Il parlamento europeo condanna il Venezuela. Erano 27 in aula ma la stampa non lo dice
di Gennaro Carotenuto - www.gennarocarotenuto.it - 8 Maggio 2009
Aprendo il quotidiano “El País” di Madrid di stamane, giornale dal quale spesso i nostri giornali ricalcano l’informazione latinoamericana, si trova un lungo e soddisfatto articolo. Il Parlamento europeo, come fosse un tribunale, avrebbe condannato il Venezuela con parole senza precedenti. Virgolettando si informa che ha espresso la sua “enorme preoccupazione per il deterioramento della qualità della democrazia in Venezuela” oramai “in grave rischio di collasso” per la “concentrazione di potere e l’autoritarismo crescente del presidente Hugo Chávez”.
Inoltre il parlamento europeo -cosa a ben pensarci inaudita- solidarizza con i capi dell’opposizione che soffrono persecuzioni politiche e prosegue ricopiando e approvando gran parte della risoluzione del Parlamento Europeo. Cosa c’è che non va in questa risoluzione? Cosa nasconde la multinazionale Prisa che edita il quotidiano spagnolo?
Quello che “El País” nasconde, non si trova neanche a cercarlo con la lente d’ingrandimento, e rappresenta un chiarissimo caso di disinformazione, è che la risoluzione si è approvata in un’aula deserta con appena 27 parlamentari su 785, il 3% del totale.
Non solo, “El País” tergiversa sul fatto che tutti i 27 votanti appartengono a gruppi di destra e di estrema destra e che il 97% dei parlamentari europei (758 contro 27) di destra, centro e di sinistra hanno semplicemente snobbato una risoluzione che in un documento si definisce dal contenuto che mostra “un chiaro accanimento” antivenezuelano e “un linguaggio artatamente distruttivo”. Insomma spazzatura ma che al gruppo Prisa, da anni impegnato in America latina come punta di lancia delle multinazionali iberiche, fa gioco.
Ovvero la notizia è semmai che il 97% dei parlamentari europei rifiuta di condannare il Venezuela. È inoltre peculiare il fatto che “El País”, quotidiano che appoggia in Spagna il PSOE (Partito Socialista al governo) si spelli le mani per una risoluzione che nessun parlamentare del PSE (Partito Socialista Europeo) ha avuto il cuore di votare perché impresentabile.
Il caso che ha originato la risoluzione votata dai neofascisti e affini europei piaciuta tanto a “El País” è però molto importante. È quello di Manuel Rosales, candidato presidenziale nel 2006 contro Hugo Chávez ed ex-sindaco di Maracaibo e governatore dello Stato di Zulia che, accusato di corruzione e arricchimento illecito, si è proclamato perseguitato politico e ha chiesto e ottenuto asilo in Perù dove governa Alán García, amico intimo dell’ex presidente venezuelano Carlos Andrés Pérez (e di Bettino Craxi) a sua volta destituito per corruzione nei primi anni ‘90. Chi scrive ha brevemente conosciuto Manuel Rosales e ne ha scritto come l’espressione di una maturazione dell’opposizione che per la prima volta si opponeva a Chávez in maniera non golpista.
Tuttavia gli innumerevoli casi di malversazione di fondi pubblici e di corruzione che hanno coinvolto in questi anni Rosales non possono essere rubricati come persecuzione politica. Quello che né i parlamentari di destra e ultradestra a Bruxelles né “El País” dice è che è la stessa INTERPOL a classificare come pienamente giustificata la richiesta di estradizione per Rosales perché non vi si desume “alcun pericolo di persecuzione politica, razziale, religiosa o militare”.
È il presidente peruviano, per suoi fini, ad aver concesso l’asilo senza che alcuna persecuzione fosse in atto e sottraendo un inquisito alla giustizia venezuelana. Questa ha tutto il diritto di inquisire Rosales, che dovrebbe dimostrare come ha fatto ad arricchirsi smisuratamente in meno di dieci anni da pubblico amministratore.
La verità è un’altra ed è un punto debole senza via di uscita per il governo di Hugo Chávez. Se la magistratura si occupa di corruzione finisce inevitabilmente per occuparsi degli enormi arricchimenti illeciti degli ultimi cinquant’anni che spesso corrispondono a personaggi attivi nell’opposizione e incorre nell’accusa di voler perseguire oppositori politici. Se non lo fa però, e negli ultimi dieci anni lo ha fatto troppo poco, il bubbone della corruzione endemica non verrà mai inciso. Ma non aspettatevi che questo ve lo spieghi “El País”.